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Blu e la crudele arte di crescere. Intervista a Giorgia Tribuiani



In una assurda lotta tra etimologia e realtà, quest’ultima ha spesso la meglio, creando ambiguità di senso tra somiglianze infondate. C’è un superamento e un inganno, tra quello che ci dice di rassicurante e certo la carta e quello che si consolida nella tridimensionalità dei giorni. Così è anche per due verbi capitali, come adolesco (diventare adulto) e doleo (provare dolore), estranei a livello etimologico, fratelli nel suono e nell’esperienza.
L’adolescenza è uno dei momenti soglia, tanto magico quanto crudele e difficilmente ripetibile se non nella mente che guarda indietro. C’è il rischio di dimenticare, di porre una lontananza verso ciò che non ritorna: per questo serve una dose di dimestichezza anche con il proprio passato: per domare, conoscere e dire. Di questo è un buon esempio Blu, l’ultimo romanzo di Giorgia Tribuiani edito da Fazi editore. Un avvicinamento vertiginoso all’età interstiziale di una sedicenne che scopre dolorosamente se stessa, le proprie ragioni e la propria sessualità. Nelle pagine del romanzo Tribuiani rinsalda i margini delle età e ci introduce, alla stregua di un grillo parlante particolarmente loquace, nell’io sfaccettato e in costruzione della protagonista Ginevra\Blu, i cui pensieri, tra il vitale e l’ossessivo, inondano il lettore, a sua volta spettatore di questo romanzo tutto ambientato nel dietro le quinte della mente.
Lo racconta a Limina l’autrice, Giorgia Tribuiani.

Blu

Blu è il tuo secondo romanzo, tre anni fa, nel giugno 2018, usciva per Voland la tua prima prova narrativa, Guasti. Prima di immergermi in Blu, vorrei rimanere in superficie e sostare sulle assonanze di questi due romanzi.
Guasti è ambientato in un museo, il compagno della protagonista Giada era un fotografo internazionale, intorno a Giada gravita il mondo dell’arte contemporanea e i suoi artigli. Blu è un’adolescente che frequenta il liceo artistico e scopre se stessa attraverso l’arte: la pittura, il disegno e la perfomance art.
Da dove nasce questo tuo interesse per l’arte contemporanea? Cosa la lega alla letteratura e alla scrittura?
Dell’arte contemporanea mi affascina soprattutto il paradosso: se da un lato si presenta materica e fa uso anche del corpo, dall’altro è concettuale, simbolica, fuggevole; se da un lato si offre con la sua fisicità, dall’altro si ritrae: quello che vediamo spesso “significa” qualcos’altro, rimanda a qualcos’altro.
In Guasti il compagno di Giada, il fotografo il cui corpo è stato plastinato, viene privato di tutti i ricordi, del proprio passato, delle proprie relazioni, e trascendendo tutto questo diventa espressione della permanenza dell’umano oltre la morte e dell’eterno presente; in Blu il corpo dell’artista si espone a sua volta senza veli, in prima linea, ma durante la performance smette di rappresentare la persona cui appartiene e diventa espressione di qualcos’altro: un concetto, un dolore, un messaggio. A interessarmi è questa trasfigurazione. La possibilità – anche nella scrittura – di mostrare un concetto attraverso qualcosa che non somiglia al concetto, perdona il gioco di parole. Perché in fondo anche la lettura, così come la performance, diventi “esperienza”.

Il tuo stile è molto marcato, la tua lingua identificativa. Entrambi i romanzi sono costruiti secondo un flusso di coscienza che scorre a ritmi vertiginosi: accelerazioni fatte di lunghi e densi periodi si alternano ad arresti, battute veloci, paratassi nervosa.
Corrisponde alla tua voce letteraria o è uno stile dettato dalle esigenze tecniche, narrative dei romanzi?
Probabilmente sono vere entrambe le cose.
In Blu, così come in Guasti, ho avuto l’esigenza di entrare e uscire dalla mente della protagonista, di confondere realtà e percezione dei fatti raccontando l’intera vicenda attraverso la lente deformante del suo sguardo, di calibrare il ritmo della narrazione (appunto alternando paratassi e ipotassi) sul ritmo del suo stato emotivo. Da questo punto di vista il flusso di coscienza si è presentato ancora una volta come uno dei più validi alleati.
Questo, ovviamente, con tutte le differenze del caso: in Guasti il tratto principale era forse il passaggio – repentino e senza soluzione di continuità – tra prima e terza persona, utile a far sì che Giada e il narratore si passassero la palla più o meno velocemente; in Blu invece il narratore, che è poi l’ossessione, o la voce del disturbo ossessivo-compulsivo, ha (quasi) sempre la parola e la mantiene con una decisa seconda persona: l’unica che mi permettesse di passare dal modo indicativo del racconto all’imperativo dell’azione a cui il narratore costringe Blu.
Se quindi è vero che sento questa voce molto mia, è anche vero che sarei pronta a metterla in discussione qualora non fosse più funzionale alla storia da raccontare.

Leggendo Blu si percepisce la grande ricerca svolta sul campo che sta a monte di questo libro. Appare un ingrediente necessario tanto della genesi quanto del risultato finale.
Ci dici di più di questa ricerca?
Prima di cominciare a scrivere il romanzo ho dedicato qualche mese allo studio della performance art. Quello che mi interessava di questa forma artistica, a prescindere da quanto già detto sull’arte contemporanea, era la centralità dell’azione (non a caso le performance vengono chiamate proprio “azioni”) e del rituale. La meccanica delle performance spesso si basa su una successione che parte dalla ferita e attraverso il rito giunge alla catarsi, e in questo è straordinariamente affine alla gestione dell’ossessione da parte dell’ossessivo-compulsivo, di cui volevo parlare in Blu.
Avevo quindi bisogno di saperne di più per capire cosa trasformasse in arte il binomio ossessione-rituale. Per farlo ho studiato sui saggi dedicati alla performance art (uno dei miei testi di riferimento è stato Io sono un’opera d’arte di Ilaria Palomba) e sulle biografie (a partire da Attraversare i muri di Marina Abramović), ma imprescindibili sono state anche le interviste ai performance artist: penso in particolare a Flavio Sciolè, che mi ha mostrato anche molti dei suoi video e materiali privati, a Tiziana Cera Rosco, che ha dedicato alle mie domande un intero pomeriggio, e a Kyrahm, la cui arte aveva già avuto un forte impatto su di me grazie alla performance Ecce (H)omo, Guerrieri. Il lavoro di interviste e di ricerca mi ha permesso di conoscere anche la “quotidianità” degli artisti, i dietro le quinte.

Blu è un libro di chiaro-scuri: c’è la vita fuori – la tua ricerca sul campo, i workshop, le mostre, gli appuntamenti famigliari – ma c’è anche un dentro, profondo, quasi abissale.
Si intuisce un lavoro di scavo intimo, che immagino sia stato in parte anche non facile, doloroso.
Una volta, mentre lavoravo alla prima stesura del romanzo, Giulio Mozzi mi disse, suppergiù: «Ci sono persone che scrivono testi strettamente legati alle loro vite, persone che cercano lontano dalle loro vite e persone che raccontano come le loro vite sarebbero state se non avessero avuto la fortuna e il coraggio di allontanarsi da quelle possibilità», e mi spiegò che secondo lui appartenevo a questo terzo gruppo.
Già Guasti aveva questa impostazione, se ci pensi: avevo dato a Giada parte dei miei ricordi (la festa di compleanno da bambina, per esempio) e molto del mio senso di inadeguatezza, ma non il coraggio di tentare di uscirne e non la fortuna di avere qualcuno che credesse in lei.
Con Blu mi sono identificata ancora di più: alcuni flashback e alcuni piccoli eventi sono strettamente autobiografici, e del resto, da bambina, io dicevo di chiamarmi Rosa quando ero buona e Giorgia quando ero cattiva. Io credo di averlo intravisto quel baratro in cui Blu a un certo punto (specie nella seconda parte del romanzo) inizia a sprofondare, e di essermi tirata indietro in tempo. Però, appunto, l’ho guardato, e questo mi ha permesso di partire dalla mia esperienza – e questo è stato doloroso, lo confermo – e di iniziare a trasfigurare da lì.

Nel libro ricorrono alcuni elementi, l’acqua, la vasca da bagno, lo specchio, che sembrano correlati ad alcuni temi che pervadono l’intero romanzo: il senso di colpa, la punizione, il tentativo di riconoscimento. È una mia sensazione?
No, è assolutamente vero. Sono elementi simbolici – un po’ in senso assoluto, un po’ relativamente agli eventi del romanzo – che sottolineano il desiderio di purezza (l’acqua, la vasca: come giustamente osservi sono legate al senso di colpa e al desiderio di cancellare ciò che fa sentire sporchi, che si tratti di un atto o di un’immaginazione) e quello di essere guardati (lo specchio, che non a caso era un elemento ricorrente anche in Guasti).
La loro forza, qui, è anche nell’essere messi a sistema: sono una sorta di scenografia che segue Blu ogni volta che il rituale ricomincia: lei vive di performance, si esibisce per qualcuno anche quando è sola, e questa impalcatura appare ogni volta – o quasi – per farle da contesto.

«Le ferite sono feritoie», la battuta di Dora riecheggia nella mente di Blu e ricorre come un mantra per tutto il romanzo. Che cosa rappresenta la ferita cutanea per Blu, assume per certi versi una valenza positiva, catartica?
Quello di “ferita-feritoia” è un concetto che ho preso in prestito dalla performance art, credo che la prima a parlarmene fu Tiziana Cera Rosco.
Nel romanzo ho esteso un po’ questo concetto – che nella performance art riguarda talvolta anche la ferita “fisica” – per estenderlo a tutta l’arte: la ferita (il dolore, il trauma, l’esperienza difficile o anche soltanto controversa) diventa il punto di partenza per la creazione, per la trasfigurazione: è il passaggio in cui infilarsi per trovare quella materia prima che si potrà poi modellare per realizzare l’opera artistica.
In Guasti, per bocca di Giada, sostenevo che l’arte fosse un modo per trasformare il dolore in qualcosa di bello: con Blu provo a raccontare la genesi di questa trasformazione.
In questo senso sì, la valenza della ferita è catartica.

Mentre leggevo, un pensiero si è presentato a me in modo nitido e preciso: Blu è rimasta intrappolata nella sua bambina. Per crescere, a qualsiasi età, dobbiamo fare i conti con quello che siamo stati, con quello che ci portiamo dentro, forse proprio per questo, per non rimanere intrappolati ma per accettare.
Tu racconti tale difficile processo in un’età altrettanto difficile: perché la tua scelta è ricaduta proprio sull’adolescenza?
È vero: una parte di Blu è bloccata al giorno del compleanno in cui prese in giro Lea, una parte al viaggio in metro, una al giorno in cui cominciarono a chiamarla Blu e via dicendo. Perché in fondo è un po’ così che accade: a volte ci inceppiamo nei momenti dolorosi, o in quelli di cui ci vergogniamo, e abbiamo bisogno di qualcuno o qualcosa che ci sblocchi per tornare tutti interi o, appunto, per non essere più in trappola.
Ecco, l’adolescenza è un periodo in cui io mi sono sentita intrappolata per anni, forse fino a quando non ho scritto questo romanzo che mi ha permesso di tornarci e guardare tutto con un’altra prospettiva. Per anni ho continuato (e per certi versi continuo ancora) a rivivere ricordi come se li avessi appena vissuti e immagazzinati: una parte di me era ferma lì; le mie ferite-feritoie, una volta attraversate, mi portavano spesso lì.
E poi – e anche qui c’è qualcosa di autobiografico: io ho cominciato a scrivere “per davvero”, con passione, a sedici-diciassette anni – volevo raccontare la nascita di un’artista.

Ci sono dei libri, degli autori che hai preso come riferimento o che semplicemente ti hanno accompagnata nella stesura di Blu?
Oltre ai già citati testi sulla performance art – ai quali vorrei aggiungere una menzione per Doubles-Jeux di Sophie Calle, un cofanetto in sette volumi che compare anche nel romanzo – un testo che si è rivelato di grande utilità (se non altro come suggestione) per le riflessioni sul rapporto tra arte e ossessione è Infinity Net, autobiografia di Yayoi Kusama.
Per il lavoro sullo stile, in particolare sull’uso della seconda persona, ho letto e riletto Diario d’inverno di Paul Auster, Un uomo che dorme di Georges Perec, Le mille luci di New York di Jay McInerney.
Ho un debito nei confronti della raccolta di racconti Il male naturale di Giulio Mozzi, che quando Blu era solo un’idea mi mostrò che era possibile lavorare sulle proprie ossessioni e immaginazioni e renderle meno mostruose, renderle “guardabili”.
Mi ha fatto compagnia durante la stesura del romanzo tutto il cinema di David Lynch e di Krzysztof Kieślowski: al primo dico grazie per avermi insegnato a deformare la realtà (vidi la Stanza delle Punizioni mentre guardavo Twin Peaks); al secondo il lavoro sull’atmosfera e sui colori: il film più visto, ovviamente, è stato Film Blu.

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