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Alfabeto primitivo. Una conversazione con Giorgio Ghiotti

«Gli inizi raccontano già tutto a saperli, e volerli, guardare», l’ha scritto Simona Vinci in Stanza 411.
Quello di Giorgio Ghiotti oggi non è un inizio, ma il suo è stato indubbiamente quello di un predestinato.
Ha pubblicato i primi racconti, Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013), all’età di diciotto anni, poi il debutto nella poesia con Estinzione dell’uomo bambino (Giulio Perrone Editore, 2015). Penna prolifica e polifonica, è tornato ai versi come al saggio prima di passare il segno simbolico del quarto di secolo.
Da pochi giorni è uscita per Giulio Perrone Editore la raccolta poetica Alfabeto primitivo, ma già con i racconti de Gli occhi vuoti dei santi (Hacca) – da pochi giorni decretato finalista del Premio Mastercard Letteratura 2020 – Ghiotti segnava un punto di arrivo maturo e pienamente consapevole, seppur dotato di una sincerità e – scrive – di «arroganza – che si perdona solo alla gioventù». Dodici racconti che compongono un arazzo policromo e finissimo, dove appartenenza e morte, corpi e destino si sfiorano senza alcuna usura o supponenza, trovando quell’intensità di narrazione che suggerisce (a voler, per amor di prudenza, limitarne il volume) il passo del grande narratore. Accostarsi ai suoi frammenti-mondo (perché nelle sue pagine un istante sintetizza intere epoche) può rivelarsi esperienza travolgente. I racconti (ma, in certo senso, anche la silloge) condensano in poco meno di duecento pagine una educazione sentimental-letteraria, riccamente intessuta di citazioni e rimandi.
Non a caso allora si è proceduto fin qui per citazioni: non c’è esigenza di protezione o ansia d’ostentazione, quanto piuttosto consapevolezza di essere costituiti dalle parole che ci hanno accompagnato, maturato, dato al mondo.
Così è attraverso le citazioni che abbiamo deciso di incontrarci, provando a dare forma a un dialogo che si puntellasse sugli echi di parole prese a prestito lungo il percorso.

«Si tratta di un difetto dello sguardo / che causa lesioni nel cuore». In esergo ai racconti citi Magrelli. Cos’è per te questo difetto dello sguardo?
È un difetto dalla valenza doppia. Da un lato, si innesta nello sguardo di chi osserva gli altri e si fa un’immagine di realtà, di mondo. Dall’altra parte è un dato fisico. Per un periodo sono stato cieco ad un occhio. In quei mesi facevo spesso il gioco di coprire l’altro, e vedevo i volti delle persone completamente deformati: era come se venissero a galla i loro mostri interiori.
Causa lesioni nel cuore, perché mette a nudo la nostra parte più autentica, a volte più dolorosa.

In Alfabeto primitivo scrivi «ogni risveglio è nel segno del padre». I tuoi sono racconti di padri concreti e madri letterarie. È così?
È così se capiamo che il solo modo per definire e indagare veramente i padri è vedendoli fuori dal loro ruolo. Le madri a volte sono creature più facili, lo sono per me da narrare, mentre i padri sono un mistero enorme. Natalia Ginzburg, in Ti ho sposato per allegria, dice che una madre è qualcuno di estremamente fondamentale: pensi che non possa determinare nulla, e invece ti ha determinato del tutto. Mi sono ritrovato a pensare che quella dei genitori sia non solo la vita bugiarda di cui parla Elena Ferrante ma sia la vita segreta degli adulti, che non è altro che la vita prima dei figli, i quali invece pensano sempre di poter rivendicare qualcosa, ma il sangue non può nulla.

Ricordo una frase di Croce citata da De Andrè «Fino a 18 anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini». Posto che tu appartieni alla prima categoria, c’è stato un momento in cui ti sei riconosciuto come poeta?
Non c’è stato un momento in cui mi sono riconosciuto perché non credo dobbiamo riconoscerci. Però ho avuto la fortuna di incontrare persone, intellettuali diventate affetti, che mi hanno accompagnato e continuano ad accompagnarmi in questo percorso. Credo moltissimo nella figura che si usa chiamare del maestro, in realtà un interlocutore che ti sceglie e con il quale porti avanti un discorso che cresce nel tempo e ti fa acquisire consapevolezza. La cosa più preziosa è il dialogo tra le generazioni. I compagni di strada di uno scrittore, di un poeta, hanno dai quindici ai novant’anni. È il motivo per il quale è così atroce per chi invecchia specchiarsi. L’immagine che lo specchio rimanda non è chi tu sei, è solo ciò che ti avvolge, e ciò che ti avvolge è il tempo, mentre quel che tu sei, che chiamano anima, è l’animus, quel che ti soffia dentro. Il tempo per chi scrive però è un giocattolo. Quella della casa di bambola nel Catalogo dei giocattoli di Sandra Pertignani credo sia veramente la descrizione di ciò che fa la letteratura. Il vero prodigio sono gli oggetti che si comportano come luoghi, toccati da mani che li hanno nutriti e desiderati, da occhi che li hanno ingigantiti e mitizzati.

«Non è mai esistita l’età dell’oro. Ma questo non ci impedisce di rimpiangerla», dice un passaggio dell’ultimo film di Francesca Comencini. «Lei vive contemporanea a sé stessa. Io collezionavo i loro gesti»:i tuoi sono racconti in cui lo slancio al futuro si accompagna spesso a uno sguardo indietro. Senti l’esigenza di cercare un’età dell’oro o, al contrario, ti senti scampato alla tragedia dell’infanzia?
Credo di sentire il bisogno di recuperare un certo tipo di passato per continuare a nutrirmi e a nutrire il presente che abito. Probabilmente non ci sono mai state età dell’oro, tutto diventa mito solamente dopo. Questo non significa fare un elogio della nostalgia, anzi, è farlo del presente, che necessita di recuperare certi modelli e di tenere sempre viva l’idea della memoria. Michela Murgia in Istruzioni per diventare fascisti ha ben spiegato la differenza tra memoria e ricordo. Il ricordo è personale, la memoria è collettiva, e questo vale soprattutto in letteratura.

Quanto pensi che incida il percorso di un autore, la sua biografia, nel momento in cui lo si legge?
Credo che il testo parli innanzitutto da sé, ma dentro il testo precipita tutto quel che è la vita. Non la biografia, ma il punto di vista sul mondo. Io ero convinto e andavo ripetendo che la cosa fondamentale fosse la lingua.  Non è vero. L’impalcatura, la costruzione, l’utilizzo e la gestione dei piani narrativi, insieme ad una lingua e uno stile: è tutto questo a fare una narrazione.

I tuoi sono racconti di scoperta, di un preciso momento di passaggio, dove l’adolescenza è conclusa ma l’età adulta è ancora incipiente. Perché quel momento?
Ciascuno ha le sue grandi ossessioni e il più delle volte tende a ripeterle. Io credevo di avere scritto un libro molto distante dal primo di racconti, e invece mi hanno fatto notare che i temi ritornano. L’ossessione per il terreno così affascinante e franoso che è la giovinezza, l’adolescenza, l’infanzia, resta. Condivido con Gilberto Severini l’ossessione per quel momento della vita in cui tutto è possibilità, tutto è in potenza, e ogni scelta è il grande passo verso la catastrofe o la salvezza.

Ancora in Alfabeto primitivo: «Mi sono chiesto come ti avrei \ pensata da morta e la risposta \ è stata: sicuramente viva». C’è molta morte nel tuo narrare, ma ci sono morti estremamente vive. Per affrontare un tema così abusato è delicato ci vuole l’incoscienza dell’adolescente che si sente immortale o la paura che a volte ci coglie da bambini. Per te quale è stata la spinta?
La spinta è la fascinazione che ho da sempre, più che per la morte, per la fine. Sono di natura fortemente nostalgica, tanto da avere nostalgia di cose che non ho visto e vissuto, di cui ho il vizio di appropriarmi. Mi sono sempre mosso per annessione, di vite, di spazi e di storie, così ho fatto con le opere, le vite e i versi dei poeti amati. Anche vedere come va a finire è per me una spinta enorme. La storia non finisce mai quando finisce, ma sempre quando non si hanno più parole per continuare a narrare e a raccontarla.

Scrivi che «Roma è un enorme, informe corpo in movimento». Nei tuoi racconti ci sono spazi diversi, familiari ed esotici. Anche gli spazi sono corpo, e i corpi sono preponderanti nelle tue pagine. Persino le morti sono intese come un lasciare spazio.
Quello dello spazio è un discorso d’esperienza. Ci sono una serie di romanzi in cui le storie più emozionanti accadono sempre dentro spazi chiusi. Gli spazi diventano sempre, di continuo, altro, sono sempre simboli. Ho scritto un libro di poesie, La città che ti abita, perché mi piaceva l’idea che non siamo noi ad abitare gli spazi, ma sono i dettagli dei luoghi che entrano talmente tanto all’interno del nostro immaginario affettivo da non lasciarci più.

«Siamo tutti creature periferiche», scrivi. Cos’è per te la periferia?
La periferia, come la provincia, è quello che non ho mai vissuto e avrei tanto voluto vivere. Fidandomi dei versi di Patrizia Cavalli «quel che non si ha, si sa», in Rondini per formiche ho costruito un romanzo che parte da una periferia romana inventata.

Diverse tue protagoniste hanno «passato la maggior parte della loro vita a convincere gli altri di non essere cattive». Qual è il peso della cattiveria in quello che scrivi e quanto ci definisce ciò che ci attribuisce lo sguardo degli altri?
Abbiamo sempre un’idea di noi stessi, ma quello che siamo sta a metà tra quello che noi pensiamo di essere e quello che gli altri vedono di noi. Il peso della cattiveria è sempre centrale, come quello del bene. Con una differenza: la cattiveria è scontata come lo è il male, mentre il bene è molto più complesso. Credo che l’immagine più esatta di come queste due forze che muovono le persone riescano perfettamente a conciliarsi l’abbia data Matthew Barrie, che chiudendo il Peter e Wendy dice «till guys are gay, innocent and heartless». Ho sempre trovato traduzioni che rendevano in modo letterale,«finché i bambini saranno allegri, innocenti e senza cuore», e a me è sempre sembrato che ci fosse un conto che non tornasse. Perché i ragazzini sarebbero innocenti se per tutto il tempo i Bambini Sperduti non fanno che avere il coltello sporco di sangue e uccidere? Quando sono andato a tradurlo ho scelto «allegri, puri e senza cuore», perché per me la purezza è qualcosa che sta prima dell’innocenza, che ha in sé anche la cattiveria, la crudeltà, che c’è da sempre ma è stata da sempre un grande tabù, se legata a soggetti sociali come i bambini, le donne. Per fortuna ci sono romanzi che ci fanno ancora credere nella possibilità ordinaria delle varianti dei caratteri umani e infantili, come Dei bambini non si sa niente di Simona Vinci o Certi bambini di Diego De Silva. È necessario non parlare del bambino ma parlare dal bambino.

«La normalità è la tragedia più urgente della mia infanzia»: ho sentito una forte impronta di realismo magico, è vero?
È sicuramente un’influenza di autori letti e amati, soprattutto gli scrittori di racconti. Alcuni sudamericani, come Pacheco, Areola, sono degli straordinari narratori della forma breve. Quello che mi affascina di più della letteratura sudamericana è l’inquietudine. È tutto in una apparente calma, salvo poi nascondere sempre sotto qualche lastra del pavimento il disastro assoluto. Ed è questo che manda avanti le storie e la curiosità. La normalità non è un male in sé, ma a volte è talmente logora da diventare ingestibile, perché costringe a una normalizzazione dei sentimenti di cui la famiglia è il caso eclatante; ma lo diceva già Moravia: «la vera tragedia è l’assenza del tragico». Nelle storie, se manca l’essenza della tragedia, resti imbrigliato per sempre. E allora, il bambino che parla così decide di farsi carico di tutto il male che sente intorno dando una possibilità di purezza alla casa nel solo modo che conosce, cioè incendiandola. È un’idea di purezza.

De Andrè ha dedicato un album intero all’elogio delle anime salve intese come spiriti solitari, che sanno «accordarsi col circostante». Nei tuoi racconti c’è un ampio riferimento alla solitudine, specie quella che si prova stando insieme. Cos’è, per te, la solitudine?
La solitudine è l’esatto opposto della stanchezza. È una grandissima risorsa, una specie di mancanza che non sappiamo gestire. Oggi bisognerebbe accettare l’idea di sparire. A un certo punto una persona semplicemente non c’è più, non si sa perché e non è rintracciabile. Così la storia che si racconta non è quella dello sparito ma dell’effetto che quell’assenza ha su quelli che gli stanno intorno. Poi quante solitudini si vivono anche in gruppo o in coppia! Spesso si confondono grandi amori con amori lunghi, mentre Saba diceva «so un amore che è durato un mese e vero amore fu».

In un’altra intervista hai dichiarato che «esistono due categorie di scrittori, quelli che vivono la vita per raccontarla e quelli che devono raccontarla per poterla vivere». Dove ti collochi e perché?
Per me la letteratura ha sempre anticipato la vita, perché le ho dato la possibilità di farlo. Ho sempre scritto per cercare di capire quello che accadeva. Oggi so che non sempre è così. Dacia Maraini per esempio ha sempre dovuto prima vivere e poi scrivere, o ci sono autori come Severini che non scrive la vita che ha vissuto ma lo fa per mandarla avanti. Due modalità che hanno molto a che fare con due modi di intendere la poesia, di cui parla Marina Cvetaeva nel saggio Il poeta e il tempo quando dice che esistono «i poeti con storia e i poeti senza storia»: i poeti dell’ossessione o di lago, che restano sempre all’interno di uno spazio chiuso anche se non si può sapere quali abissi può spalancare, e i poeti di fiume, che hanno una evoluzione e scorrono.

«La sapienza stilistica di Ellis fa pensare a un vecchio professionista; ma scaturiscono dalle pagine un’energia, una disperazione, che rivelano tutta l’adolescenza dell’autore». Recensendo il tuo libro mi sono immediatamente suonate le parole che Fernanda Pivano diceva di Ellis.
Credo che a venticinque anni sia finita l’adolescenza, però inevitabilmente penso che ogni volta che ti metti a scrivere sei l’eterno adolescente, devi sentire sempre quella passione che si rinnova. Se perdi il divertimento, l’attrazione che ti mette voglia di raccontare e creare storie è meglio smetterla. La consapevolezza poi è spesso anche finzione: non è vero che si deve per forza parlare solo di ciò che si conosce. Nel momento in cui io leggo le storie di qualcun altro, diventano realmente esperienza vissuta per me. Così chi legge ha davvero tutte le età della vita, altrimenti la lettura sarebbe un inganno.

Tu scrivi anche su diverse testate di libri altrui, come ti accosti anche a questo aspetto del mondo letterario?
L’unico modo per continuare a fare critica letteraria, gestirla e salvarla credo sia intenderla non come esercizio letterario ma come genere. Ci sono saggi critici che non hanno niente da invidiare ai romanzi, e forse è a questo sguardo che bisognerebbe dare nuova vita.  

Yazmina Reza dice che il teatro non ha funzione né missione, tu invece dici «sono guarito dai miei incubi senza più le parole per chiamarli e alimentarli». Pensi che in un tempo come quello di oggi le parole abbiano o possano avere funzione e missione?
Innanzitutto un autore dovrebbe scrivere bene, cioè secondo la lezione di Platone: «il bello è splendore del vero». Penso che il valore politico di un’opera sia il suo valore letterario. La letteratura ha una funzione, uno scopo e un fine. Non credo debba farsi portatrice di messaggi, tantomeno edificanti. La letteratura ha dato un apporto maggiore con Shining che con Cuore, perché è anche inquietante, mostruosa, paurosa. È quell’arte che ti mette di fronte tutto l’orrore che potresti essere, che anzi probabilmente hai dentro. Non credo nella letteratura che consola o che insegna qualcosa, però credo nella letteratura che si prende la responsabilità di utilizzare le parole e raccontare le storie per allargare la coscienza del pubblico. Anche la poesia dovrebbe avere la voce di Fortini:«vorrei stare dalla parte opposta del verso ma dallo stesso lato del vero».

Hai 25 anni e sei un esempio stimolante per chi vuole lavorare in editoria. Come credi ci si debba accostare a questo mondo oggi?
L’editoria negli ultimi otto anni è cambiata tantissimo. Non penso che la strada giusta sia fare le valigie. Bisogna essere versatili con le parole, amarle in ogni declinazione. Però non bisogna rinunciare troppo facilmente, come se l’arte fosse una passione che va bene fino a che non si passa alla vita adulta, alle cose vere. Non credo al termine resistenza in campo culturale, perché resistere contro un sistema vizioso, viziato, ormai marcio, credo sia impossibile. Credo però nella possibilità di creare, accettare che una certa idea di cultura non sia più praticabile, e allora creare realtà nuove, delle oasi non corrotte e al loro interno mandare avanti un’altra nuova idea di cultura.

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