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Metafisica del complotto. La madre assassina di Ermanno Cavazzoni



Pacini Andrea, detto André, ha ventidue anni e sta indagando sul suo omicidio.
Ebbene sì, ne è sicuro, sua madre, in combutta con il losco Ragionier Olivi, lo ha ucciso e sostituito con un androide. E non è tutto: a pranzo e cena, la diabolica, sta servendo ad André-androide pezzetti del cadavere di André-umano per occultare le prove. Per fortuna il ragazzo – se ancora così si può chiamare, con tutti i suoi ticchettii bionici e la capacità di vedere al buio – non si fa abbindolare dall’apparenza innocua e premurosa della genitrice, e ha tutta l’intenzione di scoprire cosa si cela dietro la sua brutale dipartita: potrebbe essere in ballo il destino del mondo, o, perlomeno, quello del suo condominio.

«Un fatto successo davvero»
Si apre con queste parole La madre assassina (La Nave di Teseo, 2020) l’ultimo «romanzetto» di Cavazzoni – da lui stesso definito così per la sottigliezza del volume e per il desiderio di non vederlo paragonato «ai grandi romanzi dell’Ottocento e Novecento» – giocando fin dalla premessa con l’ossessione contemporanea del «tratto da una storia vera», dicitura di ampissimo spettro che accoglie sotto la sua ala prodotti che vanno dalla docufiction più integerrima a storie quasi del tutto inventate, «liberamente ispirate a». Quel che conta in questo filone, infatti, non è tanto la precisione del resoconto, quanto l’etichetta, l’impressione di stare penetrando nell’intimità del nostro vicino di casa per sorprenderlo a lavare i propri panni sporchi. Distrarsi dalle miserie della propria vita grazie alla finzione non è più abbastanza: la dicitura «tratto da una storia vera» assicura al pubblico un’ormai imprescindibile e catartica dose di  schadenfreude – la parola tedesca che indica il piacere provocato dall’assistere alla sfortuna altrui.

Cavazzoni (rimanendo fedele alle premesse) non inventa nulla: risposta necessaria a questa morbosità dilagante, la finta storia vera è un genere ormai consolidato, rielaborato in tutte le salse e in tutti i medium — letterario, cinematografico, seriale. Se però la prassi è, solitamente, quella di rendere le vicende narrate il più realistiche possibile, il lunatico di Reggio Emilia, con sofisticazione prettamente novecentesca, ribalta le regole e parte da una premessa non soltanto inverosimile, ma addirittura fantascientifica, che tramuta la finta storia vera in un esercizio di stile surrealista

Paradossalmente, questo approccio dà al racconto una sua urgenza, o quantomeno le dona un’impressione di attualità: André, con la sua fede incrollabile nell’esistenza di macchinazioni diaboliche volte a pervertire la natura umana, è a tutti gli effetti un complottista. È presentato fin da subito come vittima, come ultimo puro in un mondo di assassini, eppure la narrazione in terza persona, da verbale della polizia, dà alla vicenda un tono così iperbolicamente privo di giudizio (la prosa è quasi matematica, tanto è limpida) da risultare condiscendente. André sarà forse un eroe, ma è comunque un idiota in un mondo di idioti, o meglio, un demente in una «galassia di dementi», per dirla in termini più strettamente cavazzoniani. Si tratta dunque di una satira? Se in un primo momento è lecito sospettarlo, man mano che la lettura procede diventa più difficile trovare una definizione di genere e, guardando più a fondo, anche un intento programmatico. 

Incipit di La metamorfosi di Kafka: «Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.»
Incipit di Madri assassine: «Dopo una notte turbata e cancellata dalla memoria, si è svegliato che non era più lui.»

Nonostante il desiderio di non vedere il suo libro messo a confronto con i giganti, Cavazzoni apre prendendo Kafka di petto, e mostrando immediatamente la differenza fondamentale che intercorre tra XX e XXI secolo: il peggio che può capitare a Gregor Samsa è diventare un mostro e perdere il suo ruolo nella società borghese; il peggio che può capitare ad André Pacini è perdere sé stesso. Il desiderio di appartenenza alla società, borghese o rettiliana che sia, è soppiantato dalla diffidenza e dal timore della spersonalizzazione. L’orrore, ormai, è completamente virtuale.  

La madre assassina è scritto con maestria e composto da brevi capitoletti omeopatici, ma non è una lettura semplice: la brillante premessa — che in forma di racconto probabilmente sarebbe esplosa in maniera più immediata ed incisiva; La Metamorfosi  in fondo erano sì e no settanta pagine — diluita in forma di romanzo mostra segni di stanchezza, una ripetitività irritante e ipnotica assieme, come se le giornate sempre uguali di André diventassero un mantra da ripetere assieme a lui, come se Cavazzoni stesse provando ad instillare anche in noi il dubbio di essere stati sostituiti. A volte ci riesce, a volte il dubbio è che anche lui si sia perso nei meandri del suo labirinto. Un’improvvisa svolta fantascientifico–lovecraftiana ridà elettricità alla storia, ma ne corrode il senso, togliendo forza a quelli che sembravano essere i temi portanti: la paranoia, il dubbio, la natura sempre più virtuale della realtà; il mistero metafisico viene abbandonato per entrare a pieno titolo nell’Invasione degli ultracorpi. Un’invasione ilare e visionaria dove nemmeno gli alieni si salvano dalla stupidità che permea il cosmo, e il condominio infestato si trasforma in un circo di nonsense grandguignolesco che rifiuta una volta per tutte ogni logica razionale e narrativa.

Giunti alla fine, ubriachi e confusi, non ci si domanda nemmeno più il perché di questo viaggio: dopotutto è una storia vera, e le storie vere non si mettono in discussione.
A meno di non esser complottisti. 




Photo Credits
Copertina – Illustrazione di Leonardo Malaguti, 2021
Ritratto di Cavazzoni – Stefano Mazzola, 2015


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