Search
Close this search box.

L’acqua del lago non è mai dolce. Intervista a Giulia Caminito



L’Africa post coloniale del Secondo dopoguerra, la campagna marchigiana nel primo Novecento tra credo politico e credo religioso, e poi l’approdo sulle sponde del lago di Bracciano, negli anni Duemila del disimpegno, del trionfo del consumismo e dell’intrattenimento televisivo.

Questo è l’itinerario letterario della produzione romanzesca di Giulia Caminito, che ha esordito nel 2016 con La grande A (Giunti), per poi pubblicare nel 2018 per Bompiani Un giorno verrà. Ancora per Bompiani è uscito da poco (gennaio 2021) il suo terzo romanzo, L’acqua del lago non è mai dolce.
È la storia, raccontata in prima persona, di una bambina e poi un’adolescente furiosa, nata in una famiglia poverissima costretta a lottare per l’indispensabile, ma circondata da un benessere ottuso e dal privilegio inconsapevole, che ha interiorizzato l’ossessione del mondo intorno a lei per gli oggetti superflui, per lo status, ne è stata consumata e di lei non è rimasto che un desiderio di consumare a propria volta, di rivalsa violentissima in lotta contro ogni cosa, anche contro il suo nome, che rifiuta e non usa mai, facendolo scoprire al lettore solo alla fine, come un ultimo gancio.
Bompiani nel risvolto lo rivela, l’autrice l’ha nominato in altre interviste e presentazioni, ma non qui. Nell’intervista che segue, in cui con Giulia Caminito abbiamo parlato di questo libro e del suo essere scrittrice, il nome della protagonista lo tacciamo, e se ancora non lo conoscete, il mio consiglio è di non andare a cercarlo, di immergervi nell’acqua oscura, amara e velenosa di questo romanzo per andare a scoprirlo sul fondo dell’abisso.

Caminito

L’ultima volta che ti ho intervistata (per retabloid di Oblique con Livia De Paoli) era in uscita Un giorno verrà ed eri ancora indecisa su quale nuovo progetto intraprendere per il nuovo romanzo. Nella nota finale scrivi che il via è stata una «parola magica» di Laura Fidaleo e hai raccontato a Rai Cultura che sei partita dalla scena realmente accaduta con cui si apre il libro: una madre disperata che si spaccia per un’avvocatessa per essere ricevuta dalla responsabile della pratica per le assegnazioni delle case popolari, che da mesi ignora la sua richiesta. Perché hai sentito che era questa la storia a cui dedicarti?
Vagavo. Ero dubbiosa. Avevo scritto la scaletta per un grosso progetto a cui penso da tanto tempo, un libro che riguarda la storia dei miei genitori, ambientato negli anni Settanta. Però volevo staccarmi dalle cose che avevo scritto prima, ripropormi, sfidarmi a trovare altri tipi di scritture che potessero interessarmi.
Laura in quel periodo ha pubblicato un libro che s’intitola L’istante (Pendragon 2018, ndr) e all’interno c’è questa frase: «Il lago è una parola magica». In quegli anni non sono stata tanto bene e sia Laura sia Marzia, le mie più care amiche, venivano spesso al lago a trovarmi a casa dei miei genitori. Il legame con il lago si è rafforzato, e anche la sua magia, il suo elemento magico.
Poi ho incontrato questa donna che aveva una storia di vita distante dalla mia, sconosciuta. Le ho fatto un’intervista e da quel punto di partenza ho cominciato a mettere insieme tutti gli elementi che avevo sul tavolo: il lago, la voglia di parlare di adolescenza, la povertà, la difficoltà di una famiglia nello stare al mondo, il tema della casa, una maternità ingombrante.

Il tuo romanzo è costellato di oggetti simbolici, ne hai parlato anche altrove, ma soprattutto dominano l’immaginario il lago e l’acqua del titolo, un luogo parlante e un elemento ricorrente, che permea la trama ma anche il linguaggio che hai scelto per dipanarla.
Parlaci di questa scelta stilistica.
Per me ogni libro ha un luogo di riferimento, a cui si devono richiamare anche le metafore, l’uso delle parole, il vocabolario: bisogna circoscrivere il campo semantico entro cui muoversi per cercare altri legami rispetto al raccontato. In Un giorno verrà l’area di ricerca era quella della campagna, del lavoro contadino, anche la farina e il pane, perché la famiglia protagonista ha un forno, e ancora il campo semantico della chiesa, dei riti, perché è presente anche l’ambiente chiuso del monastero.
In questo libro il mio campo di ricerca di vocabolario è dato dall’ambientazione della provincia: il lago, la campagna vicina, i maneggi, le discoteche sull’acqua, le feste di paese, le sagre, il borgo antico, quegli odori di cantina che provengono dal basso quando si passeggia, le case una sull’altra.
Nel libro ci sono vari elementi acquatici importanti: non soltanto la presenza del lago, ma anche il rapporto tra lago e piscina, lago e mare. Il fratello della protagonista, che si allontana dalla famiglia e va a vivere a Ostia, è l’unico che vive sul mare; non è un caso che dal lago si trasferisca direttamente sul mare senza passare dalla città. Poi c’è l’acqua artificiale e circoscritta della piscina, che ritorna in vari momenti nel racconto, sia come desiderio di lusso sia come luogo di abbandono, nella parte che riguarda la storia della madre, sia come luogo di tradimento nei rapporti della protagonista con le amiche. L’acqua è un elemento forte perché per me immaginare un’adolescenza senza acqua è impensabile; per altri magari l’adolescenza è associata alla città o alla montagna, per me lo è all’acqua, sia artificiale che naturale.

Caminito

Nel romanzo affronti il tema dell’ingiustizia di classe, calato nel contesto della provincia romana in cui persone di estrazioni diversissime si ritrovano fianco a fianco, esponendo gli squilibri sociali in tutta la loro evidenza: frequentare la stessa scuola non equivale davvero ad avere le stesse possibilità. Quanto è importante per te e in generale che la letteratura sia denuncia, che dia voce a questi temi?
Per me è fondamentale. È il terzo libro in cui mi occupo di povertà. L’ho raccontata da tre punti di vista diversi: prima la povertà della guerra, quella che ha vissuto mia nonna, di fortissime privazioni e quella voglia di rivalsa; nel secondo romanzo la povertà contadina di un piccolo borgo su cui si abbattono i vari fatti della Storia. In questo caso così come la provincia è attaccata e limitrofa alla grande città, così la povertà ho dovuto immaginarla accanto alla ricchezza, immersa nel grande consumismo dei primi anni Duemila delle mode, dell’usa e getta, della plastica, dei glitter, della televisione di Berlusconi, dei primi cellulari, della tecnologia che entra nella vita delle persone. Una ricchezza finta, perché sono stati anni di crisi e scarso sviluppo. Mi sono domandata come siamo arrivati alla situazione di oggi, allo scollamento della nostra generazione rispetto alla dimensione pubblica e politica. L’origine l’ho rintracciata in quegli anni della mia adolescenza, che ovviamente non è il prototipo di tutte le adolescenze, però mi sembrava un buon laboratorio. Avevamo zero interesse nei confronti della politica, della dimensione pubblica, di quello che erano il Paese e anche la società civile, di quella che era l’educazione civica allo stare insieme e alla costruzione di un bene comune. Questa assenza, questo vuoto che è veramente un cratere, era riempita da tutto il superfluo: dalle chiacchiere, dalla televisione dei telefilm e di Maria De Filippi eccetera eccetera; pochissimo accesso alle notizie e ai fatti di cronaca, pochissimo spirito critico, pochissime idee – recuperate invece poi grazie agli studi universitari, che hanno spostato l’interesse di ognuno e ognuna su binari diversi. Il tentativo del libro è anche di raccontare il vuoto di quegli anni. In sottofondo succede di tutto, per esempio è molto provocatorio il modo in cui cerco di affrontare i fatti del G8 nel libro: il fratello della protagonista vi partecipa, ed è un evento che cambia gli equilibri di casa, ma lei non se ne interessa, non si informa, il giorno dopo quando incontra le amiche parlano di un telefilm e lei non ha nemmeno la televisione. Si esaurisce così la conversazione sul G8. E temo che in molti casi così sia stato.

Hai definito L’acqua del lago non è mai dolce l’opposto di un romanzo di formazione, lo trovo molto calzante, è un romanzo di de-formazione, con una protagonista che non trova forma, non trova identità, che rifiuta ogni definizione a partire dal proprio nome. Il punto di vista in una storia così è complesso. È stato istintivo affidare la narrazione alla protagonista? E com’è stato calarsi per tanto tempo nella prospettiva cupa di questo io narrante così livoroso?
Volevo una prospettiva agganciata al presente, una voce e un’individualità forti. Ho scelto volontariamente l’io narrante per giocare con l’idea dell’autobiografia e del romanzo di formazione. Il romanzo di formazione spesso è anche d’avventura: il o la protagonista da piccolo è bistrattato, viene da una condizione in cui qualcosa manca e poi attraverso delle tappe compie un percorso, si forma come individuo, procede in un movimento progressivo, in cui la sua identità cresce e così la sua posizione nel mondo. La mia protagonista invece da una parte non forma mai una sua individualità e da un punto di vista pubblico il suo progresso consiste nell’escalation di violenza delle sue reazioni.
Ho voluto costruire il romanzo intorno a un io narrante che non fosse autobiografico, anzi rivendico il recupero dell’io come forma romanzata, non come confessione, ma come costruzione e finzione. C’è molto spazio d’invenzione nell’io. Questo è un io cupo, un io amaro, un io giudicante, che però ho tenuto vicino a me in maniera piacevole: mi sono liberata di tanti pensieri e giudizi che tenevo dentro e ho scaricato nel personaggio. È un processo tipico di quei personaggi alter ego che fungono da tuoi Mister Hyde, facendo tra le pagine cose che tu non realizzeresti mai. Una volta trovata la forma di questo io, le sue parole e il suo modo di esprimersi, le sono rimasta vicino molto facilmente. Nei nuovi racconti che sto scrivendo ora per vari progetti mi viene spesso da utilizzare la prima persona, rimodulandola. Ho preso ormai confidenza con la possibilità di far parlare di nuovo l’io.

Caminito

Fin dall’esordio con La grande A tu hai ricevuto premi e riconoscimenti da parte della critica, adesso L’acqua del lago non è mai dolce è quarto nelle classifiche di qualità della rivista L’Indiscreto ed è tra i dodici finalisti per lo Strega 2021. Come scrittrice e come professionista editoriale quanto sono importanti per te questi riscontri?
La giuria di L’Indiscreto è composta da tante persone che lavorano nelle case editrici o che scrivono, la classifica non è costruita sulla lettura di tutti i testi usciti, ma parte dalle letture dei singoli, quindi saggia la lettura e l’interesse del mondo editoriale. In quest’ottica la leggo come un segnale molto positivo che da parte delle persone che lavorano con i libri c’è dell’interesse per il mio. È sicuramente piacevole ricevere questo riscontro, anche perché il libro è uscito da poco.
Per quanto riguarda il Premio Strega sono molto contenta per la dozzina, è una grande opportunità per il libro e per me.

Tu lavori da molti anni in campo editoriale, ma da un anno e mezzo hai avviato la tua agenzia letteraria. L’intensificarsi del lavoro come editor e sui testi altrui ha avuto un impatto sul tuo processo di scrittura? Come coniughi le due cose?
Sicuramente sì. Ho imparato tantissimo dagli autori e dalle autrici con cui ho lavorato in questi anni. Da quando sono uscita da elliot mi sono mossa in due modi. Da una parte con Clementine, che offre anche servizi editoriali, ma con cui ci dedichiamo soprattutto alla formazione: stiamo collaborando con un corso di perfezionamento in Editoria della Federico II di Napoli. Poi ho collaborato con diversi editori.
La pubblicazione dei libri è imperscrutabile: un libro può andare bene come malissimo e anche quando va bene non siamo tutti Nicola Lagioia con centomila copie vendute, se arriviamo a cinquemila dobbiamo esserne felici, però non è un modo in cui si può campare.
Ho scritto tanto in questi anni, vorrei placarmi, gestire meglio le mie scritture prossime per non diventare una produttrice seriale, che ogni due anni deve uscire con un romanzo per sostentarsi. Per evitare che accada questo devo continuare a lavorare come editor. Sono passati otto anni da quando ho cominciato a lavorare nell’editoria e sento che è arrivato il momento di concretizzare. Per questo ho accettato una collaborazione con Perrone, che sarà un lavoro editoriale più intenso di quelli che ho fatto in questi anni: anche in considerazione della pandemia vorrei agganciarmi a qualcosa di più stabile e focalizzarmi di più sulla mia competenza. È un lavoro da artigiano che mi dà tanta soddisfazione e non ha bisogno dell’esposizione: come editor puoi tranquillamente non apparire mai. Mi piace: stare nell’ombra, dietro le quinte, vedere che cosa succede dei libri, come vengono accolti, mi sento un po’ madre. Quando esce il tuo libro invece devi promuoverlo, un continuo «sono qui, guardatemi, parlatene, vi è piaciuto? ditemi che vi è piaciuto»: qualcosa di lontano dalla mia personalità e con cui faccio molto a pugni. Rimanere nascosta nel retrobottega dell’editor, mantenere vivo quel retrobottega, per me è fondamentale.



Photo credits
Copertina – Ritratto di Giulia Caminito di Rino Bianchi


categorie
menu