Camera Obscura

Agnès Varda: lo specchio di Parigi



«Talvolta le immagini non si scelgono, sono loro che scelgono te»
Agnès Varda


Agnès Varda non passava certamente inosservata, con il suo riconoscibile caschetto bicolore, gli abiti dal vivace color bordeaux, e il suo profilo alla francese.
Una figura iconica, una donna forte, ingegnosa e fantasiosa. Eppure per anni è stata eclissata, quasi dimenticata, nonostante il suo adorabile aspetto eccentrico. Forse si deve la sua ribalta alla collaborazione con lo street artist JR, con il quale la Varda ha girato Visages, villages (2017), noto altrimenti come Faces, Places. Trovo l’originale francese un titolo particolarmente poetico, musicale ed evocativo. Si fa inoltre carico di un binomio tematico che ricorre in quasi tutta l’opera vardaniana: l’accostamento tra i personaggi e lo spazio in cui la storia è narrata. «Comprendendo le persone capiamo meglio i luoghi, comprendendo i luoghi capiamo meglio le persone» affermava lei stessa.
Agnès Varda, che avrebbe festeggiato i suoi novantadue anni in questo precario 2020, è morta il 29 marzo dello scorso anno; aveva da poco presentato il suo ultimo lavoro Varda par Agnès al Festival del Cinema di Berlino e aveva ricevuto un Oscar alla carriera nel 2018.

Varda

Il cinema di Agnès Varda si compone di uno stile a sé stante, dato soprattutto da un insieme di elementi ricorrenti come le spiagge, il motivo acquatico, gli specchi, il passare inesorabile del tempo, la dialettica dei contrasti vita-morte, realtà-finzione, documentario-fiction. La Varda è spesso ricordata come “la nonna della Nouvelle Vague”, colei che ha anticipato la ribalta, la nuova ondata di cineasti indipendenti francesi, sul finire degli anni Cinquanta. Tuttavia va chiarito che la giovane regista non ha mai realmente preso parte a questo gruppo di cinefili, per lo più uomini, provenienti dalla critica: aveva una formazione artistico-teatrale e veniva dal mondo della fotografia. Inoltre di cinema, ai suoi esordi, ne sapeva ben poco. Dichiarò di aver visto appena una decina di film quando iniziò le riprese del suo primo lungometraggio, La Pointe Courte, nel 1954. In quegli anni intorno alla Nouvelle Vague esisteva il mondo parallelo della rive gauche, che era solito accostare il cinema al genere letterario: è qui che possiamo inserire Agnès Varda, il cui primo film uscì anni prima che si sentisse parlare di Truffaut o Godard, eppure le inquadrature, il montaggio, i dialoghi avranno molto in comune con questo successivo modo di fare cinema.
Il suo è un cinema di finzione che si avvicina costantemente alla dimensione reale. Nelle sue opere la ripresa documentaria si mescola e va di pari passo con la storia d’invenzione. La scelta ricade sempre su luoghi reali, sia che si tratti di una Parigi lontana dagli stereotipi o di un villaggio di pescatori della Costa Azzurra. Questi luoghi a loro volta si completano con figure cariche di umanità, personaggi reali che interagiscono con lo spazio. La regista ha affermato più volte come, nonostante il rispetto nei confronti degli attori, lei fosse affascinata molto più dalla gente comune.

Varda

Una delle massime espressioni di questo concetto è il documentario Daguerréotypes, girato nel 1975 a Parigi, in rue Daguerre. Ne risulta una città lontana dagli stereotipi, da ogni aspettativa, la rappresentazione di una realtà incantevole con i suoi angoli nascosti, genuini e privi di notorietà. La Parigi di Agnès Varda si realizza grazie alla presenza di personaggi che la animano con i loro gesti, movimenti e parole. «Io non faccio nessuna sceneggiatura: il cinema si scrive con le sensazioni, il paesaggio, l’ambiente, le idee, le persone incontrate», affermava riferendosi al suo cinema, associato spesso a un neologismo tutto vardaniano: cine-écriture (cine-scrittura).
Rue Daguerre è una piccola via pedonale, dove tuttora il tempo sembra non essere passato. Una via di artigiani, mercanti, botteghe e piccoli laboratori. Proprio qui Agnès decise di fondare il suo studio che divenne poi anche abitazione, nonché la sede della sua piccola casa di produzione, la Ciné-Tamaris. Personalmente, è proprio in questa vietta dall’anima pittoresca che sono venuta a contatto con l’universo di Varda. Ancora prima di leggere di lei o di vedere i suoi film, in uno dei miei viaggi nella capitale, mi ritrovai per pura casualità di fonte al portone a strisce viola, al numero 86. Un’atmosfera unica fluttuava in quel quartiere, non lontano da Montparnasse. Ricordiamo che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni della Nouvelle Vague, le strade stesse diventarono il luogo emblematico dove far deambulare i protagonisti di questo nuovo e giovane cinema. Il documentario Daguerréotypes nasce dall’esigenza di filmare oggetti inanimati, ma anche persone immobili, congelate nel tempo. La Varda aveva già inserito più volte scene tratte dalla strada, ma in questo caso si tratta di un vero e proprio omaggio ai “tipi di Daguerre”, gli abitanti e lavoratori che la popolavano. Louis Daguerre, che darà il nome alla via, è stato l’inventore della dagherrotipia, uno dei primi processi di sviluppo fotografico. Questo rende il titolo della Varda ancor più ambivalente e umoristico: l’immobilità di questo quartiere attraverso Daguerréotypes prende ancor più la forma di una fotografia filmata.

Varda
Rue Daguerre 86, Parigi (foto dell’autrice, 2015)

Ma c’è un altro lungometraggio ambientato a Parigi che evidenzia la correlazione tra i personaggi e l’ambiente, tanto da influenzarne l’andatura della storia. Si tratta di Cléo de 5 à 7 (1962), film che è innanzitutto caratterizzato da una corrispondenza tra il tempo reale e il tempo della storia: due ore di visione coprono l’arco di tempo che intercorre tra le cinque e le sette di sera nella storia raccontata. Il prologo, unica scena a colori, si apre con una rivelazione: la protagonista scopre di essere malata attraverso una lettura dei tarocchi. La figura della cartomante si presenta come un oracolo rivelatore, ma la tragica scena si carica in realtà di elementi assurdi e poco veritieri. I rimandi al tempo, alla superstizione, alla vanità della vita, alla paura della morte e a una visione estetica e superficiale si susseguono per tutta la prima parte del film. In questa prima sezione viene data rilevanza al personaggio di Cléo, come soggetto principale osservato sempre a distanza e da un punto di vista esterno. Man mano le tematiche si fanno più introspettive; i simbolici specchi vengono sostituiti, nelle scene girate in interni, da quadri incorniciati; il tempo prende un’andatura oscillante, accentuata dalla colonna sonora e dai rumori della strada. Osserviamo come progressivamente l’attenzione da Cléo si sposti maggiormente sullo sfondo: l’ambiente urbano parigino; i passanti, i quali assumono maggiore connotazione; l’attualità dell’epoca, che entra a far parte della storia fittizia. La seconda parte del film si sofferma invece sullo sguardo che Cléo inizia a gettare sul mondo, un cambiamento di prospettiva nel quale il pubblico diventa complice. Lo sguardo di Cléo, profondo e attento, non è più quello superficiale da modaiola e diva dello spettacolo. Un cambiamento che non traspare solamente a livello introspettivo, ma è evidente anche nel cambio d’abiti, e nell’acquisizione di una nuova andatura. Inoltre, anche lo scenario è soggetto a trasformazione. In questo senso possiamo dire che Parigi e Cléo sono legate da una profonda interazione tanto che la città diviene un vero e proprio personaggio, se non addirittura il personaggio. Il film prosegue con un andamento climatico, un crescendo di tensione, fino al momento di quiete, caratterizzato ancora una volta dall’associazione con l’ambiente: si tratta dell’atmosfera idilliaca del Parc Montsouris, dove la protagonista incontra fortuitamente il soldato Antoine, contemporaneamente simbolo di amore e di verità. I due personaggi si troveranno accomunati dalla stessa sensazione di paura, incertezza e attesa nei confronti di un destino immutabile. La flânerie di Cléo, la sua passeggiata, è in realtà un percorso di formazione, fino alla scoperta della verità, attraverso la presa di coscienza nei confronti di una morte ineluttabile. Riprendendo l’antico, e sempre tragico, binomio amore-morte, Agnès Varda vuole portare il pubblico a riflettere sull’esistenza umana e sul passare inesorabile del tempo, attraverso un forte uso di metafore, simboli, espedienti comici ed elementi grotteschi e surreali. «Il mio è un cinema fatto di ostacoli e di contraddizioni; un cinema di coscienza, ovvero un cinema di riflessione, che può essere spettacolo, ma che si serve anche dello spettacolo per parlare di una certa visione del mondo» chiarisce ancora una volta l’autrice franco-belga.

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Parc Montsouris, Parigi (foto dell’autrice, 2019)

Il parco Montsouris, i quartieri di Montparnasse e di Mouffetard, ma anche i café letterari sulla rive gauche, i ponti storici lungo il percorso della Senna, e soprattutto rue Daguerre sono tutti luoghi in grado di evocare immagini preziose, tasselli dell’opera cinematografica della Varda. Parigi ha svariate anime, e infinite storie. Oltre alla bellezza architettonica, artistica e storica, questa città porta con sé il ricordo di tutti gli autori che vi hanno vissuto e che vi hanno ambientato le loro poesie e i loro racconti.
Una delle anime che continuerano a fluttuare per Parigi è sicuramente quella di Agnès Varda. Per anni, dopo essermi appassionata alla sua filmografia, non ho fatto che immaginarmi come sarebbe stato poterne discutere con lei, faccia a faccia, una chiacchierata nel cortile tra una tazza di caffè e le fusa del suo gatto. Agnès Varda rappresenta oggi quell’incontro e quell’intervista mancata, che non potrò mai realizzare, ma che per anni ho idealizzato nella mia mente. A dirla tutta, io davanti al portone colorato di rue Daguerre ci sono tornata, anche se troppo tardi per quell’incontro. É stato come un viaggio a ritroso nel tempo: ancora oggi, rimane inaspettatamente la stessa via di mercanti e di botteghe degli anni Sessanta, forse meno naive e coi prezzi più cari, ma si respira tutt’ora la stessa atmosfera, in contrasto con i grandi viali trafficati che troviamo dietro l’angolo. Se in questa via e in luoghi come il Parc Montsouris ci si aspetta di trovare la stessa atmosfera dei suoi film, diversamente avviene in altre zone della metropoli. Le città si trasformano e si sviluppano, mentre il tempo scorre, come un fiume, come la Senna, come il mare che bagna le spiagge tanto amate da Agnès.


«Se aprissimo le persone, troveremmo dei paesaggi. Se aprissero me, troverebbero spiagge»
Agnès Varda