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Esordire vent’anni dopo. Una conversazione con Paolo Di Paolo

Intervista a uno dei maggiori scrittori contemporanei italiani: dal suo romanzo d’esordio, ora ripubblicato da La nave di Teseo, al progetto di un libro newsletter

Rivivere gli anni degli esordi, come un nuovo «passare dal via». Lo racconta Paolo Di Paolo nella postfazione di Nuovi cieli, nuove carte, la sua prima raccolta di racconti finalista al Premio Calvino nel 2003, ora riedita da Giulio Perrone Editore in una nuova veste grafica con una bella copertina a cura di Claudia Intino. Il rilancio curiosamente viene a coincidere con la ripubblicazione del romanzo d’esordio di Paolo Di Paolo, Raccontami la notte in cui sono nato, ora edito da La nave di Teseo. Cosa significa esordire, di nuovo, vent’anni dopo? Cosa si prova a rileggere i propri primi libri?

L’autore la definisce «una sorta di cabala imprevedibile, ma anche l’inizio di un nuovo percorso» dettato dal cambio di casa editrice e da una nuova sfida letteraria davvero originale di cui abbiamo parlato nel corso di questa intervista. Tanto Raccontami la notte in cui sono nato quanto Nuovi cieli, nuove carte sono una matrice della riflessione sulla «vita potenziale», in cui si inscrive la visione di letteratura di Paolo Di Paolo.

Si dice – ed è una leggenda che si tramanda nelle scuole di scrittura – che ogni scrittore abbia un proprio tema, una sorta di ossessione che ritorna in tutti i suoi libri e che è presente, spesso sotto traccia, sin dal primo libro. Hai scoperto qual è il tuo tema?
Sono d’accordo con questa considerazione, spesso come altri – come tutti – ho l’illusione di scrivere libri diversi e, da un certo punto di vista, lo sono. Si tratta di libri diversi strutturalmente, magari rispetto ai toni o al tipo di esperienza che in quei libri si riflette, però devo poi constatare che, contraddicendo quell’illusione, scrivo sempre una variante dello stesso libro. Questo non lo percepisco come un limite, mi appare più una constatazione del fatto che c’è un’ossessione dominante che governa la scrittura. Pensiamo a Raccontami la notte in cui sono nato e Romanzo senza umani, pur essendo libri diversi, mettendoli tra loro in rapporto torna in entrambi l’ossessione per il passato e il tentativo di interrogare questa sostanza un po’ sfuggente del tempo che abbiamo alle spalle. Quindi penso che sì, giriamo sempre intorno a quel tema, spesso da angolature diverse, però lì c’è qualcosa che probabilmente ha a che fare pure con l’origine della vocazione.

Nuovi cieli, nuove carte di Paolo Di Paolo (Giulio Perrone, 2025)

La raccolta di racconti Nuovi cieli, nuove carte è stata il tuo esordio nel mondo letterario. Tra i finalisti al Premio Calvino, è stato edita da Empiria nel 2004, ora vent’anni dopo appare in una nuova edizione per Giulio Perrone Editore. Qual è il tuo rapporto con questo tuo primo libro? Ho la sensazione che te ne vergogni un po’. Cosa direbbe il Paolo di oggi al Paolo di vent’anni fa?
Con il libro d’esordio c’è un rapporto difficile, perché onestamente mi sento molto distante da quello che ero quando l’ho scritto. Nuovi cieli, nuove carte è un libro che mi suscita sensazioni contrastanti: da un lato mi rendo conto che se non l’avessi scritto non avrei mai messo una base, per quanto fragile, di quello che sarebbe venuto dopo. Al Paolo di vent’anni fa direi, forse, di fidarsi di più non tanto di sé stesso, ma della materia dell’esistenza, a prescindere dal filtro della letteratura. Il suggerimento che darei a quel ventenne è “non appoggiarti così tanto alla letteratura”, perché poi mi sono reso conto che in quasi tutti i libri che ho scritto c’è un filtro letterario. Adesso a quel ventenne direi di scrivere senza preoccuparsi dei libri che ha letto, degli autori che ha amato: è come se da queste pagine venisse fuori un iperlettore che ha bisogno di affidarsi ai libri che ha letto per poter scrivere, quando invece aveva già una voce sua. 

Italo Calvino, che tu citi spesso, nella postfazione al Sentiero dei nidi di ragno del 1964 osservava che «il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta». Sei d’accordo? Se potessi vorresti poter scrivere di nuovo il tuo primo libro?
Spesso vorrei avere il coraggio di inventarmi uno pseudonimo, una sorta di nom de plume, per illudermi di avere una seconda occasione. Perché questa idea di ricominciare mi dà l’illusione di liberarmi, appunto, da un’ossessione. Ma, come abbiamo detto, forse riprenderei lo stesso tema e sarei comunque lo scrittore che sono, scriverei di nuovo quel libro. Vorrei in qualche modo lasciar andare la sensazione di aver detto abbastanza, di non poter più essere sorprendente. C’è un testo di Gottfried Benn che si intitola Invecchiare è un problema per artisti, in cui l’autore si chiede se la freschezza degli inizi sia più interessante della consapevolezza della maturità: cosa te ne fai di questa maturità, di questa consapevolezza, la metti in gioco per un risultato più compiuto, oppure diventa addirittura ostativa per la tua libertà di espressione? I primi libri sono libri incondizionati, non c’è nessuna blindatura, nessun orizzonte d’attesa, nessuna richiesta preventiva, nessuna interlocuzione editoriale, tutto nasce liberamente. A volte oggi mi domando: ma quella libertà l’ho goduta appieno, l’ho sfruttata fino in fondo? Vorrei avere l’opportunità di riviverla, ma so che, anche sotto pseudonimo, sarebbe impossibile, perché dietro il nome fittizio ci sarei comunque io, che ho quarant’anni e non sono un esordiente.

È curioso perché è lo stesso tema che ritorna nel tuo primo libro: Raccontami la notte in cui sono nato. Il protagonista, Lucien, decide di vendere la sua vita per poter vivere quella di un altro: sente che i confini della sua vita gli vanno stretti. Questa insoddisfazione, a ben vedere, ritorna in tutti i tuoi protagonisti, tocca anche in Mauro Barbi di Romanzo senza umani...
Non avrei mai scritto se mi fossi sentito appagato dalla mia vita e anche adesso, per quanto mi possa sentire soddisfatto, è sempre questa inquietudine che mi spinge a scrivere. Anche se non fossi uno scrittore, forse avrei comunque il temperamento di chi nell’inquietudine non trova il suo centro. Più che insoddisfazione la chiamerei “insofferenza” ed è una componente che, è vero, forse ci sarebbe stata comunque nei miei libri. Infatti quasi tutti i miei personaggi sono scrittori: in Raccontami la notte in cui sono nato c’è il ventenne che fa il cronista per un giornale locale e ama scrivere; in Dove eravate tutti il protagonista che scrive la tesi di laurea; in Romanzo senza umani lo storico che scrive saggi; in Mandami tanta vita lo scrittore-editore; persino in Lontano dagli occhi, forse il testo più lontano da questa idea letteraria, c’è un io che scrive perché sa di poter raccontare quella storia in quanto scrittore.

C’è anche un altro personaggio ricorrente nei tuoi libri, quello dell’insegnante. In Questa lontananza così vicina parli di un’insegnante di letteratura che ricorda un po’ l’Elizabeth Finch di Julian Barnes. Qual è il tuo rapporto con i Maestri?
Vero, mi fai pensare che anche quella è una ricorrenza. Io racconto, anche pubblicamente, spesso il rapporto con i Maestri. Ho cominciato proprio a partire dall’intervista, dalla dialettica con la persona che ha più soglie di me alle spalle e dentro i miei libri c’è sempre comunque un magistero: c’è D. l’insegnante di Questa lontananza così vicina, ma anche Cardolini in Romanzo senza umani, ritorna l’idea che ci sia qualcuno che ha un’esperienza superiore del mondo, non solo della letteratura, e dall’altra parte qualcuno di più giovane che voglia, illusoriamente, come farsi dare delle chiavi d’accesso. E poi in generale la scuola, intesa come orizzonte simbolico dove c’è qualcuno che apprende e qualcuno che insegna, mi ha sempre affascinato. 

Passando invece al Paolo Di Paolo scrittore. Mi piace il fatto che tu vesti proprio i panni dello scrittore in tutto e per tutto, cioè non ti limiti a scrivere il libro, cerchi il dialogo con il lettore, la critica persino. Rispondi pubblicamente alle critiche, ne trai una riflessione. Vedi nel confronto una sfida anche per la tua scrittura?
Non mi sono mai fidato dell’espressione «scrivo per me stesso», non puoi scrivere solo per te stesso se vuoi fare lo scrittore, altrimenti scriveresti come forma di autoterapia. Moravia in una prefazione al primo di libro di Dacia Maraini scriveva: «Comincia per te un dialogo, che mi auguro il più lungo possibile». Ecco, mi è sempre sembrata generosa l’idea del «dialogo» e allora ogni libro lo penso come un’occasione di dialogo. Quindi anche le critiche, sebbene a volte mi turbino o persino mi deludano, cerco di trasformarle in una sorta di scambio, di interlocuzione. Se una lettrice, ad esempio, mi dice che il mio personaggio lo ha detestato, io lo preferisco all’indifferenza: perché se l’ha detestato vuol dire che ha suscitato in lei una reazione emotiva ed è quello ciò che a me interessa. Se un libro ha smosso qualcosa in te, sia pure fastidio, va interrogato.

Il tuo nuovo progetto con La nave di Teseo 1999. Un attimo prima del mondo com’è rientra in questa idea di dialogo con i lettori: un libro newsletter, lo definisci un “non-libro di 20 puntate”.  Un nuovo modo di cercare il rapporto col pubblico? La letteratura sta prendendo una piega social?
L’idea del romanzo newsletter è un invito al confronto, non come qualcuno può temere un condizionamento – a parte che non sono uno scrittore da fantasy o romance, quindi non è Wattpad la mia piattaforma, non deve essere il lettore a dirmi come andare avanti – ma mi interessa piuttosto che il lettore reagisca ed è una cosa che nella frontalità della presentazione perdi. A me interessa molto approfondire quella idiosincrasia che una singola pagina di libro può generare. Io le presentazioni le trasformerei, se potessi, in un’intervista ai lettori: in qualche modo anche l’idea del libro-newsletter va in quella direzione. In questo caso la segmentazione del testo offre la possibilità di raccogliere le reazioni private dei lettori: mando un capitolo, c’è una settimana per leggerlo, commentarlo, per dirmi se ti è piaciuto o magari per dirmi niente. I social oggi stanno diventando sempre più autopromozionali, mentre la newsletter offre un’occasione di dialogo.  Quello che voglio incentivare con 1999 è una memoria collettiva: tu dov’eri? Come l’hai vissuto tu quel momento?

1999. Un attimo prima del mondo com’è di Paolo Di Paolo

C’è già la copertina, molto bella, tra l’altro. In seguito il libro sarà anche pubblicato in formato cartaceo?
Per il momento non voglio preoccuparmi della destinazione, è chiaro che al 90% diventerà un libro cartaceo, magari subendo anche delle modifiche rispetto all’originale, ma l’importante è portare avanti l’idea del frammento. È vero che io ancora non l’ho scritto questo libro, magari ho dei materiali, delle idee, ma voglio che sia costruito settimana per settimana tenendo conto anche degli impedimenti, delle difficoltà nel rispettare le scadenze, dei blocchi – laddove accadesse vorrei rendere il blocco in modo narrativo, se dovessi avere un’esitazione renderò parte il lettore anche di quello. La forma cartacea non conta, cioè non è quella per forza la destinazione finale.

Mi colpisce il fatto che, tra gli scrittori italiani contemporanei, tu sei forse il più innovatore: hai sempre qualche nuova idea, qualche sfida per coinvolgere i lettori. Com’è nata l’idea di un libro-newsletter?
Intanto dalla necessità che sento costantemente di sperimentare, di allargare gli orizzonti. Non voglio annoiarmi, né mettere il pilota automatico e credere che fare dei libri sia l’unico gesto possibile, ci sono anche molte altre cose che uno scrittore può fare e uno di questi dal mio punto di vista era “fare un libro che non è un libro”. Dopodiché ho letto sul New Yorker un articolo che mi ha sorpreso, perché non mi sarei aspettato che un libro newsletter ci fosse già, non avevo mai approfondito l’idea. Mi ha colpito che molti scrittori statunitensi stanno usando substack, la stessa piattaforma, per fare questo. Penso che sia sintomatico dei tempi che stiamo vivendo, per alcuni scrittori la newsletter sta diventando uno spazio di sperimentazione – magari nel Novecento questo spazio era riservato alla rivista – che ha che fare proprio con quella dimensione di partecipazione, di condivisione di ciò che accade, come se fosse uno spettacolo teatrale, quindi dà valore al momento. Non conta il dato numerico, la resa in libreria, la promozione, penso si recuperi una dimensione più intima che si è perduta. Mi sembra che oggi nel mondo dei libri a volte l’esteriorità sopravanzi il contenuto.  

Scrivi in maniera un po’ polemica: «Di sicuro sono impressionato dallo scarso interesse effettivo che hanno per i libri molti di coloro che lavorano nel mondo dei libri». Lo definisci un «chiacchiericcio senza fondo, senza convinzione». Una riflessione sul mondo dell’editoria attuale?
Quando ci lamentiamo che nel mondo fuori non si leggono più libri, la mia provocazione è chiedermi, senza pretendere una risposta, quanto davvero leggono quelli che si occupano di libri. Credo che la risposta vera sarebbe piuttosto sconcertante: persone che si occupano di libri per lavoro hanno perso il piacere per la lettura o l’hanno completamente soffocato. Quindi quello che poi mi disturba è l’enfasi, spesso vacua o retorica, con la quale si omaggia questo o quello scrittore con superlativi falsi come «potentissimo», una retorica che sembra un po’ truffaldina e non va a beneficio del lettore. Proviamo a usare i paratesti per entrare davvero in dialogo con il lettore, in fondo nessun libro è straordinario, ciascun libro rientra in un certo tipo di esperienza: dire che è «straordinario» non aggiunge nulla di particolare, non fa la differenza. È importante che un romanzo sia, prima di tutto, un’esperienza linguistica e non solo di contenuto, di trama.

Raccontami in cui sono nato di Paolo Di Paolo (La nave di Teseo, 2025)

Il tuo primo libro, Raccontami la notte in cui sono nato, è uscito nel 2008: una stagione d’oro per gli esordi italiani. Era l’anno di Paolo Giordano e Silvia Avallone, si puntava molto sui giovani e sugli esordienti in generale. Cosa è cambiato, secondo te, da allora?
Sicuramente ho avuto la fortuna proprio di trovarmi in quel momento in cui c’era un certo ricircolo di denaro nel mondo dell’editoria, prima della grande crisi. C’era un certo entusiasmo nei confronti degli esordienti, anche grazie al lancio di esordienti di lusso, come appunto Paolo Giordano e Silvia Avallone, che avevano vinto premi clamorosi. Io ho giovato di quel momento, di quel frangente. Oggi non è più così, non è detto che gli editori non scommettano più sugli esordienti, ma di certo non ci sono più quegli anticipi esorbitanti, quel senso di scommessa e quel tipo di attenzione al passaparola, si è molto più cauti rispetto ad allora.  

Se dovessi esordire adesso scriveresti ancora lo stesso libro, Raccontami la notte in cui sono nato, o sarebbe un libro diverso?   
Il libro che volevo scrivere non sarebbe probabilmente il libro che oggi mi sarebbe del tutto consentito di scrivere. Credo che la capacità dell’editoria di instradarti, di darti una direzione, sia aumentata, soprattutto se sei un esordiente puro. Oggi, ad esempio, si cercano molto le storie in cui lo scrittore racconta sé stesso, c’è come una specie di coazione alla forma della cosiddetta autofiction. Presumibilmente oggi un libro così impalpabile, aereo, letterario come Raccontami la notte in cui sono nato non rientrerebbe nel canone. Anche se nel libro c’è parte della mia esperienza, comunque non sono io il protagonista del libro: non mi chiamo Lucien, non ho mai comprato la vita di qualcun altro, eccetera. Oggi probabilmente mi verrebbe chiesto, da parte di alcuni degli esponenti dell’editoria maggiore: qual è la tua storia? Qual è il tuo trauma? Si tratta soprattutto di mettere in gioco la propria ferita o una sofferenza personale. Non lo dico con giudizio di valore, ma di fatto oggi c’è questa spinta editoriale a mettere in gioco sé stessi e i propri traumi. E io che sono invece piuttosto recalcitrante rispetto alla messa in scena diretta di me stesso forse sarei penalizzato. Quindi, per rispondere alla domanda, probabilmente il libro che scriverei sarebbe sempre lo stesso: Raccontami la notte in cui sono nato.  

Che effetto ti fa rileggerlo dopo tanti anni? In uno dei tuoi primi racconti parlavi dell’opportunità di «rinominare il mondo», è l’idea di letteratura nella quale ti riconosci?
Nel «ripassare dal via» mi rendo conto che non sarebbe stato forse questo il libro che avrei voluto scrivere, ma sarebbe stato comunque un romanzo che avrebbe manifestato le stesse ossessioni. Se dovessi riassumere tutto quello che ho scritto in un’unica locuzione direi che è un continuo, costante ragionamento sulla “vita potenziale”. La vita potenziale non è la vita che viviamo, ma è la vita che vorremmo vivere o che avremmo voluto vivere, o che crediamo di aver vissuto. E in questa tripartizione non è che poi non ci sia la vita reale, la vita potenziale è anche la vita nella letteratura, la vita nella fantasia, nella fantasticheria, la vita della progettualità, la vita del desiderio. Tutte forme di vita che hanno qualcosa in potenza, qualcosa che non è detto che poi si incarni, si concretizzi, ma non per questo è meno vera. Perché la vita dell’immaginazione non è detto che sia meno vita. È una vita.   

Immagine di copertina: Paolo Di Paolo © Roberto Campanaro

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