Comma 22

Tutto su Mariangela. Melato, eroina della scena



«Adesso morte puoi ben vantarti. Hai in tuo possesso una ragazza senza pari» dieci anni dall’11 gennaio 2013, ultima uscita di scena – o forse entrata, su un palcoscenico che noi, da qui, semplicemente non vediamo. Michele Sancisi parte da qui, per raccontare la Signora della scena, e subito risuona Shakespeare, e non potrebbe essere altrimenti. Le donne, nelle opere del Bardo – lo sottolinea anche l’autore riminese – sono piuttosto neglette, e del resto ne farà le spese, lo chiariscono le pagine da cui si parte in queste righe, anche la stessa Melato, che agli inizi degli anni Novanta porta in scena una Bisbetica domata in cui è costretta a cedere in parte la scena a Franco Branciaroli. Eppure, nelle pagine di Tutto su Mariangela, uscito per Bompiani con un titolo che fa eco al capolavoro di Pedro Almodóvar, collaborazione mancata e forse rimpianto di Mariangela, diventa evidente lo status artistico dell’eroina, talora tragica, talora meravigliosamente comica, della protagonista della scena teatrale italiana. Una biografia che, soprattutto all’inizio, sembrerebbe scritta da uno sceneggiatore se non fosse sorretta da un lavoro documentale di scrupolosa esaustività. Nelle pagine di Sancisi, infatti, c’è davvero tutto su Mariangela. Solo qualche piccola, puntuale omissione, laddove, verosimilmente, chi le era vicino ha voluto conservare il riserbo su qualche nome legato al privato. Per il resto, non manca niente. Neppure sulla pagina che Melato stessa, fino agli ultimi giorni, ha voluto conservare nel silenzio. Quell’infanzia che è un buco di buio, di cui non esiste nessuna immagine, quasi niente che non passi dai ricordi della sorella Anna, la quale tuttavia, della sua Manna (un po’ sorella, un po’ mamma) può tramandare solo i ricordi che ha vissuto, ovvero dai suoi undici anni in avanti. A spingere lo sguardo più indietro, però, con l’aiuto di alcuni vicini di casa, ai primi anni di Mariangelina, c’è una bambina con la pelle di vetro, costretta a vivere coperta di bende e a combattere col dolore, con una famiglia divisa tra la freddezza materna e un padre devotissimo (e perso presto, anche lui) cui lo stipendio da ghisa (i proverbiali vigili urbani meneghini) non basta mai; e allora si porta al monte dei pegni qualsiasi cosa possa avere un valore, mentre il tavolo della cucina della loro casa di ringhiera in via Montebello si trasforma nel piano da lavoro da sarta della madre, pur di mettere insieme il pranzo con la cena. È un quadro evocativo ed esemplare della Milano popolare degli anni in cui ancora si sente la fame, quello della famiglia arrivata da Trieste, dove il padre è nato con il nome di Adolf Hönig, che il fascismo poi trasformerà in Adolfo Melato in assonanza con il significato originale, miele, e per vicinanza ai cognomi tipici della zona. Nonostante l’origine paterna, però, Mariangela è e sarà indiscutibilmente una ragazza di Milano. Non solo perché milanesissima è mamma Lina, o perché qui crescerà insieme ad alcuni compagni di giochi che saranno poi simboli della città, amici e compagni di strada che rispondono ai nomi, per fare due esempi, di Renato Pozzetto e Adriano Celentano. Ma soprattutto perché milanese si sentirà, sempre. Ogni parola dei suoi copioni, tutti, anche il secentesco Racine della Fedra, sarà sempre tradotta in milanese. Per essere più vera, e perché quella, forse, è la lingua in cui le viene istintivo pensare. Anche se – in ossequio all’adagio sui profeti in patria – molto più che a Milano e quel Piccolo Teatro che oggi porta il suo nome e il suo volto, o l’Accademia dei Filodrammatici dove ha studiato – sarà Roma a segnare il suo percorso d’artista.

Melato

I primi anni, però, sono quelli di Milano, e se è vero che ogni luce nasce dall’ombra, la stella folgorante che sarà Mariangela Melato in scena nasce dal buio di una bimba sempre malata, che non può tenere in mano la penna per via delle mani bendate, bocciata in terza elementare per mancanza di frequenza e che sarà costretta a terminare gli studi dell’obbligo nella “scuola speciale” del parco Trotter, emblema già allora di avanguardia pedagogica ed empatia. Questa infanzia, di cui Melato rifiuterà sempre di parlare, con le mosche per compagne e una solitudine portata come un destino, è anche la stessa però in cui un giovane medico, il dottor Levi, le insegnerà che la vocalità è tutto, forgiando il magnetismo di quella voce irripetibile (e della sua tenuta scenica?) che farà della futura attrice quel che conosciamo.

Ricucita la distanza coi coetanei – pur con qualche carenza di cui sentirà sempre il peso, e che compenserà con dedizione e un’intelligenza veloce – la vocazione alla scena la toglie al lavoro da vetrinista alla Rinascente che rispondeva a quell’etica del lavoro, del doversi mantenere, tutta milanese, ma più ancora tutta di Mariangela che, anche già diventata diva, sarà sempre la prima a presentarsi, anche ai colleghi più giovani, al primo giorno di prove col copione già imparato a memoria: un esempio cui non servono altre parole. Lavoro, lavoro, lavoro, e la rapidità di saltare sui treni in corsa quando è il momento, e di lasciare il sicuro per fare un passo in più. Questa è la sintesi di tutta la storia professionale di Mariangela Melato. Che lascia l’Accademia prima di finirla per seguire a Trieste Fantasio Piccoli e la sua prima compagnia. Poi poco più che ventenne salta a bordo del carrozzone di guitti straordinari come Dario Fo e Franca Rame, che le consegnano il primo nome in cartellone accanto a quel «prima puttana» che le farà pensare con terrore alla reazione della mamma. Tutto di corsa e niente per caso: sa benissimo cosa vuole, Mariangela, e non sa stare ferma. Scopre, cambia, lascia e ricomincia. E dovunque va, l’attenzione – spesso, con scorno di registi e colleghi di lavoro, i quali inevitabilmente finiscono, se non possono non vederla, a innamorarsene – è tutta per lei. Come la notte dell’allunaggio, in piazza Duomo (il ritorno nella sua Milano) in cui la sua Olimpia, capelli neri da profetessa e gli occhi – gli occhi grandi e incantatori diventati il suo simbolo – bistrati di nero spesso, toglie la scena a colleghe ben più blasonate diventando il cuore di fatto del primo capolavoro del sodale e amico di una vita, Luca Ronconi. Nemmeno il tempo di brillare, però, Mariangela è già altrove, a spingere l’asticella un po’ più in là. Arriva Roma. Arriva il cinema. Elio Petri le dà il primo ruolo importante accanto a un mostro sacro come Gian Maria Volontè, in La classe operaia va in paradiso e poi Todo Modo e Lina Wertmüller ne fa una musa con Mimì metallurgico ferito nell’onore e soprattutto Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, con le sue scene iconiche accanto a Giancarlo Giannini. Un cinema in cui si farà molti amici (Rosi, De Sica, Montaldo), che però non la chiameranno mai, dove raccoglierà, sicuramente, meno di quanto avrebbe potuto, in un eterno dualismo con Monica Vitti, diventato astio forse solo nell’immaginario della seconda. Colpa forse di una vis comica e di un fascino comune a entrambe, che agli occhi dei registi le sovrapponeva rendendole l’una alternativa all’altra. La ragazza di Milano vedrà il grande exploit del cinema italiano degli anni Settanta, ma non saprà forse vedere il suo spegnersi nel decennio successivo, rinunciando – salvo qualche piccola esperienza, come per gioco, ma mai senza il suo straordinario rigore – al salto al di là dell’oceano che l’avrebbe consegnata all’empireo delle inimitabili per la macchina da presa. Forse, in fondo, neanche quello le basta. Non per supponenza, al contrario: lei vuole tutto, vuole il cinema e il teatro, e può avere insieme l’uno e l’altro solamente restando in Europa, in Italia, in particolare, anche se si concederà qualche sconfinamento francese. Mariangela Melato vuole – e sa – essere tutto. La punk che va in scena per gli amici quasi senza paga, l’androgino, la bellezza paradigmatica, la pinocchietta leggera che fa del suo corpo quello che vuole, si snoda oltre i confini della fisica e si fa strumento, a volte lieve a volte ieratico. La Picassa, per quei suoi tratti così particolari che del suo cruccio faranno la via per renderla indimenticabile per chiunque.

Esaurita (per colpe non sue, più che per il tempo) l’esperienza cinematografica, quello al teatro sarà il ritorno della diva che, in quella che Sancisi chiama «fragile megalomania», lo sa ma non vuole esserlo. Perché non viene mai meno la sua vocazione al cambiamento, e soprattutto perché sa che «la felicità e la stasi immalinconiscono», e lei, malinconica, non vuol esserlo neanche davanti al dolore, vero, quello che la piega e le fa recitare Duras minata dalla malattia, mentre gli amici vorrebbero solo portarla via dal palcoscenico. Lei come nessuno sa e vuole darsi fino all’ultimo fiato.

Già, gli amici. Sono loro a comporre il ritratto multiforme e corale che Sancisi cuce, loro a squarciare il velo di riserbo anche su una Mariangela privata tra le insicurezze e gli amori, quelli noti e quelli – quello, soprattutto – custodito con rigore perché più importante, con l’uomo che trasfigurandola in Maria dirà «se potessi parlare di Maria avrei fatto la mia rivoluzione». Un racconto sempre tenero ma mai agiografico, mai retorico. All’idolatria del mito, Michele Sancisi e le tantissime voci, molte mai sentite prima, cui dà parola nelle sue pagine, preferiscono la verità della polvere del palcoscenico, scelgono di far sentire nei muscoli la fatica dell’attrice, mettere in scena l’artista per quel che è, quando il cerone cola e si sbagliano le scelte, anche se accanto a nomi ingombranti come quello del conte Luchino Visconti.

Perché in fondo questa è stata, soprattutto, Mariangela Melato. Il fascino, l’eclettismo, il talento sopraffino, certo, ma soprattutto un’artista a tutto tondo – le sue doti di ballerina e cantante, da Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini, dalla ragazza in valigia a Canzonissima al varietà su sua misura di Sola me ne vo’ fino al sogno del musical, non sono mai abbastanza raccontate. È, (ancora) una donna, un’attrice, che aveva un progetto. E ogni passo, gli straordinari successi e le divagazioni, non ne sono che una parte essenziale. E allora, quando il sipario alla fine si chiude, è proprio raccontandola com’è, unendo le voci di un coro così simile a quello che proprio in teatro, fin dagli albori della storia, segna i passi dell’eroina, come Medea (le madri, e la madre che Mariangela non è stata, chiederebbero un approfondimento a parte) si può provare a rendere giustizia al multiforme ingegno di un’icona che continua, dieci anni dopo l’ultimo sipario, a essere ineguagliabile e presente.