Costruire a posteriori un “diario di traduzione” di un libro è impresa ardua, per non dire impossibile, specie in un’epoca nella quale si è sempre meno amanuensi e il tutto si svolge su supporto elettronico, con conseguenti cancellature delle versioni precedenti che inevitabilmente spariscono.
Mi limiterò quindi ad alcune considerazioni che possano dare la misura delle problematiche affrontate e delle strategie adottate, senza entrare in discorsi eccessivamente specialistici. Innanzitutto, mi corre l’obbligo di ricordare che fu Stefano Malosso a organizzare nel 2018 un incontro negli uffici della Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi a Milano. Dato che il lavoro di preparazione del libro vero e proprio iniziò solo nel gennaio 2021 con un’accurata revisione editoriale, mi è difficile rammentare nel dettaglio la totalità delle decisioni traduttive prese in prima istanza al momento della prima stesura. Posso solo dire che i due mesi circa di messa a punto in bozze sono stati molto fecondi e fruttuosi per la competenza degli interlocutori editoriali assegnatimi e che mi pare si sia giunti a un risultato finale convincente, tale da ben conciliare le esigenze autoriali e quelle del pubblico cui ci si rivolge.
Va detto che dal 1999 a oggi ho curato e tradotto diciassette libri di Yves Bonnefoy in Italia (poesia, saggistica, prose), uno dei quali, il Meridiano Mondadori L’opera poetica (2010) ne contiene da solo tredici, otto dei quali tradotti integralmente da me. Di conseguenza, questi vent’anni e più di collaborazione (mi verrebbe quasi di dire “simbiosi”) con l’Autore, di cui di fatto sono oggi il traduttore italiano “ufficiale” di riferimento per sua scelta in vita, e per mia fedeltà post mortem, mi hanno consentito di elaborare un modus traducendi a lui adatto che ha avuto il suo pieno avvallo e che è stato oggetto di pressoché quotidiane discussioni fra noi utili a comprendere le sue intenzioni, le sue predilezioni stilistiche, le sue idee e la sua poetica da me studiata in ampi saggi anche legati alle problematiche traduttive (si veda, ad esempio, il mio Il senso del suono. Traduzioni poetica e ritmo, Donzelli 2013).
Bonnefoy non è solo un poeta, ma anche uno dei maggiori traduttori di Shakespeare al mondo e un grande prosatore e saggista; inoltre il suo amore per l’Italia e la cultura italiana, attestato da vari saggi come La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia (Donzelli 2005), o Roma 1630 (Aragno 2006), così come dalle sue versioni di testi poetici di Petrarca, Leopardi e Pascoli, ne fanno, per il suo traduttore, un interlocutore-collega, padrone delle due lingue e consapevole della sfida che la traduzione lancia al poeta nel duplice ruolo di traducente o di tradotto. Questo è stato indubbiamente un vantaggio, come è sempre quello dato a chi traduca un vivente, per di più se competente (gli si può chiedere un chiarimento, avere risposte e opinioni in itinere); d’altro lato, il vaglio cui erano soggette le mie prove di traduzione si prestava al rischio di qualche condizionamento, ma, data la nostra amicizia e la reciproca fiducia, non si è mai trattato di una relazione conflittuale, semmai di un’utile e fruttuosa integrazione di opinioni sempre serena. A ciò giovava ovviamente l’indole bonaria e generosa della persona, rigorosa nell’attenzione al dato testuale e linguistico, ma anche capace di comprendere la poetica delle scelte necessarie rispetto alle due diverse lingue a confronto.
Se per i precedenti libri apparsi quando era in vita avevo sempre potuto contare sulla sua attenzione e revisione per la poesia (e spesso anche per i saggi, almeno per le parti più controverse), nel caso de La sciarpa rossa (La nave di Teseo, 2021) ciò non è stato ovviamente possibile, dato che il libro è stato pubblicato in Francia dal Mercure de France nel 2016, pochi mesi prima della sua morte e che io ho avuto incarico di tradurlo da La nave di Teseo solo in seguito, a fine 2017. Bonnefoy me ne aveva parlato a più riprese nel corso degli anni, ma senza mai mostrarmene estratti in anteprima, e anche dicendomi che si trattava di un work in progress da almeno cinquant’anni, più volte abbandonato e ripreso, e al fine un giorno concluso, come mi scrisse una sera in una e-mail, pochi mesi prima della sua scomparsa: «Domani termino L’écharpe rouge».
Quindi in questo lavoro non ho potuto avvalermi del confronto con l’Autore, che pur sarebbe stato prezioso, data la complessità del pensiero e dei rimandi, spesso enigmatici. Tuttavia, l’ho tradotto con nella mente e all’orecchio l’eco della sua voce e delle nostre lunghe conversazioni, senza sentirmi mai solo. Il fatto è che l’opera di Bonnefoy, l’ampiezza della sua riflessione sono un mondo all’inizio di ardua comprensione; poi, una volta trovata la chiave, la relazione fra persone ed eventi diventa intelligibile e acquisisce anche una sua intrinseca coerenza. Ne La sciarpa rossa, libro dalla struttura singolare e palesemente trans-generica (nel parlarmene mi scrisse: «Vous direz à l’éditeur que c’est quelque chose du genre “roman”….»), che muove dalla proposizione di un ampio frammento di versi sul quale innesta un’autoanalisi tale da risalire ai personaggi enigmatici in esso presenti, per poi da questa pista vagamente “giallo-poliziesca” estendersi a una sorta di autobiografia incentrata sul padre e sulla madre d’origini occitaniche, ricostruendo la storia del loro incontro e della loro relazione, fino a maturare il convincimento che il vero movente del libro sia il desiderio di restituire la parola al padre, che molto patì per un senso d’inferiorità nei confronti di sua madre e della sua famiglia, in un Edipo rovesciato dove il figlio, da avversario del padre, si trasforma in un suo alleato, senza dimenticare le digressioni critiche su Max Ernst e Pierre Jean Jouve e le due scene d’ambientazione italiana (Torino, Genova), occasione di una riflessione psicanalitica sull’origine della relazione parentale e della propria vocazione poetica.
Tradurre un’opera del genere significa innanzitutto modularsi sulle sue oscillazioni tematiche e stilistiche, a partire dal passaggio dalla poesia in versi liberi alla prosa poetica e critica. Occorre poi documentarsi sull’ampia intertestualità dei rimandi (da Cavalcanti a Dans les sables rouges di Léon Lambry, fino alla pittura di Max Ernst, all’opera di Jouve, Baudelaire e Rimbaud costantemente evocati, così come alla materia bretone arturiana…). Complesse le misteriose relazioni fra i personaggi dell’ampio frammento in versi, inframezzato di auto-commenti, che il traduttore comprende solo in un secondo momento e che determinano, sul piano sintattico, alcune difficoltà nella traduzione di pronomi personali di valore neutro in francese. Ma già la descrizione minuziosa dello studiolo del nonno materno scrittore amatoriale nel quale il narratore rinviene l’enigmatico testo in versi è d’una precisione del dettaglio tale da far pensare a Balzac o a Proust. Anche la parte relativa a Dans les sables rouges non è priva d’insidie per la referenzialità dei personaggi e per la necessità d’inventare un nome alla protagonista femminile Céphéis, ricerca che ha richiesto di studiare il corpus ovidiano. Tutto poi è enigmatico nelle Due scene e Note annesse, vero itinerario psicanalitico denso di considerazioni profonde affidate a periodi assai lunghi che hanno richiesto alcuni interventi che, pur rispettando il senso e la forma dell’originale, comunque consentissero un’intellezione del sostrato teorico cercando di salvarne la poesia e il portato di senso. Sono cose che hanno richiesto all’Autore stesso decenni per essere assimilate e comprese, figuriamoci se una loro esaustiva comprensione sarebbe stata possibile al suo traduttore in pochi mesi.
Sono perciò felice di avere potuto offrire al pubblico italiano un libro come questo, che fa parte integrante, per l’Autore, della sua opera poetica, di cui è, a ben vedere, una spiegazione e continuazione. Essa dà la misura della profondità intellettuale del pensiero poetico di Bonnefoy, delle sue diramazioni ad ampio raggio, dei cardini della sua poetica, affidati alle nozioni di presenza, finitudine, speranza, che sono il frutto di un lungo percorso di ricerca e conoscenza in tutti i campi del sapere, senza mai disdegnare la lezione della vita, delle sue relazioni fondamentali e imprescindibili, a partire dal «legame di sangue», che simboleggia, per l’appunto, la sciarpa rossa, dono fatto dal padre al figlio. In effetti – non so se sia la stessa, ne osai chiedere allora –, una sciarpa color vino, bordeaux, campeggiava sgargiante al collo del poeta, in varie foto e anche in taluni nostri incontri.
So solo che ne ho sentito la simbolica presenza ad ogni nostro abbraccio (al tempo in cui gli abbracci erano ancora possibili…) e che ne ho fatto, a mia volta, simbolicamente un mio «legame di sangue» con lui, nel segno di una fedeltà che, come nella sua amata agapè, dà e non chiede nulla, per affetto e gratitudine, per, come egli era solito dirmi, continuare.