Comma 22

Sicilia e lingua dei sentimenti. Intervista a Veronica Galletta



Ci sono penne a cui bastano poche righe per catturare il lettore, diventano in un batter d’occhio fedeli compagne di viaggio per lettori che cercano eleganza, emozioni e racconti che valicano i confini geografici per estendersi fino a quelli dell’anima. Veronica Galletta, che ha esordito nel 2020 con Le isole di Norman (Italo Svevo) vincendo il Premio Campiello Opera Prima, per poi arrivare in cinquina allo Strega con Nina sull’argine (Minimum Fax, 2021), torna, con grande gioia di chi ha imparato ad amare la sua prosa evocativa e cangiante, con un nuovo romanzo che è un fine esperimento di stile e di racconto: Pelleossa (Minimum Fax, 2023). Una favola arcaica, terrosa ed emotiva, vissuta, osservata e interpretata dagli occhi di un bambino che cerca di crescere in un’epoca e in un luogo sofferente dove c’è poco spazio per i sogni e per le stravaganze, se non vuoi essere considerato il pazzo del paese. Affascinanti sono le corrispondenze, le somiglianze e le trasformazioni nella produzione di Veronica Galletta, e proprio da esse prende il via la nostra chiacchierata.

Veronica Galletta

Veronica Galletta, dopo la Ortigia di Le isole di Norman, ti sei spostata nel cuore della pianura padana con Nina sull’argine, e ora con Pelleossa, sei tornata alla tua terra, la Sicilia: quella della Seconda Guerra Mondiale, degli alleati, della povertà. Come hai scelto quest’ambientazione? Non è stata una scelta ma una conseguenza. Ho “incontrato” la figura dello scultore Filippo Bentivegna, a cui è ispirato uno dei due protagonisti del romanzo, Filippu, attraverso una canzone di un gruppo livornese, i Virginiana Miller. Nella canzone si racconta, appunto, di uno scultore considerato matto dai suoi concittadini poiché restava rinchiuso nel suo giardino a scolpire teste. Per me è stata, sin da subito, una storia che mi risuonava dentro e che ero certa non mi avrebbe abbandonata. Mi colpiva il progetto, per quanto assurdo, che questo artista si ostinava a portare avanti. Ho iniziato a scrivere di Filippu, e ciò che gli sta intorno è venuto da sé. Bentivegna è rimasto rinchiuso a scolpire teste dal 1919 al 1967, anno della sua morte, in principio aveva pensato di utilizzare un arco temporale molto ampio, poi ne ho scelto uno molto più ristretto, 1943-1947, perché ho voluto che la storia di un siciliano andasse a corrispondere a una pagina difficile per l’intera Sicilia. Non è, tra l’altro, nulla di anomalo nella mia produzione: Le isole di Norman, infatti, si conclude con l’omicidio di Giovanni Falcone, e in Nina sull’argine è presente come sottotraccia una riflessione sul modo di lavorare negli anni che precedono la crisi economica del 2008. Certamente, in Pelleossa, l’elemento storico è molto più evidente anche perché, più scavavo più scoprivo particolari che ispiravano e arricchivano l’intreccio.

I punti di contatto tra i tuoi romanzi sono molteplici. Tematicamente parlando in Pelleossa si possono rintracciare, declinati diversamente, i due tempi principali dei lavori precedenti: le relazioni umane anche tra diverse generazioni e il lavoro in chiave di identificazione sociopolitica… Non è qualcosa di premeditato, sono semplicemente elementi che fanno ripetutamente clic nella testa. Le relazioni sono alla base della comunicazione e il lavoro, comunque, è qualcosa che da siciliana e anche da ingegnere mi ha sempre toccata. La ricerca, l’assenza, la perdita del lavoro sono elementi su cui punto l’attenzione. Anche nella storia di Bentivegna mi sono focalizzata su passaggi controversi della sua vita come le ragioni, non del tutto chiare, che l’hanno costretto a tornare in Sicilia dopo essere emigrato negli Stati Uniti. Alcuni dicono a causa di una bastonata ricevuta durante una lite, altri a seguito di un incidente sul lavoro. In ogni caso venne dichiarato inabile e improduttivo e rimandato indietro. Riflettendo sui punti comuni, potrei dire che anche l’importanza del paesaggio e dei luoghi è rilevante: sono sempre presenti, reali, immaginari, deformati. Ad esempio, Santafarra in Pelleossa è un paese di finzione ma è collocato difronte all’isola Ferdinandea, quindi si può individuare il Canale di Sicilia. Qualunque sembianza assumano, non restano sullo sfondo, diventano quasi un personaggio aggiuntivo.

E, aggiungerei, non sono mai casuali, le vicende dei protagonisti non potrebbero avvenire altrove… Esattamente. Non potrebbero avvenire altrove per la protagonista de Le isole di Norman che si sente chiusa, bloccata dentro Ortigia. Se non ci fosse la nebbia padana non ci sarebbe il fantasma in Nina sull’argine.  In Pelleossa i luoghi sono ancora più importanti, perché in questo caso senza di essi verrebbe meno anche la lingua.

Pelleossa, lo sottolineavi anche tu, ha due protagonisti. Uno è Filippu e l’altro è Paolino, un bambino che tutto osserva. Il punto di vista preponderante è il suo. C’è una ragione? In principio la relazione di Filippu non era stata pensata con un bambino, bensì con il postino che lo avvicinava nel momento della consegna della posta. Si chiamava Paolo, finché il nome non è mutato in Paolino e con esso anche le sue sembianze hanno subito una trasformazione. Il punto di vista dei bambini mi interessa sempre molto e mi piacciono le storie in cui i bambini raccontano. Per uno scrittore è certamente una sfida, poiché non si può essere troppo mimetici, ma l’esito e l’impatto se le storie sono scritte bene è potentissimo. Penso a L’arpa d’erba di Capote, il cui incipit incredibile ho provato a omaggiare. Sono affezionata anche a molti altri titoli: L’isola del tesoro di Stevenson, o Verderame di Michele Mari, con Michelino che è un personaggio meraviglioso. Inoltre, credo che il punto di vista di un bambino implichi anche il sentimento, che probabilmente mi appartiene, di non sentirsi al posto giusto. Paolino non si sente a suo agio, non si sente parte della sua famiglia, vuole fare ed essere altro. E’ forse un’idea che un po’ rivoluzionaria rispetto all’idea classica per cui tutti abbiamo un destino.

I personaggi che non si sentono al posto giusto nella tua produzione cercano e hanno bisogno di confrontarsi con altri molto simili a loro. Il simile, in fondo, è ciò in cui puoi ritrovarti e riconoscerti anche se ne hai paura. Paolino ha paura di Filippu, lo immagina come un diavolo, un mago cattivo, ma poi si lega indissolubilmente a lui. Paolino è anche un bambino saggio, si tormenta, certamente, ma poi finisce con l’accettare di essere diverso dagli altri e proprio confrontandosi con gli altri “diversi” riesce a trovare se stesso.

Il vero elemento dirompente di Pelleossa è la lingua da cui in principio il lettore prende le distanze perché deve abituarcisi, ma a cui indubbiamente si affeziona, arrivando a considerarla l’unica possibile per il romanzo. Un insieme bilanciato e sfumato tra italiano e siciliano, quasi una neonata terza lingua che da entrambe attinge. Chiaramente è stata ed è ancora una scommessa, anche se nelle intenzioni non la vedo diversa da quella di Nina sull’argine, in quel caso era una lingua molto tecnica ma ugualmente lavorata affinché si trascinasse con il suono. Mi sono spesso chiesta perché l’abbia fatto. Ho iniziato a scrivere di Filippu e ho iniziato a farlo in questa lingua “storta”, orecchiabile, che deriva anche dal fatto che io il siciliano lo capisca ma non lo parli. Mi accade con molte lingue, le capisco perché seguo il loro suono. Anche con questa, mi sono lasciata trascinare dal ritmo, con essa hanno cominciato a prendere forma gli eventi e a muoversi, quasi rotolando per seguire il suo flusso. Ecco, dunque, la mia base, poi ripetutamente lavorata: quando volevo fosse più lirica la avvicinavo all’italiano, mentre quando volevo che esprimesse sofferenza la rinchiudevo in un dialetto molto stretto. Filippu, addirittura, in momento di delirio mescola il siciliano con l’inglese, il che non è strano, ma piuttosto frequente per chi affronta un percorso come il suo. Ho usato la lingua come fosse un elemento di trama, che descrivesse gli stati d’animo e il sentire dei personaggi. Mi sono ispirata, e non voglio paragonarmici minimamente, al processo di scrittura di Terra matta, straordinariamente creato da un illetterato con la quinta elementare che dà forma a  tutto ciò che sente in maniera sgrammaticata, ma con una potenza disarmante.

Insomma, è una lingua del sentimento… Sì, con questo romanzo ho deciso di non aver paura di essere melò. I rischi ci sono, ma me li assumo tutti. Volevo essere sentimentale e il solo modo che avevo di esserlo era credere in questa lingua e lasciare che fosse la guida del mio racconto. Dopo un libro necessariamente e volutamente “freddo” come Nina sull’argine, In cui non potevo in alcun modo permettermi di cadere nel cliché della femminista e nemmeno in quello della donna che non può stare senza amore, ho rischiato, e qualunque sia la percezione che ne ha il lettore, per me è stato l’approccio giusto. Mentre scrivevo vivevo insieme ai miei personaggi i loro drammi e le loro sofferenze e ancora oggi che Pelleossa vive da solo, ormai in libreria, sento di aver fatto la cosa migliore.

Non è scontato essere sereni e soddisfatti all’uscita di un proprio libro. Lo sono, anche grazie alla casa editrice che si è fidata e che non mi ha chiesto di replicare Nina sull’argine, a seguito del buon successo ottenuto. Il libro esiste, e anche se non resterà a lungo tra le nuove uscite, avrà una sua vita, magari nelle biblioteche o con il passaparola. Per me significa molto e sono felice di aver avuto tutto il sostegno e l’aiuto possibile da parte di chi ha creduto nel mio progetto.  Mi sono sentita libera, tanto da scrivere, come se fosse un gioco, attingendo da tutta la grande letteratura siciliana e dichiarandolo in conclusione, specificando chi viene da chi e da dove.  Una specie di mio personalissimo atto postmoderno.



Immagine di copertina: copertina del romanzo Pelleossa, minumum fax