Search
Close this search box.

Salvare la fine. Gusci di Livia Franchini

I gusci sono scarti. Li buttiamo, perlopiù; i più etici ne fanno concime, altri li usano per far crescere sementi e certe donne della tradizione li sciolgono per farne un liquore all’uovo. Si cerca sempre di prendere il meglio, di non lasciar sprecata neppure una goccia, che siano relazioni o rifiuti. L’animo umano è così: caritatevole. Soprattutto verso ciò che è irrecuperabile.
Monet, un giorno del 1883, si trasferì poco distante da Parigi. Fece quello che aveva sempre desiderato fare: riempire uno stagno e i suoi dintorni di fiori e ninfee. Da quel momento le ninfee furono l’elemento principe dei suoi dipinti, trascorse il resto della vita a colorare fiori sull’acqua, a riempire di macchie fluide le tele che accumulava. Può esserci maggiore spreco che dedicare un’intera esistenza a dipingere ninfee? No, non c’è. Ma basta rovesciare il punto di vista e la risposta cambia: Monet cercava di dipingere il niente, il momento che divide ciò che esiste da quello che non è più. La vita che sfugge. E c’è riuscito.

Gusci

Livia Franchini chiama Gusci il suo libro (Mondadori), ed è esattamente quello: il contenitore di una storia  d’amore ormai consumata che si sgretola come intonaco, composta da due persone comuni.
Il romanzo inizia e finisce con una lista della spesa, una costellazione ordinata di cose da fare, il nero su bianco delle mancanze domestiche. È forse, un tentativo di ordinare anche ciò che nella vita non si può mettere a elenco, l’imprevisto del cambiamento, l’orrore delle scelte non calcolate.
Ruth e Neil s’inseguono, si perdono, non sanno più riconoscere nemmeno se stessi e proprio per questo si aggrappano agli altri. Lui, lei, una rottura, il passato, l’opacità del desiderio, la distanza abissale con le vecchie amiche mai state amiche, la solitudine di ritrovarsi donna single in un mondo che quasi non conosce; l’elaborazione della perdita, forse una guarigione che sa di rinascita obbligata. Un rapporto come tanti, una storia tra le tante. L’intenzione che Franchini ha, però, è porre l’attenzione su ciò che rimane, su quello che si può salvare di una relazione finita. Quello che si può salvare di sé.

Sono coriandoli i pezzi di passato e presente incerto dei protagonisti che si mescolano nell’aria. Solo che non fanno in tempo ad arrivare per terra, vengono dispersi dal vento, e non c’è nemmeno più la memoria dei momenti felici. Lo sono mai stati davvero?
Risulta un romanzo composto da slanci di inizi mai portati a termine, da volontà strozzate e da ricordi di un passato nebbioso, quasi alieno, distante dal presente sgretolato. Gli stessi personaggi tentano disperati di rendere armonioso e ordinato quel che proprio non si può disciplinare: il tumulto della vita.
I gusci della Franchini sono qualcosa che conteneva, che ora non serve più. Ruth sogna bambine e situazioni che mai nasceranno; sono i desideri abortiti di una donna lasciata. Si parla di circostanze sognate, di disagi sottopelle, di un senso di inadeguatezza e pelle morta che non se ne va. Scrive di tutta la violenza accumulata negli anni e nascosta sotto il tappeto all’interno di una coppia come tante; racconta di quei moti purulenti che, pur negati, hanno bisogno di uno sfogo, un defluire denso.
Ruth affronta la separazione dal compagno come se fosse un lutto. I tempi della sua elaborazione sono cinque, proprio come le fasi del superamento del dolore: è il tentativo disperato e tenerissimo di applicare schemi già pronti a dolori slabbrati. Vuole contenere il male, renderlo banale, riconoscibile, aggiustabile.

L’autrice va avanti e indietro nel tempo in maniera intermittente, tessere di un puzzle da ricostruire durante la lettura. Troviamo parti scritte via web tanti anni prima, oppure messaggi inviati tramite cellulare, tutte comunicazioni sorde tra i personaggi. Sono altri modi di intendere i rapporti, delineano un senso di solitudine esteso, un parlare a uno schermo, a se stessi, un urlare muti la propria inadeguatezza.
Ruth, a un punto della storia, si trova costretta a organizzare un addio al nubilato. Le altre invitate esultano, stridono eccitate, lei s’inerpica tra doveri e finzioni. C’è il vestirsi e truccarsi e fingersi qualcun’altra. Ma per chi? Perché si accontenta recitando, fingendo? È come se la protagonista volesse tradirsi per rimanere fedele all’immagine che le altre hanno di lei, una resa incondizionata. Ma è solo una fase. Si deve toccare l’abisso per risalire.
Oppure troviamo Neil, l’ex compagno ed ex anima gemella, che si strugge e scrive lettere patetiche a una cameriera frivola di un fast-food, in un chiasmo di linguaggio a dir poco spiazzante. Lo stereotipo dell’uomo in crisi sentimentale è tirato al massimo, provoca quasi la nausea: a vederci da fuori, a leggerci nero su bianco siamo come pesci in un acquario, a muoverci per sopravvivere, inconsapevoli della direzione da prendere. Loro come noi.
Gli esseri umani in Gusci non hanno lati nascosti, non hanno velleità di rivalsa, sono la pelle esposta di una ferita. Esistono, subiscono, rimangono sulla superficie. Galleggiano, proprio come le ninfee di Monet.

categorie
menu