Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria Ortese è un saggio a più voci che canta l’opera di una delle autrici più visionarie del Novecento italiano: Anna Maria Ortese. Il volume, edito da Iacobelli, è curato da Ivana Margarese e porta la bella firma di Monica Farnetti in prefazione.
Già curatrice di opere collettive, Ivana Margarese1 con questo testo dedicato ad Ortese fa incontrare la parola critica di studiose e appassionate che hanno letto l’opera di Ortese secondo la prospettiva dell’omaggio nei confronti di una scrittrice amatissima. Con il suo realismo visionario, Ortese ha suggerito infatti una trasformazione epistemologica secondo cui soggetti umani e non umani entrano in contatto, ora per una rinnovata concezione relazionale del mondo, ora per un desiderio di condivisione intraspecifica. Tutto ciò grazie al desiderio e al piacere dell’irrequietezza, per cui ci si aggrappa per incantamento alla meraviglia del vivente – come un Dante giovinetto alla scialuppa di salvataggio di un vascello celeste
«[… ]presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio»
Il testo raccoglie dodici contributi critici, quelli di Monica Acito, Lea Barletti, Lilia Bellucci, Annachiara Biancardino, Rossella Caleca, Gianna Cannì, Lavinia Mannelli, Ivana Margarese, Gisella Modica, Giusi Murabito, Nina Nocera e di Rebecca Rovoletto.

Il titolo di questa raccolta di saggi che hai curato – Il tempo è un altro – allude a due dei nodi della poetica ortesiana: il tempo e l’alterità. Il nodo del tempo che si carica di un passato che ritorna e dimora nel presente e quello dell’alterità, che può essere letta come alterità umana, ma anche divina e animale. Vuoi parlarcene?
«Scrivere, – se non è pura vanità o lusso – è proprio cercare un altro mondo. Cercarlo disperatamente» dice Ortese in un’intervista a Dario Bellezza per Paese Sera del 31 gennaio 1983. E ancora nel dialogo con Dacia Maraini afferma: «Forse le cose amate sono soltanto invisibili; non perse». Le due dichiarazioni condensano, come giustamente dici, alcuni elementi fondamentali della poetica di Ortese: l’altrove, il tempo, l’alterità e la scrittura come ricerca di ciò che manca, come raccolta di tutte le voci e i silenzi di un evento che ci ha lasciati.
Il sentimento di perdita spinge Ortese a detestare la cosiddetta realtà: «il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte» e a cercare un altrove: «la vita non è mai nelle nostre stanze, ma altrove. Così, chi cercasse il Cucciolo, scruti, la notte, nel silenzio del mondo; non lo chiami, se non sottovoce, ma sempre abbia cura di rinnovare l’acqua della sua ciotola triste. Non visto, verrà» (Alonso e i visionari).
Anna Maria Ortese è alla ricerca di altri modi di stare al mondo e di stare col mondo. La capacità della sua scrittura di spostare e ampliare il punto di vista e offrire un’esperienza di diffrazione, di sguardi da altre prospettive, si inserisce in un modello di soggettività relazionale, attenta alla vulnerabilità del vivente umano e non umano. Ortese racconta figure permeabili ed esposte che non si rappresentano dominatrici o sovrane ma si aprono all’attesa dell’imprevisto. Il richiamo al respiro comune – la scala del respiro è collettiva – e l’attenzione alla vulnerabilità indicano un nuovo paradigma etico e politico davanti a un mondo che privilegia «il dominio su altri esseri e l’indifferenza davanti al dolore».

La prefazione di Monica Farnetti evoca le galassie, quelle rappresentate dalle plurime autrici «stelle agglomerate» che si sono spese nell’elaborazione di questo volume. Ma evoca anche la galatticità della stessa Ortese che si dichiarava «cittadina della Via Lattea». Quale è il legame tra la scrittura di Anna Maria Ortese e i corpi celesti?
Nel libro, che raccoglie saggi, due racconti e un testo teatrale e rende così omaggio sia alla pluralità sia alle figure ibride raccontate da Ortese, ci siamo lasciate condurre dalla ricorrenza negli scritti della nostra autrice del termine “celeste”. Il richiamo al cielo non è immaginaria fuga dalla terra ma invito a osservare, testimoniare e ascoltare con attenzione, poeticamente, ciò che rende celesti i luoghi che abitiamo.
Anna Maria Ortese è stata precorritrice acuta dei tempi che stiamo vivendo, ben prima che le scritture “ecologiche” o “animaliste” pretendessero attenzione. In lei sono numerosi i riferimenti al mondo come corpo celeste e al fatto che tutte le cose nel mondo sono di materia celeste: il loro senso e loro natura non sono etichettabili, ma restano piuttosto insondabili. Ricorrente è il richiamo alla meraviglia e allo stupore capace di sottrarsi al mondo dell’ovvio, del luogo comune, al bisogno di etichettare e dividere.
Nella tua introduzione citi la lettera che Ortese scrisse a Franz Haas, del 1996, in cui la scrittrice parlava della fanciullezza come età in cui si capisce «ciò che l’adulto non capisce più». Non ho potuto non pensare all’Arturo morantiano. In realtà anche l’isola come luogo da cui partire e dove approdare mi ha fatto pensare a un legame tra le due scrittrici – Procida per Arturo e la sperduta Ocana per Aleardo di L’Iguana. Cosa ne pensi?
La tua domanda mi riporta al bel saggio di Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil (Quodlibet), in cui l’autrice parla dei nessi che conducono dall’una all’altra e del legame nascosto che connette ciascuna delle due a Simone Weil e alla sua filosofia dell’attenzione. Ortese stimava moltissimo Morante come persona e come scrittrice e in una lettera del 1975, indirizzata alla stessa Morante, scrive di essere andata avanti tutta la notte nella lettura di La Storia e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno e di essere rimasta «sbalordita». C’è inoltre in entrambe, oltre che una intensa visionarietà, una premura verso chi soffre, verso gli umili e gli indifesi, siano umani o animali e questo Ortese lo sente e lo sottolinea.
In una seconda lettera del 1983, scritta da Rapallo, Anna Maria Ortese si complimenta nuovamente con Elsa Morante per la scrittura di Aracoeli, definendo la breve vita di Carina una delle pagine più alte della letteratura italiana di ogni tempo e conclude con parole fortemente evocative e a mio parere significative per entrambe: «il mondo non è che un grande prodigio. Non vedere che sia prodigio, non muta la sua natura di fiaba».
Nel tuo saggio a volume, intitolato La Chimera, tessi una relazione di comunanza e affinità tra Ortese e Cristina Campo. Puoi articolare per noi i termini di questo legame?
I contributi raccolti nel libro muovono, come dicevo, dal percorso personale e professionale di ciascuna di noi. Abbiamo voluto dialogare con i testi di Ortese partendo dalla nostra esperienza personale, dal nostro posizionamento.
Nel mio saggio ho scelto di mettere a confronto due incontri letterari preziosi per la mia formazione e per la mia scrittura e di farli interloquire con un terzo elemento, il film La chimera di Alice Rohrwacher – che peraltro proprio dalla lettura di Corpo celeste aveva tratto ispirazione per il suo primo film. Per anni infatti, dopo la laurea, ho studiato cultura visuale e cinema documentario, occupandomi soprattutto di montaggio. In entrambe le scrittrici, così come nell’opera cinematografica di Rohrwacher, abita un desiderio di altrove. Altrove che per Ortese – e Rohrwacher – ha comunque sede in questo corpo celeste che è la Terra, abitata da creature capaci di esprimere «l’animo puro e profondo dell’Universo», per Campo trova espressione in una ricerca ostinata e inesauribile di perfezione. Campo e Ortese fanno esperienza di una nostalgia, di un rimpianto verso qualcosa di perduto e al contempo sono animate dal desiderio di farlo risorgere. La loro ricerca passa per il sentimento profondo dell’attenzione, ereditato da Simone Weil, che si esprime anche nel lavoro sul linguaggio e sull’espressione. Campo e Ortese, ciascuna a modo proprio, decostruiscono codici prestabiliti e fanno esperienza di dislocamento mettendo in discussione ciò che viene dato per scontato o autoevidente. Entrambe, nella loro scrittura, sfidano, con determinazione, le rappresentazioni e i confini codificati e questa oscillazione conduce verso un territorio di interstizi e incroci inattesi.

La postura del pensiero di Ortese può essere letta anche attraverso il prisma ecofemminista. Ha senso per Ortese parlare di «epistemologie della vita»?
Definendosi come «scrittore-donna, una bestia che parla» Ortese invita a ripensare ogni aspetto dell’umano non secondo la fissità delle definizioni, ma ricorrendo a una identità frammentata e dialogica. Uno scrittore “reale”, per lei, si differenzia da uno “fabbricato” perché in lui la verità del vivere precede la convenienza del vivere. Essere uno scrittore reale è cercare un’identità, propria e collettiva, che non crede nelle fazioni, nelle classi, nelle barriere, ma percepisce il dolore e l’iniquità e non può sottrarsi al dovere di parlarne: «Non si può salvare se stessi – scrive in Corpo celeste – senza prima portare a salvezza gli altri». La sua ricerca dell’espressivo tiene conto di questa esperienza composita, non lineare, che abbiamo col mondo e implica un cambiamento di paradigma in cui il mondo ci attraversa e ci trasforma. Non si tratta soltanto di un passaggio epistemologico, ma di una trasformazione nella forma di vita, che risulta in sintonia con una concezione relazionale del mondo. La via dell’espressivo dà vita quindi a una nuova pratica di pensiero, affine, come sottolinei, al pensiero di autrici come Vandana Shiva, o Donna Haraway col suo Manifesto delle specie compagne, e di molta filosofia e critica letteraria contemporanea in cui si delinea l’immagine di un universo misterioso e unitario a cui tutti siamo chiamati a collaborare. Vorrei aggiungere che il pensiero di Ortese contiene affinità con la filosofia di Maria Zambrano, che evidenzia l’importanza di una conoscenza fondata sull’amore e non sulla distanza. Riconoscere qualcosa per Zambrano significa dargli credito, innamorarsene. Ne I beati la filosofa spagnola scrive a lungo sulla conoscenza poetica, nella quale immaginazione e senso intimo trovano alimento e collaborazione, e sull’ambizione al comando come peccato capitale dell’uomo: «Tutto si tinge di dominio, di commerciale imposizione. E là dove arriviamo la danza cessa, il canto ammutolisce, la brigata si disperde».
Nel suo saggio, Rossella Caleca, partendo dal perturbante come denominatore comune, traccia un legame tra le persone con disabilità mentale e le «piccole persone» di Ortese. Come leggi in tal senso l’aggettivo “piccolo”?
Nel suo saggio Rossella Caleca, che è sociologa e lavora al Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria di Palermo si interroga, attraverso la lettura di Ortese, sulla complessità della condizione delle persone con disabilità mentale (intellettiva, psichica, relazionale), facendo riferimento anche allo spazio della marginalità e a quello corporeo dell’abiezione. Caleca pone in particolare una questione relativa allo sguardo e attraverso Ortese si rivolge agli “invisibili” che abitano la Terra e che come «le piccole persone» restano “invisibili” per chi considera l’esistente solo in termini di “utile”.
Le persone con disabilità psichica, spiega, non sono “viste” nella loro illuminante diversità e sono spesso considerate solo in quanto “riducibili” a una forzata normalizzazione in percorsi decisi da altri. Eppure è innegabile che l’uomo chieda di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito. Venendo alla tua domanda a proposito dell’aggettivo piccolo faccio semplicemente riferimento a Piccolo e segreto, uno dei brevi saggi contenuto nella raccolta Le Piccole Persone, in cui lei scrive: «il segreto è tutto ciò che essendo piccolo, non è consapevole di essere ma ne sente la pena e la gioia».
In copertina, un’opera di Elisa Anfuso, Cyclocosmia VI
- Ivana Margarese, fondatrice e direttrice editoriale della rivista Morel, voci dall’isola, fa parte dell’attuale direttivo della Società italiana delle letterate (SIL). Collabora con le riviste Leggendaria, Letterate Magazine e Dialoghi mediterranei e ha pubblicato racconti in diverse antologie. È stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo e ha curato Ti racconto una cosa di me (Edizioni di passaggio, 2012), I miti allo specchio (Mimesis ,2022) e Tra amiche (Les Flâneurs, 2023). Da quest’anno è curatrice della rassegna letteraria “Transiti”, che si svolgerà nel mese di luglio a Filicudi. ↩︎