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La storia di un’Italia minore tra colline e coloni. Un giorno verrà di Giulia Caminito



«Ci si abitua a tutto, dicevano i suoi compagni, anche ai morti e al sangue, al pisciarsi addosso e ai cavalli a cui una bomba ha staccato la testa e che per un tratto corrono ancora, ma Nicola a tutto non riusciva ad abituarsi, però faceva qualcosa di inatteso: si difendeva.»

Serra de’ Conti, colline marchigiane, il secolo dell’Italia unita saluta quello delle grandi guerre, la nebbia del fronte cuce silenzi, il sacrificio di molti resiste alla prevaricazione di pochi, vinto e vincitore battono le mani allo stesso muro, quello della Storia, un’altezza invalicabile per entrambi.
Giulia Caminito traccia una vicenda a tratti autobiografica nel suo romanzo Un giorno verrà, riedito da Bompiani a gennaio 2023. Il suo bisnonno, Nicola Ugolini, fu un anarchico anticlericale marchigiano, partito per la Germania dopo aver perso la donna amata a causa della Spagnola e dopo aver rincorso un’idea di giustizia sociale tra colli e campi della sua terra, Serra de’ Conti, proprio lì.

Un giorno verrà

Anarchico è un nonno anche nelle pagine di questa storia, Giuseppe, capostipite della famiglia Cerasa, il cui figlio, Luigi, ha una bottega da fornaio, la farina nel respiro e tanti crucci nella testa per quei figli piegati dalla malasorte a una vita accidentata o alla morte. Dei pochi superstiti oltre la nascita, Adelaide chiude presto gli occhi nel silenzio di chi le dorme accanto e nell’assenza di una preghiera che la raccomandi a una luce promessa. Antonio, il figlio predestinato a impastare pane e futuro per tutta la famiglia, viene ferito a morte per la mela colta da un ramo non suo. Rimangono i più piccoli, i disobbedienti: Lupo, in piedi a sfidare la luna di qualsiasi notte, e Nicola, «il ragazzo di mollica», che del pane assume solo la mollezza o l’elasticità di reagire inaspettatamente agli ostacoli. Rimane Violante, la madre di tutti, o forse no, cieca per disgrazia o per sopravvivenza, con la vista serrata come le labbra, a non dirsi tutto quanto il cuore sa.

La trama sembra procedere per opposizione binaria tra un’immagine capovolta in un’altra, in un intreccio di sequenze narrative che trascina il lettore al centro degli eventi e in una prosa che sa denominare un mondo asimmetrico, instabile, stordito. Del resto, Caminito ha sempre saputo farci affezionare ai personaggi dei suoi romanzi attraverso la carica evocativa di un linguaggio che rivela l’insondabile essenza delle cose

Contrapposti sono i due capofamiglia, Giuseppe e Luigi. Il primo, anarchico, mai al posto assegnato, sempre con una parola ribelle sulle labbra a dire contro il rincaro dei prezzi, l’esproprio del grano, contro il Papa e contro il Re, contro la fatica nel sudore di molti tra la mezzadria e il beneficio dei padroni. Nato tra i fornai, non ha mai accettato di rinchiudersi tra spiccioli e grani, mentre intorno si sollevavano bicchieri al regnante di turno. Di suo ha poche cose certe, un fiocco nero al collo, una ferita d’amore alla gamba, un bastone dai passi alterni, la galera e gli ordigni per la libertà di tutti. Ha Nella e Lupo, i nipoti di sangue e sovversione, ancora da salvare o gli unici già salvi da Luigi e dalle sue menzogne di quasi padre.
Luigi, l’altro capofamiglia, conta su mani larghe, adatte all’impasto ma non alla carezza; conta su scarse parole e dette pure male; conta su un figlio non suo messo tra le braccia della moglie inconsapevole, a rimpiazzare una bimba soffocata dal parto. Luigi, è l’altro capo ma, in fondo, senza famiglia. Nessuno dei figli superstiti lo apprezza. Lui, che ha recluso Nella nel convento in cima al paese, per nascondere con lei il pancione, l’errore di una sera, l’amore di madre e di vita. Lui, che rende Nicola figlio della menzogna e ne attribuisce la debolezza alla cattiveria del più grande Lupo. Lui, che risponde un sì imponderato al Re perché proprio Nicola, impasto di acqua e sale, si faccia ennesimo cristo tra le spine delle trincea. Lui, che non ha alcuna identità se non la sua vigliaccheria. 

Doppio è Cristo, quello nella chiesa del paese e quello nel convento delle suore. L’uno, dagli occhi appannati, a velare le preghiere senza luce di don Agostino e il suo peccato di una notte; l’altro, celebrato nella musica di Suor Clara, la «moretta» liberata dalla schiavitù del Sudan da bambina, che tra grate della clausura e note dell’organo sa rassicurare gli offesi di Serra. Storia vera, quella di Zeinab Alif, poi suor Maria Giuseppina Benvenuti, storia che appartiene a Serra almeno quanto quella degli anarchici dello scorso secolo e che racconta di una battaglia parallela a quella nei campi, sebbene tra le mura del convento. Una battaglia con meno clamore, quella delle Clarisse, ma garantita dalla vittoria sull’ordine di chiusura prescritto dal vescovo.

Opposti sono i profili dei due figli Cerasa, Lupo e Nicola. Lupo, il cui nome è voluto dal nonno, la cui nascita è avvenuta in un giorno muto, le cui notti sono per metà di Nicola, testa a testa sullo stesso cuscino, occhi chiusi nello stesso momento a immaginare il giorno che verrà.
Lupo strappa Nicola alle braccia di don Agostino, a cui il padre voleva affidare quel figlio «malato» per disfarsene; Lupo si affatica nei campi di lavoro, alla bottega del forno, perché Nicola possa imparare a tracciare una A su un foglio e a decifrare la vita attraverso le lettere; Lupo si fa sparare un proiettile nella gamba pur di rimanere accanto a Nicola, mentre il fronte chiama; Lupo sfilaccia l’ordito di ogni piano familiare e sociale, si associa agli anarchici e si batte in favore di chi non può permettersi neanche una croce con il proprio nome. Lupo sogna la rivoluzione sotto altri cieli mentre quello di Serra, delle sue colline, dell’Italia tutta si infiamma per i crimini contro il Re, mai quelli a firma del Re.
Suo inverso è Nicola, quello che segue i disegni delle stelle sopra le terre del sacrificio, quello dalla pelle sottile sopra ossa gracili, quello dai pensieri imprendibili mentre le guance trascolorano dalla paura. 

Un giorno verrà

Eppure, Nicola è il solo personaggio della vicenda a sovvertire previsioni e scommesse. Al fronte, lo costringe il malanimo di Luigi e lì sul Piave il ragazzo assorbe tra le scapole umidità, terrore, coraggio. Mentre tutti lo danno per morto, Lupo per primo, Nicola infila una dietro l’altra le parole della guerra «Sto bene, ce la faccio». Per lui, per Lupo, per le sue colline, per la Patria di altri e mai dei coloni. Una granata, il colpo, l’abbaglio, tutti giù per terra, «stobenecelafaccio», il fumo, Nicola, la mollica che impara ad essere crosta nei singhiozzi del Piave, che impara a essere Lupo. 

Un giorno verrà è un romanzo che evoca il neorealismo per scenari e denuncia sociale. Sa mostrarci quanto il tempo abbia risposto solo con incerte smentite alla prevaricazione, quanto monologico sia tuttora il discorso del potere, soprattutto quanto la norma economica dimentichi ancora l’affanno di certe sopravvivenze. È un romanzo attualissimo per la sua forza critica e conoscitiva e perché ci insegna la difesa in attesa di un giorno tutto al futuro.




Photo Credits
Copertina – Colline marchigiane. Foto di 
Håkon Grimstad su Unsplash

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