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La sperimentazione come attivismo. Il detective sonnambulo

Da Parigi a Berlino ma passando per Davos e il deserto di Atacama, l’ultimo romanzo di Vanni Santoni è un’odisseica avventura ipercontemporanea

Ritorna alla carica Vanni Santoni con un romanzo di grande ambizione. Come nel meglio della prosa bolañiana a cui anche il titolo fa omaggio, Il detective sonnambulo (Mondadori, 2025) è un romanzo elusivo: ogni volta che crediamo di aver catturato la sua essenza, ecco che ci sfugge, che vengono rimescolate le carte. Ciò che propaga la narrazione è l’energia irrefrenabile della prosa, e una ricerca epistemologica nella giungla di segni del panorama tardo capitalistico. Criptovalute, tech bros, esperienze psichedeliche si intrecciano a una riflessione sulle ansie che caratterizzano la realtà contemporanea, dove l’idealismo sembra essere marcito in un cassetto; e mentre un tempo «pure il più pulcioso degli studentelli con la chitarra a tracolla voleva cambiare il mondo, adesso neanche chi ha un portafoglio di miliardi osa covare un tale sogno». E allora come fare – come trovare uno spazio dove farsi le domande che contano, e agirci sopra?

Ma andiamo con ordine, ripercorriamo il romanzo dalle prime pagine, in cui il fuorisede Martino incontra a Parigi l’affascinante Johanna, una ragazza «in cui s’indovinava un miscuglio di passioni contraddittorie, impazienza e indolenza assieme, una sensualità feroce e una specie di sprezzo per il mondo». Johanna porta Martino in un bar-covo dove convivono alta e bassa società come in una raccolta fotografica di Brassaï. Qui il tempo si è fermato, le giornate fuggono a perditempo, e Martino vive un sogno in cui la sua dolce metà dà un senso alle sue giornate. Finché, un giorno, Johanna scompare.

Ecco un Martino devastato che si butta sulle sue tracce. E fin qui tutto bene, il romanzo segue nelle orme della classica “detective fiction” – ma non dobbiamo farci fregare, perché Martino non è un detective qualunque, e ciò che cerca è ogni giorno meno chiaro. Vagare per Parigi a caccia di indizi diventa per Martino una ricerca di senso più profonda, dove trovare Johanna significa trovare l’essenza di Parigi – qui Johanna ricorda Lila come “spirito di Napoli” nell’ultimo libro della trilogia Ferrantiana – e l’essenza di Parigi rappresenta il significato dell’esistenza dello stesso Martino. Quindi lui si abbarbica ai dettagli, ai luoghi in cui lui e Johanna avevano speso tempo insieme, dove il passato pare coagularsi; o a un manifesto trovato per strada in cui è quasi sicuro sia rappresentata Johanna – lo capisce dall’esatto colore dei capelli «Pantone 1807 che andava in 1805». Più indizi scopre, più l’immagine che aveva di lei pare sfilacciarsi – è mai davvero esistita? Si chiama veramente Johanna, o Joëlle Vandynes o Jeanne Ottolenghi – come la conoscono alcuni dei personaggi che incontra sulle sue tracce?

Già qua siamo in acque torbide, di un realismo fantasmagorico, ma ecco che di nuovo Santoni ci sfila il tappeto da sotto i piedi. Martino incontra l’attivista grunge Tanya e sulle tracce di Johanna i due finiscono a Davos, dove sperano di incontrarla insieme a un enigmatico personaggio con cui pare accompagnarsi: Manfredi Contini della Torre. E qui pare di essere trasportati nello spazio velocizzato cybercapitalistico di un Underworld di De Lillo – veniamo catapultati nel deserto dell’Atacama, in Cile, dove Johanna e Manfredi appaiono in uno sbuffo di polvere à la Breaking Bad. Qui la contaminazione stilistica riflette quella dei segni, in una fusione tra bassa e alta cultura nella quale cripto milionari giocano con le carte Magic e una discarica di fast fashion nel deserto ricopre geroglifici di età pre-Colombiana. E poi c’è il linguaggio, che unisce flusso di coscienza, parole francesi, terminologie specifiche al mondo delle cripto e dialoghi sempre affilati. Il tutto a rendere lo stato di precarietà esistenziale del protagonista, in cui in ogni momento la realtà pare sfociare in qualcos’altro, come leggiamo mentre torna in aereo dal Cile:

«Adesso sentivo la quiete sospesa, artificiale, di quel corridoio notturno in volo sopra l’oceano; vedevo dipanarsi in labirinti di vaga luce artificiale […] i percorsi delle vite di Tanya, Johanna, Manfredi, e con essi quello, risibile, della mia, che ora mi pareva rassomigliare, più che a una nuvola, a un pezzo di carta perduto da chissà che velivolo, che il vento faceva vorticare».

L’àncora di questo romanzo è l’aspetto politico. Manfredi infatti, si scopre, è un giovane criptobilionario, e insieme a Johanna trasporta Martino e Tanya a Berlino, dove vuole costruire un quartier generale che unisca tecnologia, attivismo e cultura, con il compito non indifferente di salvare il mondo. Questo impulso nasce da una sofferenza di fondo, un senso di impotenza che accomuna tutti i personaggi del romanzo – l’incapacità di credere in qualcosa, di perseguire un ideale. Come si lamenta Johanna nelle prime pagine del libro: «Dove sono finite le grandi donne e i grandi uomini? Chi può dire di avere un impatto sul mondo?» E allora forse, in un contesto dove anche Parigi sta diventando un’altra Londra in cui gli artisti sono priced out, bisogna dare più spazio alla culturaE qui l’innovazione del romanzo è che non si limita a indagare le grassroots, ma entra nel vivo del mondo dei “tech bros”. Manfredi infatti si lamenta che anche nel mondo degli ultraricchi non c’è volontà di agire politicamente – o forse neanche la capacità. Nello snowball effect infinito che è il capitalismo, i soldi per fare davvero la differenza non sono mai abbastanza. Si sfocia dunque in un senso contraddittorio di potenza e impotenza, che è poi un riflesso della società contemporanea tout-court, a cominciare dal progresso tecnologico: Manfredi racconta di pianeti lontanissimi dove comunque «non c’è vita. Niente civiltà, niente animali, niente piante, nessun altro». L’ironia del cosiddetto “avanzamento tecnologico” è rendersi conto della distanza incolmabile tra noi stessi e una realtà più profonda, e il risultato è la noia, la disillusione.

Proviamo allora a uscire dalla gabbia della percezione non in fuori, ma verso dentro: seguiamo Manfredi in vasche amniotiche che portano a esperienze psichedeliche quasi “aliene”, o in un festival fuori Berlino dove l’irrealtà finalmente può sbizzarrirsi quasi come un sollievo, un dare corpo al senso di dislocazione dei nostri giorni.

Ma se nell’ironia di Santoni permane un senso di angoscia e solitudine, il balzo positivo sono i rapporti tra i personaggi. Sono Martino, Tanya, Manfredi, e Johanna, e ognuno porta le proprie sensibilità al progetto comune che è lo Schloss, il sopra-menzionato quartier generale. Per quanto anche loro sfuggano a una rappresentazione univoca – specie Johanna e Manfredi, che sono mini-cubi di Rubik che mutano a seconda della circostanza – è possibile scorgere dei tratti individuali nei personaggi che rivelano poi le sinergie tra di loro. Johanna è la pazza, evanescente, artistica, viziata e flebile, con guizzi geniali, che come Martino crede nella cultura. Martino è, come dice il titolo, un sonnambulo – sembra sempre che le cose gli capitino per caso, anche se forse, come riflette tardi nel romanzo, forse il suo compito è duplice: capire cosa sta succedendo nel mondo, e tenere le cose insieme. Considerato che Martino è un aspirante sceneggiatore, allora forse questo è il compito che Santoni ascrive anche a se stesso, come artista – esprimere il presente, e evitare che si sfilacci. Compito che si accompagna a quello di Tanya, l’attivista francese che crede ancora nei fantomatici princìpi, nel cambiare le cose attraverso le piccole azioni del singolo. Tanya rappresenta anche la fiducia nel futuro, come esemplificato dal figlio “Corradino” che fa con Manfredi (un cenno al Pavese di La casa in collina?). Senza Tanya non c’è gravitas, non c’è una base su cui costruire, e le sue battute acide riportano gli altri tre coi piedi per terra. 

E per chiudere c’è il genio maledetto in persona, il “Lucifero risentito” Manfredi – un riccone che naviga la cresta dell’onda anche se non è mai chiaro se il suo successo è frutto della sua mente geniale, o totalmente casuale. Manfredi è il viziatone che ama il giocattolo nuovo e subito si annoia, affascinante quanto Johanna ma più manipolatore, con manie di controllo, deliri di onnipotenza, e un’ossessione ipermoderna per la propria immagine – per come ciò che fa e come si presenta, appare. Ma ciò che redime anche lui è che, almeno per la maggior parte del libro, si rende conto di dover unire le forze con gli altri. Rimane comunque un personaggio tormentato, specchio vuoto della sua epoca, e verso la fine del romanzo diventa un King Lear disilluso e pazzo, si abbandona al mondo interiore degli psichedelici data la frustrazione di non riuscire a cambiare o anche capire quello esteriore. Si trasforma quindi in un «Cristo pieno di goccioline di liquido amniotico», un Dio fin troppo uomo, un ragazzino che a volte fa pena per come è stato travolto dagli eventi della Storia. Ma forse anche lui ha avuto una sua funzione – ora che ha dato l’impostazione, potrà passare lo scettro agli altri della combriccola e lo Schloss potrà espandersi in un piccolo baluardo di speranza.

Il detective sonnambulo è un romanzo sperimentale su più fronti, ancorato profondamente nel contemporaneo, che non ha paura di porsi domande a raffica e allo stesso tempo di provare a coagulare la tempesta di segni che ci sforna fuori ogni giorno il reale. Linguaggio multiforme, ricerca interiore, flusso di coscienza, intrecci di eventi e conoscenza approfondita di svariate sfaccettature della cultura, unito a una carica irrefrenabile, cercano di dare un senso agli intrecci del nostro mondo globalizzato, interrogandosi su come crearne uno migliore. Sotto i fuochi d’artificio stilistico, in questo romanzo, c’è un cuore di cemento armato, duro come un calcio con gli anfibi di Tanya.





Photo credits – In copertina deserto di Atacama, Chile. Foto di Juan Manuel Núñez Méndez su Unsplash

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