Search
Close this search box.

La nuova lingua del massacro. Il paese degli altri di Leila Slimani

Quando – tempo fa – cominciai a sfogliare Le pays des autres di Leila Slimani (Il paese degli altri, La nave di Teseo), per capire in che razza di avventura mi fossi imbarcata, pensai che fosse molto diverso. Diverso dalle cose di cui finisco abitualmente per occuparmi: niente sperimentalismi, niente funamboliche invenzioni lessicali, niente ossessioni sul ribaltamento della struttura canonica del romanzo. Avevo invece di fronte una bella, solida, “classica” saga familiare che scorreva via, avvincente e tumultuosa, lungo i fatidici dieci anni che, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, avrebbero portato il Marocco a voltare pagina e a chiudere la fase del Protettorato francese.

Contesto storico meno noto, dunque, del limitrofo caso algerino, e vicenda familiare all’insegna della mésalliance: Mathilde, giovane alsaziana di buona famiglia, si innamora e sposa Amin, bell’ufficiale marocchino di passaggio in Francia al seguito delle truppe alleate. Insieme si trasferiranno in Marocco per metter su casa e avviare una tenuta agricola nelle terre ereditate dallo sposo. Avranno figli e un’infinità di problemi, ma soprattutto innescheranno un formidabile meccanismo narrativo che trascinerà il lettore in una spirale di incomprensioni e di violenza dove, come sempre nella vera letteratura, tutti hanno torto e tutti hanno ragione.

Il paese degli altri
Leila Slimani, autrice de Il paese degli altri

L’incontro di Mathilde con quel paese esotico dal cielo così terso che «pareva lavato a secchiate» è venato di sottile bovarismo: legge Loti, che le sembra tanto poetico, e si descrive, nelle lettere alla famiglia, come un’eroina di Karen Blixen o di Pearl Buck: in groppa a un cavallo purosangue, con un cappello a larghe falde, laconicamente impegnata a fare il giro delle immense proprietà. Anche l’elenco di oggetti da wunderkammer che Mathilde scopre nelle sue passeggiate ha echi flaubertiani nello sguardo kitsch della nostra novella Emma:

[…] descrisse per quasi una pagina intera la bottega di uno stregone che vendeva crani di iena, corvi disseccati, zampe di porcospino e veleno di serpente. Pensò che avrebbe fatto molta impressione su Irène e su Georges, suo padre, i quali, nei loro letti al primo piano di una casa borghese, l’avrebbero invidiata per aver sacrificato la noia all’avventura, il comfort a una vita da romanzo.

La quale è costretta a una continua recita, pena lo scollamento del proprio essere:

Si rattristava per quelle inedite esperienze […] per quell’esistenza
priva di spettatori. A che serve vivere, pensava, se poi nessuno ti vede?

E sogna, uscendo da un cinema, di vivere una vita di celluloide:

Avrebbe voluto entrare nello schermo, vivere sentimenti che avessero
la stessa sostanza, lo stesso spessore. Avrebbe voluto che le venisse riconosciuta una dignità di personaggio.                                          

Ma la realtà è in agguato e non tarderà a manifestarsi, ad esempio quando Mathilde s’avventura, gonfia di gioia e di orgoglio, a regalare dei soldi a un bambinetto per poi ritrovarsi circondata da un nugolo di piccoli, famelici mendicanti. O quando assiste disgustata alla macellazione degli animali durante le festività religiose, quando alimenta l’irritazione del marito intenerendosi per dei gattini – spesso è sulla considerazione degli animali che si apre la faglia tra lui e lei – o quando capisce di non essere benaccetta in una serata “tra uomini”.
Il romanzo procede coerentemente secondo una struttura a incastro in cui ad ogni disillusione e sconfitta di Mathilde fa eco un’umiliazione patita da Amin nel suo rapporto con il mondo gestito dai compatrioti della moglie: i francesi che gli danno sistematicamente del tu, gli sguardi di disprezzo e sufficienza quando s’azzarda a entrare in un negozio per europei, il rifiuto della banca di finanziare i suoi progetti agricoli e così via.

L’attrito tra i due mondi è onnipresente, a volte esplicito a volte silente, su ogni aspetto della vita: il cibo, gli abiti, la vita sociale, il lavoro, l’educazione dei figli, la religione, il rapporto con le istituzioni, l’istruzione delle donne e un’infinità di altre cose che con i loro ostacoli imprimono un ritmo oscillatorio alle vicende della coppia mista e a quelle della miriade di personaggi che vi ruotano intorno:

Per colpa di sua moglie, di quelle dolorose contraddizioni,
la sua vita gli pareva soggetta all’isterico oscillare di un pendolo.

Questa vita “mista” è dilaniante, difficile e ingiusta, ma è anche profondamente erotica e possente sicché l’attrazione fisica tra i due sconfina spesso nella voracità e nella violenza, visto che «quel genere di amori produce sfrenatezza e infelicità», e «i sanguemisti annunciano la fine del mondo». Il desiderio erotico è sin da subito legato in Mathilde alla violenza, alla violenza della guerra, in primis, che lei sconfiggeva da bambina abbandonandosi a pratiche onanistiche durante i bombardamenti. Lui la desidera al punto da mangiarla, lei lo sequestra per due giorni in una stanza d’albergo dove non riesce a staccarsene neanche quando dorme, neanche quando mangia. Le scenate tra i due sono sempre irrorate da una quantità di liquidi, succo di pesca, lacrime, piscio e sangue, molto sangue, che scorre in rivoli dal naso rotto di lei, dalle gole dei montoni sgozzati, fino a cangiarsi nella salse troppo unte delle tajine. Non è un caso che Mathilde impari l’arabo in cucina, dove ha difficoltà a farsi accettare – lei è una donna istruita, «in grado di voltare le pagine di un romanzo», e non dovrebbe, secondo la suocera, avere a che fare con il cibo – o attraverso le parolacce che ascolta per la strada, nascosta dietro i muri. Mathilde impara dunque l’arabo dal basso e lo fa così bene da trasformarsi molto presto in una spettatrice pericolosa: capisce tutto, troppo, e troppo in fretta, e si deve far attenzione a ciò che si dice in sua presenza.

Il rapporto che Mathilde ha con la lingua oscilla anch’esso tra dimensione scritta e parlata, lei, che finirà per parlare arabo con i pazienti e i contadini, scrive in francese così come le hanno insegnato, con le parole che le hanno insegnato, e «vorrebbe essere Maupassant per riuscire a descrivere il giallo» dei muri o l’azzurro del paesaggio, ma si accorge che il proprio bagaglio di parole e di suoni è inadeguato, «incappa di continuo nelle medesime parole pesanti e noiose», e capisce che quelle nuove cose viste e vissute «lei non può dirle», (e verrebbe da pensare, non può ancora dirle, e il compito di scriverne ricadrà sulla sua progenie). Capisce, e noi con lei, che il linguaggio è «un territorio immenso, un terreno di gioco illimitato» che la inebria e la intimorisce: come dire qualcosa di nuovo con parole vecchie? Come fabbricare parole nuove per dire cose già vissute.

La conversazione, centrale del testo, intorno all’innesto di un ramo di limone su una pianta di arancio è l’occasione per parlare del sofferto “meticciato” incarnato dalla figlia della coppia: la bambina chiamerà citrange lo strano frutto risultato dell’incrocio, che in francese ha un’aria assai più inquietante (étrange) che in italiano dove “limarancio” suona invece molto più innocuo e familiare. Il citrange, nelle parole del padre, è immangiabile e lo sarà sino a quando una delle due componenti ingloberà l‘altra e l’albero produrrà finalmente qualcosa di buono.

Questo disagio della mixità, insomma, foriero di drammi ma anche di una incalcolabile potenza creativa sul piano umano, erotico e culturale, alberga in questo libro come un monito. Non certo a scongiurare l’incontro tra popoli e culture, semmai il contrario, ma a sbarazzare il campo da visioni edulcorate e ammiccanti delle magnifiche sorti e progressive del multiculturalismo. L’incontro, fatale, tra mondi diversi, che tanto si attraggono e si respingono, in un gioco umano ed erotico al limite del massacro, produce insieme felicità e dolore, libertà e costrizione, conoscenza e oppressione cieca, in una coesistenza ambigua e sfumata che è il campo d’azione privilegiato della letteratura. «Niente è facile».

La chiusa, epica, del libro riprende e riecheggia poi sapientemente la scena dell’incendio di Atlanta in un altro grande romanzo «terriero e familiare», Via col vento, il cui «guerra guerra guerra», cinguettato da Scarlett O’Hara nell’omonimo film, compare, con ben altra connotazione, nel sottotitolo de Il paese degli altri. In entrambi i casi l’incendio divora il passato e proietta violentemente i protagonisti in un mondo nuovo, famelico, esaltante, spietato e soprattutto ancora tutto da vivere e da scrivere.

categorie
menu