Comma 22

Viaggio dentro il cuore dell’apocalisse: Nella spirale di Gianluca D’Andrea



La scrittura di Gianluca D’Andrea ha l’ossessione del movimento. Da Transito all’ombra (Marcos Y Marcos, 2016) a Forme del tempo (Arcipelago Itaca, 2019) è come se essa rifiutasse, una volta tratta dal magma delle infinite possibilità, di cristallizzarsi definitivamente sopra un supporto, analogico o digitale che sia, e quindi volesse continuare ad avvilupparsi in un percorso polimorfo, multiplo nonché multi sequenziale, spiraliforme più che logico-lineare. Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), edito dalla nuova Industria&Letteratura (2021), porta alle estreme conseguenze questa tensione che non è solo espressiva, ma ha un fondamento epistemologico e cognitivo piuttosto evidente. L’immagine-concetto del movimento che curva intorno a un centro definito chiama in causa l’esperienza storica del soggetto e il suo rappresentare/interpretare il tempo come un vortice presente di passato-futuro. Già Vincenzo Consolo, conterraneo del messinese D’Andrea, proponeva questa visione della storia nel suo Sorriso dell’ignoto marinaio (Mondadori):

«Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso di interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire.»

Se il senso della storia poggia su questa premessa, è chiaro allora che la profezia della fine, dell’apocalisse – la «catastrofe» evocata dal sottotitolo – si innesta sulla scansione ciclica del tempo stagionale oltre che sulla misura del passaggio umano. La prospettiva della catastrofe è necessariamente antropica, riguarda cioè la relazione tra essere umano e mondo, con il primo termine che si trova al centro di questo discorso apocalittico e decentrato allo stesso tempo: «In cammino è la visione del mondo, guardare nelle sue trasformazioni, camminare scalzi per non offendere i fermenti, mettersi da parte, contemplarlo». L’ideale quindi, per il poeta, sarebbe una fusione panica che azzeri ogni confine, un climax impossibile da raggiungere: «Tra uomo e mondo nessuna separazione, allora, ma un unico corpo immerso nello stesso clima da cui dipende la nuova configurazione della terra» .

Il lettore che si accosta a Nella spirale non si trova davanti solo uno “strano” libro sul passaggio e sulla metamorfosi, composto attraverso forme eterogenee (prosa saggistica, diario di bordo, referti di poetica e, naturalmente, testi poetici che riproducono le strutture metriche della tradizione), ma è chiamato ad entrare nel vivo di una scrittura stricto sensu metamorfica, che si va formando durante il percorso in una coincidenza che vorrebbe essere assoluta tra l’astrazione del pensiero e la sua materializzazione verbale sulla pagina. Non ci sono scarti nella scrittura di D’Andrea, bensì l’aggrumarsi materico (spiraliforme, appunto) di una esperienza soggettiva affamata di realtà che si fa logos nell’incontro con l’alterità del mondo, e che rispetto a questo mondo sembra quasi che voglia abbattere ogni filtro, ogni barriera di contenimento.

D'Andrea

La dicotomia dentro-fuori più volte evocata in alcuni testi (o «movimenti», come li chiama Pusterla nella postfazione, come a evidenziare l’andamento sinfonico di questo concep twork), acutizzata dalla recente esperienza globale del lockdown, di un «lock-in», ovvero da una compressione forzata per vari motivi verso l’interno, si regge infatti solo in virtù dell’epicentro di un soggetto esperiente in transito, del suo guardarsi attorno con una visuale a 360 gradi che contempla tanto gli spettri del passato quanto le proiezioni future.

Ma soprattutto scoprii intorno a me, prosimetro che nasce da una sollecitazione di H. D. Thoreau, è un exemplum della poetica “a spirale” di Gianluca D’Andrea. Il testo, invece di portare a un approdo ombelicale, a una scoperta chiusa del Sé, si apre a una nuova possibilità di cammino, a un nuovo sentiero; è, infine, un invito rivolto all’intero genere umano a «incamminarvi dentro le stagioni» per scoprire, insieme al poeta, «i prossimi sentieri e le nuove deviazioni». Dalla prospettiva di un cammino comune, largamente condiviso e non più solitario, fa capolinea l’ombra di «un Orfeo redivivo e squartato» che scherma una visione universale (politica?) del poeta e della poesia. Questa rivisitazione del mito però non è di tipo tragico, come quella del racconto originale o, ancora, quella di Pavese o di De Angelis (giusto per fare due nomi di autori cronologicamente più vicini); l’Orpheus Tomorrow di D’Andrea non è il cantore che si volta indietro per aggrapparsi a un passato impossibile, quanto piuttosto il poeta che recupera una tradizione che guarda avanti, al futuro: «Continuando a strisciare / sotto un cielo di pioggia, con le mani / sottili, si voltò infine e vide / la radice». Il poeta, per D’Andrea, aderisce alla realtà naturale e pertanto trova il proprio posto nel mondo, in relazione ad essa e anche collocandosi nel racconto-storia plurimillenario dall’essere umano:

«Nel lock-in che generava una nuova
appartenenza si sentiva appagato,
tenero, nascente come un uomo
raccolto nel suo attimo di rivelazione,
nella sua notte del passato. Nell’avvenire.
Così trasfuso nell’apparizione del mondo
nell’ora più solitaria
del suo cuore solitario.»

Lo sguardo in avanti dell’Orfeo di D’Andrea genera la «catastrofe», che è da intendere, etimologicamente, come una distruzione rigenerante che presiede al movimento ciclico delle stagioni; alla Primavera subentra infatti un’Estate di sprofondamenti geologico-naturali e di ritorni alla luce (si vedano i cicli testuali rispettivamente intitolati di «Nelle profondità» e «Il ritorno»), prima che giunga un nuovo Inverno: «Allora aprii gli occhi più di prima e vidi ombre e la luce debole illividirsi e indicare un varco tra le pietre aspre». Nell’ultima delle quattro sezioni del libro, in cui la prosa abdica a favore alla versificazione, il percorso di Nella spirale acquisisce le sfumature di una parabola dantesca (e quindi allegorica) nel modo in cui l’Inverno di D’Andrea strizza l’occhio alla struttura odeporica della Commedia. La trilogia del «viaggio» (Preambolo, Pianura, La fine) è infatti una riduzione in scala dell’impareggiabile modello trecentesco che ha per protagonista, ancora una volta, la visione del soggetto esperiente: «Mi affaccio apro alla luce sulla terra / in lontananza la vista mi afferra / della neve sulle cime». Non può essere più chiaro e esplicito di così che il senso del cammino del poeta messinese si forgia al fuoco del cammino di Dante in virtù della coscienza (comune) di appartenere a una «specie assente assiderata / che manca d’anima e d’amuri». La spirale ci ha riportato dunque al punto di partenza: al cammino di D’Andrea, che è quello di Dante (iniziato, non a caso, al termine dell’inverno, il primo giorno di primavera) e quindi anche «nostro», e all’ardua impresa che lo traduce in scrittura.