Comma 22

Un romanzo di immigrazione in cui non si immigra. Intervista a Elvis Malaj

Rotondo come il suo titolo è anche il romanzo di Elvis Malaj, in cui le scene si susseguono con l’andamento delle onde che si allargano quando si lancia un sasso nell’acqua, e ogni elemento ricorre e ritorna, delineando una circolarità perfetta. Si racconta di immigrazione, di sogni e suggestioni infantili che si trasformano in ossessioni; si raccontano lo stile di vita, i problemi, le tradizioni e il folclore albanesi; può definirsi un romanzo di formazione, ma è anche una storia d’amore; c’è un lato pulp, con la violenza disinvolta, l’illegalità diffusa, il degrado, il caos: rischi d’incontrare una pistola puntata o un pugno in faccia ogni volta che volti pagina; c’è una marcata vena comico-grottesca che a tratti lambisce il surreale e c’è persino un gioco metaletterario, perché chi ricorda i racconti del primo libro di Malaj avrà un piacevole déjà-vu riconoscendo alcuni personaggi e situazioni, e troviamo un romanzo nel romanzo, che si intitola come quello che teniamo tra le mani. Eppure tutta questa materia narrativa densa e ribollente non fa mai sentire il lettore travolto o disorientato, perché la scrittura al contrario è misuratissima, controllata, tersa. Non una parola più dell’essenziale per seguire nelle sue picaresche vicissitudini balcaniche quel Taugenicht, quel perdigiorno del protagonista, le sue giornate scandite da una sigaretta dopo l’altra.

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Della cadenza particolare che l’influenza della madrelingua albanese di Elvis Malaj imprime alla sua prosa italiana si è già scritto molto quando ha esordito con Dal tuo terrazzo si vede casa mia (Racconti, 2017), che gli valse la candidatura allo Strega, a Limina ha raccontato piuttosto del suo labor limae, di come affronta il mestiere di scrittore e di cosa significa avere in uscita un romanzo che parla di confini in un momento storico in cui si inneggia all’innalzare muri e chiudere porti, in giorni in cui anche per varcare la soglia di casa è necessario compilare un modulo.

Tre anni dopo Dal tuo terrazzo si vede casa mia esce Il mare è rotondo, il tuo secondo libro ma il tuo primo romanzo, e che in effetti tu, quando uscì la raccolta per Racconti, avevi già scritto. Parlaci di questa lunga gestazione. Come è cambiata – se è cambiata –, maturata e cresciuta la tua scrittura dalla prima stesura di Il mare è rotondo alla sua pubblicazione?
Io ho scritto Il mare è rotondo in sei mesi nel 2014, poi per un anno e mezzo ci ho lavorato sopra con Leonardo Luccone e con Giuliano Boraso di Oblique. Questo mi ha fatto crescere moltissimo.
Poi è arrivata l’opportunità con Racconti Edizioni, che è stata una bella esperienza anche di riscrittura, perché circa la metà dei racconti di Dal tuo terrazzo si vede casa mia erano già scritti. Dopo la pubblicazione del primo libro, quando ho ripreso in mano Il mare è rotondo, ero un altro scrittore; e non mi andava più bene, e quindi c’è stata una seconda riscrittura. Questo è il modo in cui si cresce come scrittore: impari a scrivere lavorando sulle cose che hai scritto; soprattutto se hai la fortuna di essere seguito da un professionista. Uno scrittore non deve mai trattenersi dal tramutare, dal cambiare, non deve essere mai uguale a sé stesso. Quando chiudi un’opera hai un bagaglio di conoscenze nuove che utilizzi nella prossima.

Forma romanzo e forma racconto. Come autore in quale ti trovi più a tuo agio e come cambia la tua esperienza della scrittura dalla forma breve alla forma lunga?
Per quanto riguarda la scrittura tra Dal tuo terrazzo si vede casa mia e Il mare è rotondo non c’è una grande differenza. Tra le cose che ho scritto quello che si avvicina di più alla mia idea di racconto ideale è il primo capitolo di Il mare è rotondo: due pagine brevissime in cui si apre tutto un mondo. Per me è un racconto compiuto, che evoca più di quello che vi è contenuto, come nella famosa immagine che dà Hemingway dell’iceberg: la punta è quello che appare, ma l’ottanta percento dell’intero iceberg è sotto la superficie. Nel romanzo ci sono molte storie, molti impulsi racchiusi in una storia unica. Se apri Il mare è rotondo e leggi un capitolo a caso dovrebbe riuscire a prenderti anche se non sai che cosa è successo prima e che cosa succede dopo; ogni capitolo non ha valore solo per il modo in cui si collega a tutto il resto o per il quadro che va a formare alla fine; è un mosaico: ci sono tanti tasselli; volevo che nel mio romanzo ogni tassello avesse una ragion d’essere tutta sua. Tra Dal tuo terrazzo si vede casa mia e Il mare è rotondo c’è questa interscambiabilità. Non so se anche nelle cose che scriverò in futuro sarà così.

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Nel tuo romanzo uno dei personaggi principali, Sulejman, è uno scrittore che ha l’abitudine di cercare i lati romanzeschi nelle persone che incontra, e si crea un gioco metaletterario molto divertente perché in realtà Sulejman stesso si trova in un romanzo. Quanta autoironia hai riversato nella sua figura? Quanto di te c’è in Sulejman?
Di sicuro il suo modo di lavorare mi piace. Le storie sono là fuori e lo scrittore deve avere fiuto, non ha bisogno di inventare niente. A volte chi scrive fa riferimento a libri che fanno riferimento ad altri libri, quindi scrive di cose che esistono solo nei libri e si allontana dalla realtà che c’è fuori, dalle persone comuni che incontriamo tutti i giorni. Sulejman va in giro, ascolta, osserva e cerca di trovare storie, anche se poi non gli va più bene nemmeno questo metodo qui, perché dice che quando qualcun altro racconta una storia che gli è successa in realtà è lui lo scrittore, quindi stai assumendo il punto di vista di un altro, mentre lo scrittore deve riuscire a smontare la costruzione altrui e riconoscere con i suoi occhi quello che c’è di genuino, la sostanza per una storia. Condivido la visione di Sulejman. Per un’iniziativa del Maxxi di qualche anno fa, Festival Move The Museum, dovevo ascoltare le persone, farmi raccontare la loro storia e trarne un racconto. Solo quando mi sono visto in quella storia come se fossi io il personaggio è diventata la mia storia; è stato allora che sono riuscito a scrivere. Quando ho fatto leggere il racconto alla coppia a cui era successo davvero, loro si sono ritrovati alla grande. Da quell’esperienza ho capito che l’abilità di uno scrittore sta nell’essere capace di parlare degli altri quando parla di sé. Inevitabilmente ci metti sempre te stesso, quindi tutti i personaggi sono come dei tuoi alter ego. Sulejman cattura il mio essere scrittore, la mia maschera di scrittore, se vogliamo usare questo termine pirandelliano.

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Nel tuo romanzo i personaggi sono immersi in un contesto culturale di tradizione patriarcale, con aspetti fortemente maschilisti, però tutte le figure femminili, anche nei racconti, sono forti, spregiudicate, spesso prepotenti e dominanti rispetto alle loro controparti maschili.
Molti autori sono stati criticati per la rappresentazione della donna che offrono attraverso i personaggi femminili, stereotipati, angelicati, oggettificati. È qualcosa a cui pensi quando tratteggi le tue figure femminili?

Non è un problema che mi pongo, non scrivo con il pensiero che potrei offendere le donne o cadere nello stereotipo, cerco di essere il più libero e indipendente possibile, emancipato a mia volta. I miei personaggi femminili sono come li hai descritti, forse perché proietto su di loro le figure di donna che ammiro di più, e che quindi probabilmente mi influenzano. Ho avuto modo di conoscere qualche ragazza albanese che ha dovuto combattere qualche battaglia in più per conquistare la sua libertà. Ho sempre ammirato queste figure e ho cercato di raccontarle. In Italia forse è meno necessario, però in Albania si sente ancora un certo bisogno di promuovere immagini e modelli di emancipazione.

Il protagonista di Il mare è rotondo, Ujkan, è ossessionato dal desiderio di oltrepassare il mare Adriatico e raggiungere l’Italia, ci ha provato decine di volte, collezionando una serie di tentativi falliti che l’hanno reso uno zimbello. Tu avevi concepito il tuo romanzo molto prima, ma esce ora, dopo l’ascesa di Matteo Salvini e l’approvazione riscossa dalla sua politica dei porti chiusi quando era ministro. Come credi che possa inserirsi il tuo romanzo nel dibattito sull’immigrazione di questi anni?
Nel momento in cui parliamo mi sembra che i giorni in cui il problema erano gli atteggiamenti bulletti di Salvini fossero bei tempi. Ho l’impressione che alcuni politici, molto più intelligenti di quanto non appaiono, creino con le loro parole un problema per potersi proporre come quelli che lo risolvono. È un gioco che non voglio assecondare. Mi sembra tutto molto finto. Quello che mi dispiace è che i problemi legati a razzismo e immigrazione vengono fuori quando la popolazione autoctona, in questo caso gli italiani, ha altri problemi, come l’aumento della disoccupazione, la crisi economica – che in realtà dura da trent’anni, è un problema cronico. La popolazione in difficoltà se la prende con il capro espiatorio di turno offerto dai politici.
Al mio romanzo e a quello di cui scrivo si guarda come a storie a tema immigrazione. Infatti quando è scoppiata la pandemia mi sono chiesto se avesse ancora senso far uscire un romanzo del genere. Se il romanzo fosse uscito quando Salvini era ministro avrebbe potuto ottenere più risonanza, mi sono ritrovato a ragionare a posteriori, quindi si è creato un paradosso: una situazione che come cittadino non mi andava bene, mi conveniva come scrittore. Ma non è più tempo per discorsi egoistici di questo tipo. Il mio è un libro camaleontico, se vogliamo parlare d’immigrazione possiamo, ma se non vogliamo c’è altro di cui parlare. Io penso che l’immigrazione sia solo lo sfondo della mia storia.

Leggendo il libro ho pensato che Ujkan non volesse veramente andarsene dall’Albania, che coltivasse l’idea di raggiungere l’Italia con lo stesso spirito con cui poi si prefigge di conquistare Irena, la ragazza di cui s’innamora, ma in realtà sono entrambe
Chimere. Sì, è un romanzo di immigrazione in cui non si immigra, quindi mantiene una sua ragione d’essere anche in questa realtà totalmente cambiata in cui alla fine si ritrova a uscire. Mi sono chiesto: ma ha ancora senso fare certi discorsi?
Speriamo di sì.

Photo credit:
Untitled, Rockaway Beach – New York, ICY AND SOT, 2018;
Elvis Malaj, Guja Rigattieri.