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Sanaka Hiiragi e le foto dell’esistenza



Pressappoco spoglio, come s’addice al gradualismo formale dell’elegante Oriente; la rima col “niente” pattina sui tavoli lucidi di costoluto sugi, dove al massimo oziano una stilografica, una peonia, dell’incenso al sandalo. Il magico studio fotografico di Hirasaka rispetta il profilo zen dei tinelli sollevantiani, quand’anche questo eccezionalmente sia l’anticamera per l’aldilà. Sanaka Hiiragi – insegnante di giapponese, scrittrice dal 2013, appassionata di kimono – sta facendo tradurre in oltre venti Paesi una storia nerina che favoleggia il bardo, la sua (interp)unzione composta da pause e sbalzi. Chissà quanti capiranno l’anti-epica dei quattro personaggi. Chi ne ricalcherà solo la commozione naïf?

Hatsue, maestra d’asilo. Waniguchi, bullo della yakuza. Mitsuru-chan, fanciulla disgraziata. Il trio, ognuno al proprio turno, càpita entro la camera oscura di Hirasaka, il cui compito è far scegliere ai neo-morti un fotogramma per anno di vita, componendo la lanterna girevole dei defunti: guardarla roteare equivale a dire addio ai legami terreni, eclissando nell’ignoto, nel dopo. Hirasaka, traghettatore immobile, permette ai suoi ospiti di recuperare un ricordo ciascuno, tornando per l’ultima volta al giorno più lieto, tra i viventi, sotto invisibili spoglie spettrali; in mano, una solida macchina fotografica pronta a fare clach.  

Sanaka Hiiragi

«Ciò di cui non si ha memoria è come se non fosse mai esistito». Ecco l’ossessione per l’anamnesi, poiché «magari morire significava proprio perdere contezza di tutto», uguali a «cicale, dopo aver trascorso tanto tempo sotto terra», stordite e frigide. Le varie Nikon, Canon, Leica diventano mezzi sacri, ultra-sensoriali, termometri che senza giudizio misurano le febbri di «momenti belli da non crederci, momenti in cui era andato tutto male». È difficilissimo riuscirci, arrivati a data di scadenza, nel vespro finale («il confine tra giorno e notte, il crepuscolo. È allora, si dice, che tende a manifestarsi il demonio»).

Ci pensa Hirasaka. Uomo, non divino, giace nell’oblio del sé, sulla soglia dello studio. Il tormento per la vastità del nulla che gl’incolla la mente, parimenti al contrappasso di un peccato capitale («come si può dire addio alla vita senza ricordare nulla e senza essere riconosciuto da nessuno? Mi sono chiesto persino se la mia sia stata veramente una vita, perché è scivolata via così, banale, dimenticata da tutto e tutti: che senso ha? Perché sono venuto al mondo?») lo logora senza alterarne le maniere. Di quelli che arrivano a lui, smorza aggressività e terrori, seda malinconie. La pazienza è infinita, il tatto estremo. Sappiamo solo il fisico, di mister H.: «Portava una camicia grigia con il colletto inamidato. Aveva i modi pacati dei pastori o dei preti. I capelli ben pettinati. L’aria gentile ma non del tutto trasparente. Non era bello da far girare la testa ma nemmeno brutto, un tipo dall’aspetto piuttosto ordinario, che poteva assomigliare a chiunque e a nessuno». Ed è questo un corpo segnaletico, una potenzialità, il foglio di bamboo su cui carezzare il pennello dello shodo. «Hirasaka scoprì che il suo viso poteva avere anche espressioni come quella», scrive Hiiragi quando lo fa, finalmente, sorridere.

Il cibo, aiuta. Secondo la compulsione digestiva dell’umami, in Giappone non ci si trattiene nell’orgasmo mangereccio. Normale che ai fantasmi vengano proposte bevande corroboranti, latti e tè con gradazione alcolica («il bourbon scendeva giù come una sottile nebbia tra i cubetti di ghiaccio»); nonché patate arrosto, cioccolata, pollo, caramelle. Nessuno rifiuta, gli stomaci sono cancellate aperte, i sapori inequivocabili. H. fa così pure il camerista post mortem: il suo vassoio serve al contrario il piatto del condannato.

Gli scatti fuoriusciti dallo studio rappresentano via via l’ordinario. «Lo scorrere del tempo in un parco tranquillo, in un pomeriggio di vacanza». «L’occhialino che andava a posarsi su un ramo dell’albero di cachi vicino al cancello della loro casa. Le fessure sulla vecchia cassetta del latte. Le strisce di luce che filtravano attraverso lo scorrevole intagliato all’ingresso». «Cose piccole e graziose, come un tronco d’albero o una bacca rossa rimasta sola soletta su un ramo». Si appaiono agli oggetti, rimirati con fare riguardoso, nel rispetto ritualistico e cerimoniale riservato agli utensili che ci accompagnano dentro ai giorni (scarpe, ombrelli, coperte).

Le persone, le tre anime di Hiiragi rispecchiano a ritroso le fasi dell’esistere, vecchiaia, adultità, infanzia. Opposte eppure compenetrate, interpretano vagli rimuginando quanto basta («Dio deve avere una gran faccia tosta per concedere solo due opzioni, nessuna delle quali corretta», «se almeno una volta, quando c’era da scegliere, avesse fatto la cosa giusta»). Ognuna si lega a una sorta di doppio: un’intima nemesi (Mitsuru e la madre), un ostacolo esortativo (Hatsue e la signora Hisano), uno strano affetto (Waniguchi e il Ratto). Tutte paiono la riflessione sul bushidō (il mos maiorum nipponico) che andrebbe fatta a colazione, prima di aprire la prima porta sul mondo. Ci sono, spremute, le virtù della rettitudine (Gi) e del coraggio (), la cortesia (Rei), l’onestà (Makoto) e l’onore (Meiyo), assieme a lealtà (Chūgi) e dominio di sé (Jisei). Un’etica vitaminica infusa sottilmente, di grazia, nelle fibre.

Soprattutto, Il magico studio fotografico di Hirasaka è un libro sullo Jin, pura compassione benevolente. Perché, certo, «quando compi una buona azione, il cielo ti sembra più blu e le sigarette più gustose».

Photo credits:
copertina: dalla copertina dell’edizione tedesca

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