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Reati di perfezione nella Valle Oscura di Anna Wiener



Tempo fa avevo scritto sulla serie di Luca Guadagnino, We are who we are. La sua visione mi aveva affascinato e stordito per la bellezza estetica delle scene, per la precisione dei dialoghi. Tutto appariva così perfetto, assoluto, la trama fluiva languida, intorno ai personaggi. In tutta quella igienica perfezione mi trovavo non coinvolta, ma perturbata. Che forse esistesse un reato di perfezione? Una ricerca estetica e contenutistica così immacolata da divenire, per il ricevente, elemento di distacco?
Ho ritrovato queste obiezioni e questi meccanismi leggendo Uncanny Valley, il memoir pubblicato in Italia per Adelphi con il titolo La valle oscura nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, caso letterario internazionale, in cui l’autrice, Anna Wiener, racconta dei suoi cinque anni (in)felici ma lucrativi, negli uffici della Silicon Valley. Laddove nella serie di Guadagnino eravamo coinvolti nelle giornate di un gruppo di adolescenti americani in una base militare in Italia, qua la prospettiva è diversa, ma pur sempre di un’outsider, in viaggio in una terra ignota.

Agli inizi abbiamo lei, Anna Wiener, venticinquenne di buona famiglia. Vive a New York, dove lavora per un’agenzia letteraria, che poco la paga e ancor meno le promette. Il mondo editoriale assomiglia sempre di più a un’omelia per defunti, e chi ha venti-quarant’anni e aspirazioni umaniste e non eccessiva intraprendenza sa benissimo quale sia la penuria fra occupazioni mal pagate e servigi gratuiti. Quindi, attratta, ambiziosa, cerca e accetta un lavoro per una start up pseudo-letteraria per poi trasferirsi a San Francisco. La paga è migliore, di non poco, vuole essere parte di qualcosa di significativo, importante… L’Eldorado l’attende (i soldi non fanno poi così schifo).

L’attrazione diviene col tempo e con il passare delle mansioni malcelata repulsione, perturbamento. Mano a mano che la sua vita prende forma, Anna si rende conto che la bellezza propositiva, geniale delle start up americane, monopolio assoluto che ha preso mano del mondo, benvenuto come utopia e nuova sharing economy, ha invece dei risvolti ben più tetri, oscuri: i pericoli della ipervigilanza, le big data, l’oligarchia economica detassata.
Anche la sharing economy è un’illusione hippywashing, quando si tratta di usare il nostro privato per dare i soldi a loro, i neo-yuppie della Silicon. I passi della Wiener ci mostrano come quest’ultimi, così millantatori di tutta una nuova maniera di vivere, piedi scalzi e cuffie in ufficio, senza quella boriosità da compagnia della city, schiava del 9-5, siano, in verità, sempre più simili ai vecchi capitalisti che volevano smentire. Nel sessismo, nell’elitarismo, quanto nell’ambizione. Altro che liberatori, questi ormai, con tutti i loro tic da nerd e le loro frasi motivazionali, sono i nuovi oligarchi. Abbiamo il lieto fine: lasciata la landa oscura, la protagonista è riuscita, crediamo, nella carriera a cui ambiva, letteraria (ora infatti è writer per il New Yorker «and others», si presenta così su Twitter).

Anna Wiener

Detto questo, si è detto molto. La valle oscura è stata una lettura per lo più meccanica, perturbante nella sua sistematicità. Proprio come nella serie di Guadagnino, si è provato quel sentimento di ripetizione. I racconti passano fra un open space e un altro, una festa e un’altra, fra un’insicurezza e un’altra e più che letteratura, è cronaca, scritto e tradotto benissimo, impeccabile nella forma, quasi a ricordare un periodare computerizzato. Le descrizioni sono chirurgiche, così attente da affaticare, il reato, come detto, è spesso quello della perfezione, dell’iperrealismo («immaculate sentences», rimarca Wired, ricordando quanto la scrittura non sia solo una questione di editing). Ci si avvicina alla prosa languida di Joan Didion, senza, però, replicarne l’ambiguità.
Anche qui si ritrova, come nella poetica di Guadagnino, una trama che si lega esclusivamente alla fluttuazione dei personaggi, ai loro comportamenti. «The perspective of behavior», diviene un ondeggiare, quasi mistico, in cui il punto di vista è quello di una Lena Dunham senza ironia e autoironia, tanto lucida ma mai schietta, con tutto il procedere lento di un’analisi di una società comandata da un gruppo di ventenni nerd, sempre su di giri, con i loro beveroni proteici in mano e la visione di una vita tanto produttiva quanto ottimizzata. Sarebbero bastate meno pagine a presentare il loro stoicismo cheap, pieno di algoritmi e superomismo, se non la sua disillusione sociale. E infatti non sorprende che il memoir nasca da un longform pubblicato nel 2016 sulla rivista n+1: appare infatti come un saggio dilatato.

Diciamolo: un’analogica umanista, hipster e femminista, sicuramente amante della vulgata di Foucault (ipotizziamo) lavora negli anni d’oro della Silicon Valley, per non morire di asfissia e vita da studentessa perenne a New York… La sinossi funziona, le premesse sono allettanti ma invece la voce pare troppo attenta a essere sempre corretta, controllata, a mandare il messaggio esatto, a nominare la parola sessismo e femminismo ogni due o tre pagine, quasi da apparire in non pochi casi come un’imposizione (al Guardian conferma di aver scritto il saggio sperando che fosse «politicamente utile», e, non ci sorprendiamo, su questo politicamente utile si stanno frantumando fior fior di opere e letture).
In uno stralcio racconta di una festa tra colleghi. Interviene, per essere protagonista, risplendere, dire la sua (chi non ha di queste ambizioni? Da cui nascono spesso delle figuracce?) mentre un gruppo di ragazzi, nerd, chiacchierano, la ignorano, stanno discutendo di macchine a guida autonoma. Dice, a bruciapelo, che non crede siano un qualcosa di effettivo, possibile. Quelli la guardano un po’ scettici. Le chiedono che lavoro faccia. Lei rimane sul vago, vorrebbe la prendessero per un ingegnere. Ma uno ricalca «Ti occupi di?». Lei ammette, di assistenza clienti. Loro continuano a parlare, la ignorano. Pensiamo siano un gruppo di ragazzi molto competitivi, siamo pur sempre nella Silicon, e scopriamo, nevvero, essere nientepopodimeno che i primi ingegneri ad aver progettato una macchina a guida autonoma. Insomma, non stava parlando con un gruppo di amatori. Sul treno del ritorno penserà, e citiamo: «Che sessisti spudorati. Come osavano essere così altezzosi solo perché ero una donna, solo perché mi occupavo di assistenza clienti ed ero una non tecnica?». E una voce vorrebbe risponderle che il problema primo, per come l’episodio era stato raccontato, fosse uno: la sua incompetenza in materia. Non il suo esser donna. La saccenza era stata in ambo le parti. Non che quelli non possano esser stati stati pedanti, altezzosi, elitari… tutto possibile. Tuttavia, a un party andreste a fare una battuta sui buchi neri, sconclusionata, a Roger Penrose? Io no. Sarebbe potuto essere un bellissimo sketch, ironico, dissacrante su lei e loro, sui millennial perennemente impettiti, e invece, eccolo, il sessismo. Confondere il sessismo con competizione, altezzosità, con altri tanti atteggiamenti possibili in un mondo lavorativo e sociale spietato è quello che succede spesso ormai nei nostri media e anche in questo racconto, come se si dovesse inserire: sessismo, trend topic del momento, acchiappa algoritmi. E dispiace, perché a scrivere di sessismo con facilità, anche laddove è altro, si finisce per attutirne il significato. Si rischia di non capire più quando veramente vige e non sia solo una questione di bassa autostima, antagonismo, maleducazione… di vita, insomma, là fuori.

Quindi, è questo che appare. Lungo tutto il memoir non solo ci scagliamo sull’ossessione narcisistica di questi nerd ambiziosi ma anche su quella stessa della voce narrante, colma però di insicurezza: «Come ci si sentiva a sfrecciare nel mondo in uno stato di totale fiducia in se stessi? Mi chiedevo premendomi sulle tempie; così ci si sentiva a essere un uomo?». Speriamo che abbia trovato o provato ora quella fiducia. Fiducia d’essere donna che ha scritto ed è riuscita a fare finalmente quello che più le piace. 



NB. Nel 1970 Masahiro Mori, studioso di robotica giapponese, fece una ricerca sulla reazione umana davanti ai robot antropomorfi: piacevoli quando umani, ma non troppo. L’iperrealismo porterebbe, infatti, a un senso di inquietudine. Mori chiamò questa zona uncanny valley, la valle del perturbamento.

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