Camera Obscura

Venezia77. Da dove riparte il cinema


LA MOSTRA DEL 2020

Venezia77 è l’edizione più chiacchierata della Mostra d’Arte Cinematografica almeno da una decina d’anni in avanti, ed è lecito che lo sia. Decidere di continuare, di essere il primo evento di portata mondiale a tornare a svolgersi dal vivo non è sicuramente stata una decisione presa a cuor leggero. La Biennale di Venezia e il direttore del Festival Alberto Barbera hanno avuto coraggio e hanno lanciato un segnale di speranza, di resistenza e soprattutto di ripresa che accantonasse le parole e mettesse in pratica i fatti. Hanno deciso di correre il rischio, e forse è ancora presto per dire se abbiano fatto bene, eppure la risposta c’è stata: con molta lentezza ed estrema cautela il lido ha ripreso a popolarsi.
Da dove partire per raccontare questa Mostra ancora in piena attività? Dalle parole di Cate Blanchett, Presidente di Giuria del concorso, che prendendo la parola la sera dell’apertura ha messo una mano sulla spalla a tutti noi che eravamo già sbarcati – e a chi sarebbe arrivato nei giorni seguenti – scandendo in perfetto italiano: «Siamo qui, e ce l’abbiamo fatta». Una verità e una presa di consapevolezza definitive che hanno suscitato una certa commozione e rafforzato il senso di responsabilità di tutti i presenti. Siamo qui, e ce l’abbiamo fatta, perciò non buttiamo via questa occasione e non vanifichiamo tutti gli sforzi di chi per renderlo possibile ha ingranato il turbo e ha messo in piedi un’efficiente “macchina da guerra” in tempi record.

Il Festival di Venezia è partito, il lido si è gradualmente ripopolato, il senso critico degli spettatori – molti tornati in sala per la prima volta dopo il lockdown – dopo qualche proiezione di rodaggio è tornato a farsi affilato e tagliente. In sala si accede solo prenotando online il proprio posto, anche se si è accreditati, ci si siede alternati e non si può cambiare posto, la mascherina va tenuta durante la proiezione e non può mai essere abbassata. Se il naso è in bella vista, subito uno degli operatori di sala ti si avvicina e ti chiede gentilmente di coprirlo. È difficile rispettare le regole? No, viene spontaneo farlo, e alla mascherina e all’anidride carbonica che ti fa effetto vapore per dilatare i pori impari a resistere, anche perché non appena le immagini sul grande schermo ti catturano non ti importa più della scomodità, della mancanza dell’amico di sempre seduto al tuo fianco, o della solita aria condizionata alle stelle che ti fa peggiorare la cervicale. Si entra in sala con ordine e si esce con ordine, ci si ritrova all’aperto in coda – anch’essa ordinata e nel rispetto delle distanze – ai punti di ristoro e si ricomincia, prima timidamente e poi sempre più animatamente, a scambiarsi opinioni su ciò che si è visto. «Il livello medio è più basso», dice qualcuno, «Certo che non poter fare le domande dal pubblico è penalizzante», replica qualcun altro, e finisci per accorgerti che non è cambiato assolutamente nulla, e che quella visione apocalittica e catastrofica di un lido popolato da spettatori apatici ed impauriti è rimasta, fortunatamente, solo una costante ormai sfiorita dei tuoi incubi.

Venezia77

La più surreale delle necessarie regole di distanziamento sociale resta il muro innalzato davanti al red carpet, la parete che separa i divi dal loro pubblico. Un “intoppo” che qualcuno prova a superare appostandosi in altri punti strategici – davanti all’Hotel Excelsior  o all’imbocco del tappeto rosso dove si fermano le auto dai vetri oscurati che trasportano attori e registi. Il tutto avviene con molto rispetto, senza urla e strepiti, in completa consapevolezza di venire fermati e controllati dagli addetti alla sicurezza, capitanati dal burbero omone che chi è stato alla Mostra almeno una volta negli ultimi anni ricorderà come colui che intimava a chiunque fosse in coda per la Sala Grande di lasciar libero il passaggio e di creare una fila unica. Ritrovare anche lui, va detto senza alcuna ironia, è una vera gioia, se fosse possibile lo si vorrebbe abbracciare e offrirgli uno spritz non appena stacca dal lavoro. La consueta pausa tra una proiezione e l’altra dedicata al passeggio vede sfilare faune variegate tra cui non di rado si nasconde qualche personaggio noto che, quest’anno protetto dalla mascherina, si sente più libero e meno spiato. Chissà chi ho incrociato, questa domanda mi insegue, e mi diverte pensare di darle una risposta, soprattutto visto il pedinamento garbato che ho messo in atto quando ho riconosciuto Abel Ferrara a passeggio con sua figlia Anna.
Se si deve pensare davvero a qualcosa che manca in questa Venezia77, l’unica risposta possibile è: la frenesia. Ma manca davvero? Veniamo da edizioni in cui tutti perdevamo la testa, giravamo come delle trottole e poi ci accasciavamo distrutti sul prato con una pizza sulle ginocchia che alla quarta volta ci eravamo stancati di ingurgitare in fretta e furia. Assistevamo affascinati ad una fiera della vanità in cui si sgomitava per il selfie quotidiano o per l’apparizione fintamente improvvisata davanti ai fotografi. Quest’anno, finalmente siamo tornati ad un equilibrio, ad un’edizione in cui sono i film a farla da padrone e non il glamour ostentato. Si va in sala e non ci si apposta, non si sta ore sotto il sole cocente abbarbicati alle transenne. Lo stesso contatto umano ne beneficia anche solo perché il ragazzo seduto davanti a te in platea non riesce a cancellare la prenotazione di una proiezione a cui non riesce a partecipare, e tu ti senti autorizzato a dargli una mano, per potergli chiedere cosa ha visto, cosa gli è piaciuto e cosa no. E se ti risponde – anche lui che il livello medio è calato – anche se non è il tuo amico seduto cinque file dietro di te, finisci con il raccontargli il tuo punto di vista esaltando grandi film sociali come Quo vadis, Aida? in cui massa e individuo diventano una sola entità, progetti apprezzabili per il messaggio di solidarietà e continuità artistica come Sportin life di Ferrara, delusioni scottanti come PADRENOSTRO che per raccontare la storia vera di un magistrato vittima di attentato terroristico non riesce ad andare in profondità, mescolando caoticamente realismo e onirismo, o ancora esilaranti piccoli film che ci ricordano che in sala si può anche ridere intelligentemente come Mandibules.
Venezia77 ha ancora molto da raccontare e soprattutto da insegnare. Se sarà un unicum, di certo non ce la scorderemo, ma almeno potremo dire con fierezza di esserci stati e di averla vissuta a pieno, di aver giovato del suo intimismo, e di aver dimostrato a noi stessi e al mondo che anche nel rispetto delle regole, l’arte continua il suo percorso di vita, rinnovandosi, crescendo e mutando.

Venezia77
The human voice, Pedro Almodóvar

I FILM

Ci eravamo abituatati a vedere in concorso a Venezia i titoli che poi sarebbero arrivati dritti agli Oscar facendo incetta di premi, e la sola idea di poter vedere questi film in anteprima mondiale ci faceva perdere la testa. La selezione di quest’anno ci porta altrove, alla scoperta – o riscoperta –  di cinematografie sconosciute, lontane, esordienti. I grandi nomi, quasi tutti fuori concorso, sono le certezze, le solide fondamenta su cui poter costruire un progetto di visione variegato e stratificato. The human voice, cortometraggio di Pedro Almodóvar con protagonista Tilda Swinton è il punto di partenza: trenta minuti in cui il regista spagnolo dà nuova pelle alla drammaturgia di Cocteau mettendo in scena una protagonista combattiva ed orgogliosa che vive il dolore della fine di un amore con forza e determinazione, una donna ben consapevole delle sue qualità e della sua forza, che non teme di mostrare le sue rughe davanti alla macchina da presa e che si lascia ispirare dalle “eroiche compagne” che abitano il suo appartamento – quadri di Artemisia Gentileschi, dvd di Kill Bill e Il filo nascosto.
Le donne sono le vere protagoniste di questa selezione, e il loro talento sfavilla: lo dimostra Jasmila Žbanic con il suo Quo vadis, Aida? che torna a parlare del massacro di Srebrenica attraverso la storia di Aida, una donna che fa da mediatrice per l’Onu e che si vede portar via ciò che ha di più caro, ma che non si ferma mai e lotta caparbiamente fino alla fine. Anche Susanna Nicchiarelli con Miss Marx, dopo il successo di Nico 1988, porta nuovamente in scena la storia di un iconico personaggio storico, Eleonor Marx, che instancabilmente si batte per i diritti delle donne e dei lavoratori, che traduce Madame Bovary e Casa di bambola e che crede, erroneamente, nella possibilità di una relazione amorosa che si fondi su onestà e verità.

Anche la sezione Orizzonti si difende bene con opere inaspettatamente intriganti: una su tutte Gaza mon amour dei fratelli Nasser che realizzano una favola divertente e profonda sulla vita quotidiana degli abitanti di Gaza. Un mondo fatto di pescatori e sarte, dove, nonostante le difficoltà – politiche ed economiche – è possibile innamorarsi e far nascere dei rapporti veri e costruirsi delle nuove vite. Disattese le grandi aspettative, invece, per il secondo lungometraggio di Gia Coppola, Mainstream, che nel tentativo di raccontare in modo fresco e dinamico la generazione che sogna di ottenere il successo attraverso i social, realizza un prodotto noioso e retorico, a tratti didascalico e urtante.
Alle Giornate degli autori si affermano esordienti di promettente talento come Philipp Yuryev con il suo Kitoboy, racconto di formazione che insegna come diventare adulti sullo Stretto di Bering tra video porno e il sogno di raggiungere gli Stati Uniti.
E il tocco di glam? Sbarca al Lido con Salvatore, shoemaker of dreams, il monumentale  e ricchissimo documentario di Luca Guadagnino su Salvatore Ferragamo, il ciabattino che dall’Irpinia arrivò a Hollywood e poi fondò il made in Italy durante gli anni più bui della Storia italiana.