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Di avventi trasversali. Da William Butler Yeats a Joan Didion e Joni Mitchell



Il 28 gennaio 1939 se ne andava William Butler Yeats, perla della poesia irlandese. Esattamente vent’anni prima scriveva una poesia caustica e temibile intitolata The Second Coming, pubblicata per la prima volta sulla rivista The Dial nel 1920.
Yeats si incastona nell’ampio gruppo di artisti dall’identità duplice: nato e cresciuto in Irlanda, trascorre gran parte dei suoi anni di formazione a Londra, cosicché la sua natura è un connubio (im)parziale tra Inghilterra e Paese natio. Questo aspetto si intravede chiaramente nella sua produzione artistica e diviene uno strumento importante nelle sue mani di poeta: una duplicità che, pur potendo sembrare bisogno di unità, si trasforma in arricchimento.

Composizione cardine della sua poetica, Il Secondo Avvento è un testo dal tono grave, il passo ritmico e cadenzato, che si dispiega verso dopo verso, dalla molteplicità di immagini intrise di iconografia cristiana. Introduce il lettore ad una scena di cupezza e quiete inaspettata, descrivendo un’apocalittica seconda ascesa sulla Terra, un essere mostruoso, carico di energia distruttrice, che, nelle sua genesi, incede strisciando in direzione di Betlemme, luogo dove tutto ebbe inizio.

Gira e rigira nella spirale che si allarga
il falco più non sente il falconiere;
tutto si disgrega; il centro più non regge;
pura anarchia si scatena per il mondo,
la fiumana torbida di sangue si scatena, e ovunque
è sommerso ogni rito d’innocenza;
ai migliori mancano certezze, i peggiori
sono colmi di ardente intensità.

Certo una rivelazione si avvicina;
certo il Secondo Avvento si avvicina.
Il Secondo Avvento! Appena proferite le parole,
un’immagine immensa scaturita dallo Spiritus Mundi
mi offusca la vista: da qualche parte fra sabbie del deserto
una forma con corpo di leone e testa d’uomo,
lo sguardo vuoto e spietato come il sole,
muove lente le cosce, mentre tutto intorno
volteggiano le ombre degli sprezzanti uccelli del deserto.
Cade di nuovo la tenebra; ma ora so
che venti secoli di sonno pietroso
sono stati assillati dal dondolio angoscioso di una culla,
e quale bestia selvaggia, giunta alfine la sua ora,
si trascina verso Betlemme per venire al mondo?

Molteplici sono i fattori che hanno portato Yeats alla descrizione di un secondo avvento di intenzione completamente inversa alla nascita di Cristo: la fine della devastazione della Grande Guerra e la contigua epidemia di influenza spagnola del 1918-1919, il che inserisce la poesia in un filone di scrittura della sofferenza, in parte poesia di guerra, in parte “scritti dalla pandemia”, genere a cui, nostro malgrado, siamo diventati fin troppo avvezzi. I catastrofici scorsi anni Venti in cui Yeats si trova quando scrive The Second Coming espandono i loro confini al di là della narrazione stessa. Negli anni a seguire, infatti, la poesia è stata spesso riadattata, anche in linguaggi differenti, e, tra le molte versioni riprodotte, due si rivelano particolarmente intriganti.

La prima è del 1968, anno in cui Joan Didion, giornalista e scrittrice californiana, pubblica una raccolta di saggi e scritti personali dal titolo Slouching Towards Bethlehem (pubblicata in Italia da Il Saggiatore con il titolo di Verso Betlemme), riprendendo l’ultimo verso della poesia di Yeats. Nella premessa, l’autrice di Sacramento affronta apertamente la scelta del titolo della raccolta e di uno dei pezzi in essa inseriti, un reportage pubblicato in principio sul Saturday Evening Post che racconta l’esperienza dell’autrice nel 1967del quartiere Haight-Ashbury, una porzione di San Francisco nota per il riverbero decadente della cultura hippy, contornata di droghe e derivate assenze. Didion spiega quanto le immagini e le parole di Yeats l’abbiano sempre incantata negli anni e quanto le siano tornate in mente di fronte alla realtà di una generazione contemporanea che, sebbene rivendicasse libertà e scioglimento dalle restrizioni sociali, si era ritrovata più in trappola di quella precedente. «Il centro non reggeva più», scrive Didion come attacco del saggio, riprendendo Yeats, come ad indicare l’avvento di un momento storico socialmente rotto, che non riesce a trovare solidità nei suoi giovani. L’annichilimento individuale e collettivo della generazione americana degli anni Sessanta e Settanta, pur carica di una forza creatrice forte e atta al cambiamento dei costumi e della forma (si pensi ad Allen Ginsberg ed agli estremismi della Beat Generation), sembra disgregarsi completamente secondo Didion, che avverte questo anche dentro di sé, nel suo stile di vita e nella sua professione. Sempre nella premessa, afferma che la stesura del saggio l’ha costretta ad interfacciarsi «in modo diretto e inequivocabile, con la prova tangibile dell’atomizzazione, la dimostrazione che le cose cadono a pezzi». L’atto di scrivere in sé le appare senza scopo e i suoi pezzi privi di chiarezza e valore, rispecchiandosi nella droga e nell’abuso mascherati dal liberalismo dei ragazzi di San Francisco. «Se mai avessi lavorato di nuovo, sarebbe stato necessario per me venire a patti col disordine.» Un disordine che nella poesia di Yeats si avverte non nel calmo incedere della creatura che avanza sulla superficie terrestre, ma nell’essenza della creatura stessa, portatrice di caos.

Yeats

Proseguendo nel tracciare questo disordine su vari spazi temporali e varie forme testuali, si giunge ad una delle forse più recenti adozioni dei versi di Yeats, la trasposizione musicale di Joni Mitchell, inserita in un album già maturo della cantautrice, Night Ride Home, del 1991 (facendo qui riferimento alla prima versione del brano). L’incedere del brano ha un che di tribale, rituale, invoca la misticità di cui la poesia stessa è infusa. Mitchell apporta alcuni adattamenti al testo yeatsiano, così da permettere un connubio perfettamente bilanciato tra verso e nota, che non sono altro, infine, se non due facce della stessa medaglia. Allo stesso modo, anche poesia e canzone si rivelano complementari nella rappresentazione del disordine cosmico e individuale a cui fa riferimento Didion nel suo scritto. L’immagine della nascita della creatura portatrice di distruzione si legge, limpida, nell’ascolto del brano di Joni Mitchell: la linearità della melodia è scandita da un susseguirsi di strofe e ritornello, individuabile nel verso finale della poesia, «slouching towards Bethlehem to be born», simile ad un mantra (o forse un avvertimento?) nella sua ripetizione. Si sente quiete, brio, limpidezza nelle note e nella voce di Mitchell, la base acustica rispecchia la forma materiale della parola poetica ed è cadenzata da percussioni che ricordano passi incerti, che avanzano, trascinandosi.

Molto differente è una seconda variante più tarda del brano, inserita nell’album di Mitchell del 2002. Quest’ultima è una versione più maestosa e quasi orchestrale. La chitarra acustica della prima interpretazione, sicura nella sua dolcezza, lascia spazio ad archi e percussioni sonore, che intervengono con energia e prepotenza sullo svolgimento della melodia, modificando sensibilmente la lettura finale della canzone, riportandole, come a chiusura di un cerchio, alla tonalità grave e drammaticamente quieta della poesia di Yeats.

Yeats

Slouching towards Bethlehem pare un’espressione poetica che ha saputo legare tre declinazioni temporali novecentesche, nonché tre linguaggi differenti (poesia, prosa giornalistica e canzone), fungendo da tramite tra autori legati solo ed esclusivamente dal fatto di esprimersi nella stessa lingua. L’Irlanda, la West Coast statunitense, il Canada. Un poeta di punta del primo modernismo che sperimentava spiritualismi come la scrittura automatica; una giornalista californiana che, per un periodo, ha amato follemente New York e membro di una prestigiosa cerchia letteraria; infine, una cantautrice pietra miliare del folk, sfortunata negli affetti, dalla voce cristallina e dall’eccelso talento narrativo. Queste tre personalità ben connotate sono legate da null’altro se non dalla forza magnetica del verso poetico. Come un incantesimo, la poesia diviene trasversale nel tempo e nello spazio, un ponte tra identità, dolori condivisi e sofferenze interiori, provvedendo ad aggiustare almeno un briciolo di quel disordine che il Secondo Avvento sarebbe giunto ad estinguere.

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