Livia De Stefani
Comma 22

Quel che non si vede scompare. Livia De Stefani e la mafia in letteratura



Negli scorsi mesi ho tentato un esperimento: ho chiesto ad amici e conoscenti se conoscessero il nome del primo scrittore o della prima scrittrice a raccontare il fenomeno mafioso nella letteratura italiana. La replica, ogni volta, è stata unanime: Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta, nel 1960. In realtà non si trattava, come avrebbero scoperto i miei amici nel corso della nostra chiacchierata, della risposta giusta. Non che tirare fuori il nome di Sciascia fosse un demerito, sia chiaro, e nemmeno una nota di biasimo: io stessa l’ho creduto per molto tempo, diligentemente formata dai programmi scolastici dei primi anni Duemila e dagli esami di letteratura contemporanea fedeli al canone consolidato nel secolo scorso. Di Livia De Stefani, scrittrice siciliana vissuta tra il 1913 e il 1991, e del suo romanzo La vigna di uve nere non sapevo assolutamente nulla.

Eppure quando De Stefani pubblica La vigna è il 1953, da anni lei vive a Roma e frequenta ambienti colti e tra gli altri ha rapporti con Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Maria Bellonci: è nota, ben collocata, stimata. Ha lasciato Palermo grazie al matrimonio con lo scultore Renato Signorini, conosciuto ad appena diciassette anni, ed è stata ben felice di farlo, lei figlia di ricchi proprietari terrieri che ha sempre sofferto la mentalità chiusa e soffocante della propria terra natia. Ma alla sua isola deve ogni tanto fare visita, per amministrare le proprietà di famiglia, e quegli scenari dell’entroterra palermitano entrano con prepotenza nelle sue storie.

La vigna di uve nere è il suo primo romanzo, esce con una prefazione di Carlo Levi che parla di una scrittura densa di luoghi chiusi «nei recinti e nei pensieri» e dove «ogni partenza è fuga, ogni fuga è sacrilegio, tradimento, delitto mortale». Livia De Stefani richiama a sé una Sicilia dura e immobile, profondamente patriarcale, brutalmente arcaica: la vicenda è ambientata nei primi decenni del Novecento a Cinisi, dove Casimiro Badalamenti coltiva le sue vigne di uve nere e manda avanti i suoi loschi affari. Casimiro è uomo rude, spietato, ha sposato Concetta, prostituta del paese, per senso del possesso e della convenienza, con lei ha avuto quattro figli che per sua precisa volontà sono stati cresciuti da altre famiglie contadine. Nessuno di loro è a conoscenza degli altri fratelli e quando dopo anni Casimiro decide che è venuto il momento di riprendersi la prole, accade l’impensabile: il primogenito Nicola e la secondogenita Rosaria cedono alla reciproca attrazione e questo li porterà all’incesto.
Ma Casimiro Badalamenti, mafioso di caratura minore che vorrebbe diventare vero uomo d’onore e che per questa ambizione è disposto anche a sacrifici di sangue, non può accettare il rischio di una vergogna insostenibile, a un pubblico ludibrio che metterebbe a rischio la sua posizione e la sua ascesa al potere criminale, e così per Nicola e Rosaria non ci potrà essere che un tragico epilogo. L’uomo padrone stabilisce i destini delle donne e dei giovani della sua famiglia, senza appello e in modo autodistruttivo.

Livia De Stefani

Il romanzo riscosse un buon successo e venne tradotto in molti Paesi; fu, a tutti gli effetti, la prima opera letteraria a descrivere nemmeno tanto velatamente i meccanismi mafiosi che schiacciavano le terre siciliane. Livia De Stefani continuò la sua carriera letteraria: uscì la raccolta di racconti Gli affatturati (1955) e uscirono altri romanzi, tra cui Viaggio di una sconosciuta (1963) e l’ultimo lavoro prima della morte, La mafia alle mie spalle (1991).

In questo libro la mafia possiede sembianze ancora più primitive e attinge all’esperienza diretta che l’autrice ebbe con i codici d’onore e l’omertà; la Sicilia è un’isola assolata, ripiegata verso l’interno, il mare sembra non esistere e De Stefani racconta delle sue difficoltà di proprietaria terriera e imprenditrice, costantemente in guerra contro la diffidenza dei contadini verso le sue decisioni considerate insolite, come quella di piantare vigne al posto del grano. Il ritratto risulta impietoso, degrado e ignoranza dominano gli individui e le relazioni, la mafia impone la sua ombra opprimente: a un certo punto Livia De Stefani incontra il boss Vincenzo Rimi che sbotta con un «Minchiuni, per essere una donna bene ragiona». Il romanzo si chiude con il terremoto del Belice del 1968 e con la decisione dell’autrice di vendere le proprie terre, contro il volere della famiglia. I suoi conterranei non le perdoneranno mai questo sguardo disincantato e feroce. 

La vigna delle uve nere irrompe sulla scena letteraria italiana in un momento in cui ancora nessuno scrittore e nessuna scrittrice hanno raccontato il fenomeno mafioso in tutta la sua drammaticità. Era apparsa una commedia in dialetto, I mafiusi di la Vicarìa, scritta da Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto, e un testo per il teatro di Giovanni Alfredo Cesareo, intitolato Mafia. Si trattava però di opere concentrate soprattutto ad analizzare la manifestazione criminosa in termini di comparazione sociale con il mondo borghese, visto come termine di paragone assolutamente retto e pulito. Nessuno si era ancora sporcato le mani mettendo quel mondo torbido al centro dell’ingranaggio letterario nei termini di una quotidianità da cui non si può sfuggire, dominante e a tratti bestiale. Dove c’è la vigna di Casimiro Badalementi «non si odono voci né cigolii di carri, né picchiettii di zoccoli di bestie. (…) Se il vento è favorevole, ne arriva un ansimare fioco e tramortito come di persona soffocata da un bavaglio; un ansimare che, per non essere percorso da altre varianti di suono, diventa un’aggiunta di silenzio»: con un stile descrittivo, intenso, Livia De Stefani non lascia riprendere fiato e immerge il lettore in un’atmosfera asfissiante.
La durezza del personaggio di Casimiro s’intuisce già dal suo aspetto, «un uomo di media statura, non grasso, ma atticciato; il busto aveva simile a un pilastro, spalle e fianchi della stessa misura; e le gambe, piuttosto corte, fornite di robusti polpacci, gli si arcuavano in modo che i pantaloni sul davanti gli spiombavano pressoché vuoti e dal di dietro invece si riempivano, stirati in tondo dalle prominenti muscolosità. La testa, che su quel corpo avrebbe dovuto essere pesante, e di capelli ricciuti, era inaspettatamente piccola, stretta alle tempie da cui si partivano neri capelli lisci, e mobilissima su di un collo troppo sottile per quel tronco. Gli occhi, anche da giovane, li ebbe contornati da minuscole rughe, causate forse dal costante sforzo compiuto a mantenerli socchiusi, come per troppo sole».

La violenza che lo caratterizza mostra invece un crescendo morboso, nelle parole scelte per imporsi sugli altri e nell’indifferenza feroce verso i figli che ha sradicato con disinvoltura, per poi richiamarli a sé come bestie. Concetta, moglie e madre, sembra esistere solo per soccombere all’autorità del marito, privata di ogni prospettiva e di qualsiasi possibilità di arbitrio sui propri affetti, sugli spazi che abita, sul proprio corpo. Docilmente sottomessa non si ribella a Casimiro nemmeno quando la sua prepotenza raggiunge vertici fatali. Nel romanzo non sembra esistere riscatto, la lingua affilata di Livia De Stefani rintuzza la ferocia dei rapporti e del paesaggio, cancella il mare, le tempeste, il vento, la speranza.

Livia De Stefani

Al netto della riconoscibilità del fenomeno mafioso, letterariamente è un romanzo riuscito, dove l’ingranaggio narrativo procede senza intoppi fino al culmine finale supportato da una scrittura poderosa. Eppure di Livia De Stefani, nel Novecento, ci si è progressivamente dimenticati. I suoi libri sono andati gradualmente fuori catalogo, a eccezione di Viaggio di una sconosciuta ripubblicato da Cliquot nel 2018 e Gli affatturati da Elliot 2016, e ancora oggi, mentre scrivo queste righe, La vigna delle uve nere è reperibile solo in ISBN edizioni, in una versione stampata nel 2010 e le cui ultime copie in circolazione sono giacenze di magazzino: l’edizione precedente era quella di Mondadori seguita da una ristampa di Rizzoli e siamo alla fine degli anni Cinquanta. Come al solito, più che gli esiti di un processo e le risposte, trovo tuttavia molto più interessanti le domande: perché è accaduto e perché non si è ancora posto rimedio a questa marginalità?

Nell’ottobre 2018 Claudia Durastanti e Giorgia Tolfo firmavano un pezzo molto interessante, intitolato Il mio canone è meglio del tuo. L’occasione era la pubblicazione da parte della rivista Vulture di un abbozzo di canone del ventunesimo secolo, messo insieme da un gruppo di critici tutti appartenenti all’editoria middlebrow americana. Durastanti e Tolfo osservavano di aver letto quasi tutti i titoli proposti, e se il merito della lista poteva essere quello di parlare a più di una generazione e vari gruppi demografici era evidente un dato comune: era una lista che parlava sempre in inglese. A quel punto la prima considerazione da fare, al di là delle speculazioni filosofiche su cosa sia un canone in sé, era domandarsi quali fossero stati i parametri di composizione, quale il campo di scelta e chi i selezionatori, e di fatto, alla luce dell’identificazione del mercato editoriale americano come vero catalizzatore della lista di Vulture, era innegabile un dato: nella scelta di usare la parola canone si celava sempre un atto di imperialismo culturale, la cui diretta conseguenza è il consolidamento dell’indissolubile relazione tra mercato e prestigio letterario.

La questione sembra restare sostanzialmente questa: quello che abbiamo letto e che leggiamo è il risultato di una visibilità e se la visibilità è un riflesso del potere quel che non si vede rischia di scomparire. Il buco nero che ha inghiottito Livia De Stefani e La vigna di uve nere non è mai stata una faccenda di demerito così come il canone che l’ha esclusa dalla scena letteraria italiana non lo si può intendere come un’entità impalpabile che si genera in autonomia dalle scelte politiche e culturali di una nazione o di un gruppo: il canone si genera esattamente in corrispondenza di esse. Se queste scelte si possono discutere e modificare nel tempo, è un’opportunità che possiamo darci ogni giorno. I libri, anche i più invisibili, lasciano tracce e segni del loro passaggio e spesso si lasciano trovare anche nei coni d’ombra più fitti della storia. Come quello di Livia De Stefani, la prima scrittrice italiana a raccontare la mafia in un romanzo.



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immagine di copertina:
Uniq Trek tramite Unsplash
Livia De Stefani
fotografata da Paolo Monti