Comma 22

“Lottare contro l’inesprimibile”: Ocean Vuong e Ben Lerner, scrivere per vivere

«Sapere che la scrittura non sublima niente, non compensa niente, che è precisamente là dove tu non sei: è l’inizio della scrittura». Se Roland Barthes affida a questo stagno paradossale il principio creativo, trovarne la collocazione sembra esigere un movimento costante, per non esserci mai troppo coincidenti: usare il linguaggio come veicolo per uscire da sé o tornare a sé, per stare scomodi e randagi nel campo delle cose da dire, e nel campo delle parole che abbiamo a disposizione per dirle. Ma cosa succede se l’esperienza necessita di parole nuove, cosa se ciò a cui tendiamo vuole che le parole si spezzino per accettare di rivelarsi?

Ocean Vuong e Ben Lerner sono due narratori e poeti, che, a parte essere stati il primo l’allievo del secondo, hanno poche altre cose in comune – tra cui quella di aver scritto due romanzi importanti che possono contare in Italia sulle traduzioni complici e autorevoli di Claudia Durastanti (Vuong) e Martina Testa (Lerner).
Brevemente risplendiamo sulla terra (La nave di Teseo) di Ocean Vuong segna la sua prima opera in prosa, che raccoglie alcuni dei temi già anticipati nella raccolta poetica Cielo notturno con fori d’uscita: la storia di migrazione di Little Dog (il soprannome dell’autore) con la madre Rose e la nonna Lan dal Vietnam agli Stati Uniti; un’infanzia segnata dalla violenza, dall’emarginazione, dalla povertà; l’adolescenza, un corpo a corpo con la scoperta dell’amore e la droga che uccide i suoi amici . Un romanzo sul trauma, e più ancora sul terreno fertile e ferito che resta dopo l’esplosione del trauma.
In Topeka School (Sellerio), Ben Lerner intreccia invece le voci individuali di una famiglia, più o meno riconducibile a quella dell’autore, che ruota attorno a un istituto di psicologi di Topeka, Kansas, negli anni ’80 e ’90: Jonathan e Jane, entrambi ricercatori; il figlio Adam, campione nell’arte oratoria del dibattito e nel freestyle con il sogno di diventare un poeta; Darren, un compagno di Adam con problemi cognitivi e comportamentali, che assorbe e riverbera la violenza sotterranea di un’America eternamente adolescente.

Non c’è quasi nulla nella trama di questi due romanzi o nella struttura a renderli affini, se non una frammentazione della narrazione solo flebilmente simile, e un certo flirt con il coming of age e l’autofiction. Nulla nel filo biografico che entrambi annodano al vissuto dei loro autori. Nulla nemmeno negli esiti espressivi, che esasperano due diversi tentativi di fuga della scrittura: verso l’evocazione percettiva in Vuong, verso il nitore razionale in Lerner.  
Cosa determina allora il sentimento di una conversazione che nel lettore matura come un continuo sbandamento di richiami e di intenti? È, forse, la risposta che entrambi tentano di dare alla sfida che il passaggio di Barthes sembra porre implicitamente a chiunque scriva: la ricerca del luogo in cui non si è – un luogo che precede e soggiace alla scrittura, che non includendola la rende urgente – e che, nei casi di Vuong e Lerner, sfocia in una similare riflessione sul linguaggio.
Questa riflessione però procede nei due romanzi per vie distinte: se in Vuong si impasta alla stessa scrittura, in Lerner è piuttosto saldata alla storia, rivelandosi a lampi come la tesi – o come una tesi fra le altre – che il romanzo esplora.

Vuong

Brevemente risplendiamo sulla terra è una lunga lettera scritta da Ocean alla madre, una lettera che lei non potrà leggere, non avendo mai davvero imparato l’inglese. Rose lavora in un centro estetico di Hartford, Connecticut: uno dei tanti saloni di bellezza dove approdano le donne asiatiche sbarcate dagli aerei e in cui restano per anni, cucinando sul retro, inalando i fumi tossici dei solventi, spezzandosi la schiena e tenendo i bambini «finché le nostre mascelle non si ammorbidiranno attorno alle sillabe inglesi, chini sui libri di testo poggiati sui banchi della manicure». Imparare una lingua in un contesto lavorativo dove tutto ciò che ci si aspetta che tu dica è sorry, imparare una lingua in quartieri abitati da emigrati, in contesti sociali bloccati, impermeabili e immobili, non è necessario e quindi non è possibile. L’appropriazione dell’inglese da parte di Little Dog a scuola rappresenta allora una corda tesa per trascinarsi, con in spalla la madre e la nonna, fuori dall’esclusione sociale, esprimendo «la forza di spezzare un destino» (Emanuele Coccia). Ma rappresenta anche lo scongelamento storico e geografico in cui la lingua madre era confinata – estrapolata così dal suo paese d’origine e incapace di mescolarsi con quello d’arrivo, costretta dunque a dispiegarsi nella restaurazione del passato e nella ricorsività del trauma di cui è impregnata. Eppure questa appropriazione segna ancora qualcosa d’ulteriore: è la base per la rigenerazione di una forma linguistica che gli consenta di interpretare il presente e, al contempo, di lavorare sulla memoria, per arginarla e arrestarla, per comprenderla, «una volta mi hai detto che la memoria è una scelta. Ma se tu fossi dio, sapresti che è un’inondazione». Una soglia o una diga dunque, dove ogni singola parola è significativa, importante, perché «può fungere da capo della matassa in cui si avvolgono i ricordi delle nostre esperienze», scriveva Tullio De Mauro, e modellare allo stesso modo la forma della memoria futura.
C’è un passo di Topeka School che sembra raccontare con esattezza il romanzo di Vuong:

La sensazione di una storia inventata che ti crolla dentro. Una storia inventata di cui ti eri dimenticata la presenza. Armatura, travi, stecche, putrelle, giunture. Lasciano scoperto l’alburno, il legno giovane, segnato da bruciature di candela. Mezz’ora dopo eravamo alla tavola calda greca sulla Novantottesima con quella scatolina colorata da quattro soldi davanti a noi; (…) penso che sia una storia bellissima. Sulla famiglia, l’arte, la memoria e il significato, come si crea e si disfa. (…). Tutto il rifilare, il modellare, l’asciugare.

Brevemente risplendiamo sulla terra lavora proprio sul crearsi e disfarsi dell’esperienza e della sua narrazione e vi lavora dilatando il significante per raccogliere un vissuto incontenibile nei livelli di una lingua che non l’aveva previsto; o l’aveva previsto scartandone pezzi, privilegiando l’astrazione ed emarginando il lessico famigliare assieme a quello fisico, facendo sacrificio dell’accidente, dell’irregolarità, dell’errore.
Quale altra lingua se non una lingua ulteriore, allargata e indulgente potrebbe contenere l’esperienza della migrazione e del conflitto senza dissiparne il senso e le molteplici diramazioni? Se l’acquisizione di una lingua comune, come è stato per l’italiano nel dopoguerra, costituisce sempre una precondizione per l’equità sociale e l’emancipazione, bisognerebbe interrogarsi sulla tensione che esprime tanta letteratura contemporanea quando si dedica alla riscoperta della grammatica, al fascino delle lingue morte, all’espulsione della scorrettezza e dello scarto: quanta e quale inquietudine essa in realtà esprime verso le transizioni sociali in atto e gli spazi immaginifici che queste promuovono nella lingua? E quanto si dimostra in grado di accogliere tali transizioni, di difenderne le singolarità?
Quando Little Dog si innamora del suo amico Trevor, e scopre il desiderio e il sesso – e con questi l’esperienza della diversità, del segreto, della vergogna – matura in lui l’urgenza di un linguaggio che reclami tutto ciò che la lingua aveva scartato, che lo privilegi anzi, facendo del corpo – accidentale, irregolare, sbagliato – la grammatica di un nuovo discorso: «Trevor con una cicatrice a forma di virgola sul collo, sintassi perfetta per cosa viene dopo».
Un linguaggio in cui scivolare e da cui uscire, «un corpo intinto nella superficie di un fiume, forse ci stava entrando, forse ne stava uscendo», un fiume appunto (ve ne sono moltissimi, nel romanzo, a evocare atti di purificazione e di immersione nel buio irriducibile della coscienza) – «la pelle addosso cui sfregarsi», – attraverso cui poter tornare verso il luogo in cui contemporaneamente già si è ma si deve ancora andare, dove il sé è una storia più grande, quella di una madre e di una famiglia, del suo paese, della guerra: «Ti sto scrivendo da un corpo che un tempo è stato il tuo. Questo significa che sto scrivendo come un figlio»

Vuong

Se Vuong dunque colloca l’innesco letterario di Barthes nel livello espressivo (potremmo dire, nell’aspetto fisico della lingua), il romanzo di Ben Lerner – oltre a raccontare molte altre cose sulla psicanalisi, l’America contemporanea, l’influsso del capitalismo sulla salute mentale, la friabilità delle relazioni umane – sembra spiegarci puntualmente come Vuong abbia fatto, e come in generale si possa fare. In Lerner, infatti, il potere poietico è radicalizzato nel rapporto di ciascun personaggio con la propria lingua, esso sembra emergere quando la stabilità del parlato si spezza e prende forma una prosodia imperfetta, dove «chi parla può intralciare la sua stessa parola e dare senso anche al tacere» (De Mauro): nei luoghi, insomma, in cui il personaggio, in preda a uno stato euforico o sottoposto a stress, a paura, dolore, rompe la crosta linguistica ordinaria e accede a un livello più intimo del lógos, dell’esperienza e della memoria.
Nel passo citato di Lerner si parlava di una scatolina: come in Vuong la riflessione sul linguaggio sembra trovare il suo correlativo oggettivo nei fiumi, in Lerner lo trova nelle scatole. Scatole che nascondono un secondo livello, scatole che contengono mitologie famigliari e riscritture della maturità, scatole dove l’apertura non esaurisce il gesto che le riguarda, perché c’è altro e più all’interno su cui affacciarsi, un magma che ricorda il reale pre-linguistico di Lacan, quando decade l’ideologia della realtà linguistica.
Negli esercizi a cui Jonathan sottopone i suoi pazienti, nella terapia con l’amica Sima a cui Jane si affida, nelle emicranie di Adam, nel sopravvento della pura forma all’interno dei dibattiti scolastici e delle corsie dei supermercati («contenitori di plastica pieni di prove che, se lette abbastanza velocemente, in bocca tornano a essere altra roba: plastilina, poesia»), nella rottura di una relazione amorosa, nei traumi fisici, nei suoni post-verbali di un malato di Alzheimer, a un certo punto il corpo – un tic, un’accelerazione, un dolore – si fa “arma della risonanza” e segnala un’incrinatura, l’incrinatura diventa faglia, la parola emerge a segnalare non solo ciò che fino ad allora era indicibile, ma ciò che fino ad allora era inafferrabile: il luogo in cui non si era ancora arrivati, e da cui si era però già diramato il movimento di tutte le cose fuori da sé, il principio di sfaldamento che può divenire il principio della scrittura.
La scoperta della faglia sembra così rivelare anche la funzione rassicurante, e persino repressiva, che la lingua ordinaria ambiva a esercitare sui fenomeni in mutamento fino a un attimo prima: il controllo dei mezzi di definizione è sempre, nel privato come nel pubblico, un tentativo vano di contenimento del reale, fino a voler scongiurare lo stesso accadimento degli eventi («parlando impedisco le cose», Giorgio Vasta) a partire dai nomi che sceglieremo di darvi: «Pensavamo che possedendo un linguaggio per descrivere i nostri sentimenti avremmo potuto trascenderli. Molto più spesso in realtà li alimentavamo».

Vuong

Come è possibile allora, che nel tentativo di sottrarsi alla sorveglianza della lingua, si torni sempre e comunque alle parole per osare una presa sull’esperienza?
«Ogni pensiero è potenziato – acquista maggiore chiarezza, definizione, autorevolezza, per il solo fatto di essere stampato – cioè distaccato da chi lo ha pensato», scriveva Susan Sontag, ed è a questo stesso potere che sembra alludere Vuong: «È in questi momenti con te accanto che invidio le parole per essere capaci di fare quello che noi non sappiamo mai fare, sono capaci di dire tutto di sé rimanendosene ferme e basta, essendo e basta. Immagina se potessi sdraiarmi vicino a te e tutto il mio corpo, ogni sua cellula irradiasse un significato preciso chiaro e univoco». Il motore allora appare essere un’esigenza di sopravvivenza alla propria esistenza, un’urgenza di verbalizzare il moto cui siamo condannati: scrivere per vivere.
In Lerner invece l’impulso acquista la forma di una più esplicita rivalsa, la sottrazione ai meccanismi sociali e la sovversione dei registri culturali, la torsione letteraria di quel diritto individuale alla felicità che tanto permea la costituzione e la cultura americana:

Voleva fare il poeta perché le poesie erano incantesimi, erano suono in una forma ben precisa che disfacendo e ricreando il senso infliggeva e respingeva la violenza e ti rendeva famoso, o famoso per essere stato cancellato, e poteva avere altri effetti sui corpi: farli addormentare o svegliarli, provocare lacrime o altre forme di lubrificazione, gonfiori, il sollevarsi di piccoli peli.

Non sorprende che sia la poesia – esercitata da Vuong nello stile, invocata nel desiderio del protagonista di Lerner – a essere il luogo dove la ricerca di sé confluisce, o meglio dove il sé sgorga, e non solamente perché Ben Lerner e Ocean Vuong sono stati prima e sono ancora poeti. Piuttosto perché la poesia è un luogo vasto e flessibile, dal potere magico e corporeo, l’emblema del punto in cui la lingua accoglie l’io nella sua irriducibile complessità, riuscendo a dirne l’impossibile e a tacere il già noto. Ma quasi mai il fare poetico, pur zampillando da un’esigenza individuale, mira a restarvi confinato. Il fare poetico è un esploratore ottocentesco che parte da solo per le terre dei ghiacci, e apre col corpo, col fiato, con fede pari a disperazione, un nuovo orizzonte di senso perché tutti possiamo «lentamente reimparare a parlare».





Photo credit: Richard Serra, East-West/West-East