Comma 22

La poesia o è ispirata o non vale niente. Amelia Rosselli, poetessa della visione e del vero



«the leaves are crushing the wind»
Amelia Rosselli


Amelia Rosselli è diventata una poetessa italiana dopo aver scritto La libellula, a ventotto anni, nel 1958, chiedendo la nazionalità italiana e abbandonando l’inglese e il francese, sue lingue di adozione, che le hanno ispirato i primi versi. Circa vent’anni prima, a Parigi, suo padre e suo zio, Carlo e Nello Rosselli, venivano pugnalati a morte da un gruppo di sicari fascisti della Cagoule, un’organizzazione parafascista francese. Amelia aveva sette anni. «Sapete che cosa vuol dire la parola assassinio?» chiede a lei e al fratello minore la madre, Marion. Amelia risponde di sì, e non ricorda altro: così ha saputo della morte del padre e dello zio. Nel 1958 Amelia Rosselli ha dunque ventotto anni, ed è orfana: sua madre è morta a Londra nel 1949. Non si riprenderà mai dall’assassinio del padre e dalla morte precoce della madre, vivendo fino alla vecchiaia e al suicidio fra depressioni e manie di persecuzione e talvolta deliri, talvolta follie. Amelia Rosselli, forse la maggiore poetessa italiana del secondo Novecento, è sempre stata un apolide, un’esclusa, un paria dell’intelletto e del verso che grazie alla parola e nella parola, nello studio anche musicale e ritmico del proprio verseggiare, ha saputo e potuto salvarsi, trovare un senso artistico e perfino sentimentale, cioè biografico, alla propria esistenza: e pure questo rende grande la sua poesia.

La libellula, un poemetto sottotitolato Panegirico della Libertà, consta di 652 versi, per un totale di 28 strofe. È un libello (la parola libellula si lega sia a libertà che a libello, scrive Rosselli) con delle geometrie metriche particolarissime, che alterna iterazioni ed enjambements e immagini irrazionali e vivissime ad accavallamenti dell’Io e dell’Altro, che ne La libellula è anche Amore o ricerca dell’Amore, cioè dell’Uomo, del «deo dalle fulvide chiome», del «tu». La libellula è un canto d’amore e di follia, o meglio un canto d’amore che si muove fra lo spavento della ragione e il fascino della follia («E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò / stancata e ebete in un largo pozzo di paura / mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti, / mi spinse alla porta della follia») e allucinazioni e parole e immagini che si rincorrono e si ripetono lungo tutto il poema. Leggerlo significa perdersi, appartenere emozionalmente e sonoramente al verso, sentirsi attraversati e penetrati dalle parole e dalle visioni di Amelia Rosselli che scrive e che canta e soffre e ama e delira, mentre il lettore (noi) legge e ascolta e soffre e ama e delira con lei. La libellula è un poema che coinvolge tutti i sensi del lettore, estenuandolo meravigliosamente, come estenua o sembra estenuare lo scrivente, l’ «io» , il poeta Amelia Rosselli che scrive e che urla, anche se in realtà l’elaborazione apparentemente enfatica dei versi è un processo quasi scientifico, per l’autrice, il risultato di anni e anni di studi musicali e metrici che trova il suo senso ultimo in un testo che è anche istintivo, improvvisato dal furore di parole che paiono scriversi (e leggersi e correggersi) da sole, dettate dalle Muse al poeta e al lettore e perciò poeticamente più autentiche. Amelia Rosselli è infatti, oltre che una poetessa, una musicologa, e nei suoi versi migliori si sente per l’appunto la ricerca continua e insistente di una nuova “musica”, di un verbo che sia innanzitutto suono e ritmo e poi visione, poi significato. Il suo scrivere coniuga l’esperienza, cioè lo studio metrico, allo sperimentalismo, cioè all’istinto artistico, per una poesia che sia sempre ricerca e scoperta e incanto e verità e che travolga non soltanto il lettore ma perfino lei stessa, l’Amelia Rosselli che scrive e che canta, anche al di là del significato delle parole, spingendola verso e oltre l’irrazionale, cercando il proprio fulvido deo o l’Ortensia di Arthur Rimbaud o l’Esterina di Eugenio Montale o l’uomo che fugge e il suo sangue «già imbrattato di amore» o la luna che pende o le chimere risuonanti e urlanti dell’amato Dino Campana. Eppure Amelia Rosselli è anche una poetessa del “controllo”, che sa frenare e dosare sapientemente la propria arte, le proprie visioni, cosa che molti imitatori e imitatrici della sua poesia non sembrano purtroppo aver capito. Non basta avere visioni per trasmetterle sulla pagina, né alternare immagini più o meno insensate per avvicinarsi all’incantata e esatta insensatezza de La libellula, come non basta visitare (o credere di visitare) l’inferno del Sé e dell’Altro e dell’Altrove per scriverne come Arthur Rimbaud.

Amelia Rosselli

La poesia di Amelia Rosselli è una ricerca perpetua che esige al tempo stesso l’urlo e il bisbiglio e la mancanza di fiato e a tratti la trascendenza, l’impossibilità di dire a voce ciò che si sente nell’animo, ossia la parola più profonda e vera del vero poeta. Lei stessa racconta, in una delle sue ultime interviste, di non riuscire a leggere La libellula come si dovrebbe, «per ragioni di fiato», di non poter rendere a voce il senso della poesia, che alcuni attori, dice, sanno invece rendere appieno (recentemente una delle letture più belle e autentiche de La libellula è quella di Rosaria Lo Russo, inclusa ne La furia dei venti contrari, splendido volume dedicato a Amelia Rosselli). La lettura della poesia rosselliana, che sia solitaria o pubblica, implica spesse volte un estenuarsi del verbo, fino all’insostenibile, all’urlo e al delirio e all’incanto e alla disperazione, per una visionarietà che coinvolga e sconvolga ogni senso del lettore e che tuttavia al lettore appartenga, che il lettore possa sentire vicina e possibile e quindi reale, quindi propria. Ne La libellula, come in Variazioni belliche e in alcuni brani di Serie ospedaliera e di Documento o nelle strofe più “lente” di Impromptu e nei versi inglesi di Sleep, c’è una simbiosi fra il poeta e il lettore, che poeta diventa, sovrapponendo il proprio io all’estenuato e estenuante io di Amelia Rosselli. Il senso anche politico o autobiografico del poemetto, con la «santità dei santi padri», cioè di Pio XII che muore nel 1958, mentre Amelia scrive, e «le misere salme dei nostri morti», cioè di Carlo e di Nello Rosselli, passa in secondo piano rispetto alla visionarietà dei versi, al dire e all’urlare del poeta che vede e che soffre e che ama e si dispera e soprattutto che si racconta. La libellula è quasi un’esperienza fisica, che stende la poetessa (e di conseguenza il lettore, che poetessa diviene) a terra, «incapace di muovere, stanca all’alba, incapace la sera: e l’agonia sempre più viva». È una poesia del dolore e dell’incanto che attraverso il dolore e l’incanto e le visioni e lo sgomento del proprio dirsi diventa realtà, verità, ossia vero dolore e vero incanto per il lettore e per lo scrivente, per il poeta che legge o che si legge o che scrive e che si scrive.

«Chi non scrive poesia non può immaginare quali difficili studi si facciano per comporre» ha detto Amelia Rosselli in un’intervista, un anno prima di morire suicida, «anche vivendo con quattro soldi e anche se rimane il principio che la poesia o è ispirata o non vale niente». La poesia o è ispirata o non vale niente, avverte Amelia, e dunque il poeta deve pure saper tacere, oltre che saper scrivere, e soprattutto deve saper riconoscere il momento di mettersi a scrivere, affinché la sua ricerca sia più profonda e sentita, anche strutturalmente, congiungendo la poesia alle altre arti, alla pittura o alla musica, per esempio; e così la dodecafonia schönbergiana si lega a molti versi rosselliani, che isolano le parole nel silenzio della pagina come si isolano le note cromatiche nel silenzio del sistema/spartito musicale – si pensi specialmente ai versi di Sleep.

Amelia Rosselli scrive soltanto quando ha qualcosa di nuovo da dire e un metodo inedito per dirlo, ovvero una poesia che non sia ancora stata scritta, come La libellula, appunto. «Quando non c’è qualcosa di assolutamente nuovo da dire, il poeta della ricerca non scrive» spiega a Sandra Petrignani nel 1978, vent’anni dopo aver scritto La libellula. «Non mi riconosco più scrittrice da cinque anni. Non sento di avere talento, ora. È come non riuscire a parlare una lingua. È terribile». Quindi scrivere, poetare, per Rosselli è parlare e scoprire una lingua altrimenti non detta, un linguaggio che soltanto dal poeta e dal suo sentire dipende e che soltanto attraverso il poeta può venire alla luce, cioè sulla pagina; e tacere è non riuscire a parlare quella lingua, pur sapendone l’esistenza e dunque la possibilità di espressione dentro di sé, una possibilità di poesia. Amelia Rosselli ha nei confronti dello scrivere un atteggiamento quasi sensoriale, da medium; è sempre in attesa di una qualche rivelazione che possa legarsi ai suoi ritmi poetici, unendo i suoi studi metrici all’ispirazione e all’istinto del verso, che pure non è mai libero e che anzi si scandisce e costringe in particolari strutture e geometrie. Da ultimo, per concludere questo breve esercizio di ammirazione rosselliano, Amelia Rosselli è una poetessa al tempo stesso della visione e del vero, che espande il senso anche linguistico e musicale che diamo alle sue e alle nostre allucinazioni e alle sue e alle nostre incantate e incantevoli verità.



Illustrazione di copertina: Daniel Valsesia