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La parte sbagliata. Storia di una formazione al contrario

La parte sbagliata è il romanzo d’esordio di Davide Coppo, pubblicato da Edizioni E\O

La parte sbagliata (Edizioni E\O), esordio di Davide Coppo, è un romanzo esistenzialista
La storia di Ettore ha punti di contatto con quella di Luciano Fleurier, il protagonista di “Infanzia di un capo”, uno dei cinque racconti de Il Muro (1939) di Jean Paul Sartre. Entrambi  alle prese con un mondo a loro estraneo, a volte ostile. Ettore, di buona famiglia, approda al Beccaria, storico liceo classico di Milano e, sperduto, finirà per aderire a un gruppo neofascista, ha gli stessi dubbi di Luciano, rampollo di una ricca dinastia di provincia.

Dice Ettore: «Durante le scuole medie non mi consideravo né debole né isolato, ma in quei primi mesi di liceo era cambiata la direzione magnetica della mia bussola interiore. Ero sempre stato un bambino mediamente popolare in modo naturale, cioè non troppo, come quelli naturalmente nati per essere dei leader, né troppo poco, come i condannati, spesso consapevoli, alle prime file dei banchi (…), non avevo mai avuto nessuna grande passione, né per lo studio, né per altri lati della vita. Vivevo così, perché siamo qui e quindi ci tocca vivere». E Luciano: «Sono un bravo scolaro. No. È solo apparenza: un bravo scolaro ama lo studio e io no. Ho buoni voti ma non mi piace lo studio. Neppure lo detesto, me ne infischio. Mi infischio di tutto».

La svolta nella formazione di Ettore avviene quando conosce Giulio e con lui comincia a frequentare la Federazione. Quella di Luciano quando entra nella Lega. Il fascismo aiuta Ettore a trovare una strada qualunque nel deserto affettivo della sua vita, l’antisemitismo permette a Luciano di costruirsi un’identità. I due ragazzi si riconoscono nell’odio. «L’odio sarebbe arrivato dopo» dice Ettore, «perché una comunità va comunque alimentata e un sentimento così forte è il migliore dei mangimi». Luciano entra una mattina in un caffè, affollato di ebrei e, riconoscendo il suo odio, riconosce sé stesso. 

La parte sbagliata

Tutto il romanzo di Davide Coppo è attraversato da una profonda malinconia che a volte è insoddisfazione, altre è noia. Nella confusione che lo affligge, cerca risposte alle sue domande in testi di autori ritenuti fascisti, in particolare cita Drieu La Rochelle, e di Ettore si potrebbe dire, fatte le dovute distinzioni, quel che Celine scrisse di La Rochelle: «Non è un venduto, non ne ha il comodo cinismo. È arrivato al nazismo per affinità elettiva: al fondo del suo cuore come al fondo del nazismo c’è l’odio di sé». 

Non si può tuttavia dire che Ettore odi profondamente sé stesso. Il suo atteggiamento nei confronti della vita ricorda la filosofia esistenzialista degli anni ’50: lui al centro ma afflitto dalla precarietà, dall’insensatezza, dall’assurdo dell’esistenza umana. Si sente “senza radici” ed è preso dalla smania di trovare “un’origine alle cose”. Ascolta e riascolta una canzonetta lugubre sulla rivoluzione ungherese del ’56: uno studente che partecipava alla rivolta contro i sovietici dice a una studentessa del suo stesso partito: «”Ragazza non dire a mia madre / che io morirò questa sera / ma dille che vado in montagna / e che tornerò a primavera”. Mandavo indietro più volte la canzone sempre su quella frase, perché volevo piangere di più, volevo svuotarmi fino alla fine dalle lacrime e dalla tristezza, fino a essere scosso dai singhiozzi. Cercavo una purificazione, una pace, che andava ben al di là di quella canzonetta». 

La madre gli dice «fascista di merda» ma lui non fa una piega, anzi: «Non mi offendi mica», oppresso da uno spleen che lo rende incapace di adeguarsi alla realtà, tra finte fughe da casa, rapporti sessuali senza passione, «vaghezza, valori come luci da guardare nel buio, lontane». Perché si diventa fascisti a quattordici, quindici anni?, si chiede a un certo punto il protagonista. Coltivando l’odio, perché «non è vero che l’odio si combatte con la lettura e l’istruzione, che è un sentimento primordiale e così via». Ma a lui e a  Luciano l’odio non è mai cresciuto «naturalmente dentro», la sua composizione cromosomica non consentiva «di svilupparlo», si devono perciò impegnare a nutrirlo, a tenerlo vivo.

L’educazione al fascismo che Ettore impone a sé stesso lo fa a tratti ruvido, sottoponendolo alle esigenze spietate di quell’addestramento. Scriveva Adorno in Minima moralia a proposito della tecnicizzazione che rende le mosse brutali e così gli uomini: «Così si disimpara a chiudere piano una porta. (…) Non si fa giustizia al nuovo tipo umano senza la coscienza di ciò che subisce continuamente dalle cose del mondo circostante».

Per due volte, nel libro, Ettore esce da una stanza chiudendo piano la porta («Sono uscito, ho chiuso la porta appoggiandola piano», «Ho chiuso la porta, sempre con gentilezza»). Resta cioè un animo gentile, uno che piange spesso «e per ogni sciocchezza», uno che non aveva avuto un ruolo «in niente, nella vita», con una tendenza alla solitudine che i pochi amici, Alessandro, Dodo, Gabrielino, non scalfiscono; che cerca in Giulio «una voce paterna» (in una scena Ettore è sul sedile dietro del motorino di Giulio e questo lo rinvia a «un’infanzia lontana» quando, sulla Vespa del papà, Ettore gli abbracciava «la pancia, senza stringere troppo»), che voleva «un tipo particolare di bene a quei ragazzi violenti, e pensavo che anche loro ne volevano a me».

Rispetto all’autobiografia di Giorgia Meloni, che ha solo nove anni in più di Davide Coppo («A quindici anni non si hanno ancora gli strumenti per distinguere con precisione le diverse tesi che animano la politica, l’appartenenza a un’area piuttosto che a un’altra è un fatto di puro istinto, una specie di affinità elettiva. E così aprii l’elenco del telefono e chiamai la sede del MSI» scrive Giorgia), il romanzo di formazione di Coppo ci consegna il ritratto di un giovane che diventa fascista perché è un debole, mentre Io sono Giorgia è l’apoteosi della rabbia motrice che porterà l’underdog a essere quello che oggi è.

Spleen contro rabbia, debolezza contro voglia di vincere: Ettore somiglia più al Luciano del Muro che alla Giorgia della Garbatella, che ha iniziato a fare politica iscrivendosi per davvero a quindici anni, non nella finzione, e “per puro istinto”, al partito fondato dai reduci della Repubblica di Salò. Ettore e Luciano saranno uniti nel destino anche alla fine: un’arma – un coltello per Ettore, una pistola per Luciano – come l’ultima possibilità di toccare il fondo per risalire. Se il nulla è la norma e l’uomo la vittima, ci vuole una catastrofe come ultima strada da prendere, dopo che «i bivi, di volta in volta, mi avevano condotto a un senso unico, anzi: a una strada senza uscita». Perché, conclude Ettore: «Le catastrofi sono tavole apparecchiate con cura, non improvvisazioni di un giorno nato sbagliato».


Immagine di copertina di Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784
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