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Il poeta impossibile. Walter Scott e Thomas the Rhymer





1. Impossibile

Quando si legge un libro, capita talvolta d’incontrare un protagonista che risulta essere, per una ragione o per l’altra, più o meno improbabile: abbiamo visconti dimezzati e cavalieri inesistenti; incivili maestri di cerimonie e assassini disinteressati; baroni che cavalcano palle di cannone e viaggiatori che approdano a isole volanti.
Per aggiungere una figura nuova a questa breve lista, che rimane del tutto incompleta, ecco la storia di un poeta impossibile, e dell’uomo che gli ha dato un’esistenza reale.

2. Thomas the Rhymer

Siamo sul finire del XIII secolo, nel sud della Scozia, e una vecchia ballata racconta che un uomo, uno di quei poeti che cantavano storie di dame e cavalieri accompagnandosi con l’arpa, stava camminando nei pressi di Eildon Hill, una bassa montagna vicino all’abbazia di Melrose. Si chiamava Thomas, Thomas the Rhymer, il Rimatore; ma poiché si dice che fosse nato a Erceldoune, l’odierna Earlston, era noto anche come Thomas di Erceldoune.
Mentre dunque camminava, lungo il pendio di Eildon Hill vide cavalcare una donna; portava una tunica verde di seta e un mantello di raffinato velluto; gli si avvicinava, ed era bellissima.
«La regina dei cieli», disse Thomas, rapito, levandosi di testa il berretto.
«No, Thomas, non è questo il mio nome. – rispose – Altra non sono che la regina delle fate, e sono venuta fin qui per incontrare proprio te. Suona e canta per me, Thomas, suona e canta con me; e se bacerai le mie labbra, se ne avrai il coraggio, sarò tutta tua, del tuo corpo e tu del mio».
Non ebbe paura, e si baciarono.
«Ora vieni con me, Thomas; mi servirai per sette anni nel bene e nel male, secondo quanto accadrà».
Montò sul suo cavallo bianco come il latte, prendendosi Thomas appresso, e corsero insieme più veloci del vento, fino a un luogo disabitato oltre fiumi di sangue, lasciandosi indietro la terra dei viventi.
Raggiunsero infine un albero, un melo; la regina colse un frutto e glielo offrì in ricompensa:
«Mangialo, Thomas, e la tua lingua non potrà  più mentire».
«La mia lingua è mia – replicò Thomas – che gran regalo mi date! Non potrò più concludere affari al mercato; non riuscirò più a parlare con un principe o un lord; e nemmeno a chiedere le grazie di una bella donna».
«Zitto, – rispose lei – perché come ho detto, così sarà».
Per sette anni infatti rimase con lei, senza più essere visto nel mondo che noi conosciamo.
Ma infine tornò, e davvero la sua lingua non sapeva più mentire. Anzi poteva dire in anticipo quanto il futuro ancora nascondeva. Aveva il dono della preveggenza, e riprese a vagabondare per la Scozia come un tempo, e invece che raccontare di dame e cavalieri leggeva il futuro ai principi e ai lord. Per questo veniva ora chiamato True Thomas, Thomas il Vero.
La storia di Thomas è leggenda, è come una fiaba: tramandata a voce, rimase fissata in un testo scritto soltanto dopo secoli di recite orali.

Portrait of Sir Walter Scott and his dogs, Henry Raeburn

3. Intimità

Un manoscritto medievale, che si trova in una biblioteca di Edimburgo, ci racconta un’altra storia, quella di Tristano e Isotta. È il più antico testo conosciuto in lingua inglese su questo argomento. È un poema in una forma metrica piuttosto complicata: oltre trecento stanze di undici versi a rima alterna, divise in una fronte di otto e una coda di tre. Ed è un testimone, oltre che unico, quasi integro: manca una manciata di versi, ma per il resto c’è tutto, ciò che lo rende d’immensa importanza per la conoscenza della storia.
Si può seguire così l’avventura di Tristano dalla nascita fin quasi alla fine: l’intreccio del suo legame proibito con Isotta, l’effetto del filtro d’amore bevuto per errore dai due, e le vicende di entrambi che s’incontrano con quelle dei loro cani, e poi draghi, giganti, re, damigelle e principesse.
Solo Cristo è assente, se non per sporadiche invocazioni che non hanno un vero legame con il poema.
Eppure il manoscritto, probabilmente composto in Inghilterra, risale alla prima metà del XIV secolo, a quanto si capisce dalla materia e dalla scrittura.
Eppure il manoscritto non fu mai pubblicato prima del 1804; era noto e consultato dai maggiori fra gli studiosi britannici del XVIII secolo: nomi che oggi comunemente non si ricordano, ma che all’epoca erano celebri per dottrina e spirito critico. Ne conoscevano bene il valore, ma nessuno lo volle portare a stampa prima che quell’anno, finalmente, Walter Scott si decidesse a farne un’edizione compiuta, uscita dalla tipografia dell’amico e collaboratore James Ballantyne sotto il titolo di Sir Tristrem.
L’attesa, a quanto pare, non era dovuta alla sostanziale assenza di simboli cristiani, come per reazione a un sentimento religioso che si sentiva offeso; e nemmeno perché il testo fosse troppo difficile da decifrare e intendere; o perché quel tipo di racconto fosse privo d’interesse.
L’attesa fu causata dal pudore di quei dotti antiquari. Perché a un certo punto del poema, più o meno a tre quarti della vicenda, nel mezzo di una scena d’azione capita che a Isotta si sollevi la gonna, e

«la figa le vedono i cavalieri
nuda, lassù sopra il ginocchio».

Proprio così, senza girarci intorno. E questo pareva troppo da mettere per iscritto, in quel mondo di cicisbei invecchiati; e in verità, a leggere certe traduzioni che s’imbarcano in complicate perifrasi, viene quasi da pensare che paia troppo ancor oggi.
Dopo una lunga serie di desistenze, si dovette dunque attendere quel 1804 per vedere Sir Tristrem in libreria: ma persino l’edizione di Scott, in quel punto così intimo, riportava al posto della parola incriminata, queynt (inglese moderno cunt), una serie di pudibondi asterischi voluti dall’editore Archibald Constable.
Va però detto a merito di Scott, del suo genio e della sua generosità, che fece tirare una dozzina di copie integrali del libro, senza omissioni e fuori commercio, che regalò agli amici.
E a partire dalla seconda edizione, pubblicata nel 1806, vincendo ogni residua resistenza restituì il poema alla sua anatomica completezza.

4. L’incantatore del Nord

Un lettore serio non si ferma alla prima parola che incontra. Così l’interesse di Scott si applicò anche in altre direzioni: la lingua del testo, la composizione del manoscritto, la tradizione orale che doveva averlo preceduto. In un passo memorabile dell’introduzione, ad esempio, Scott sostiene che il racconto fosse stato compilato sulla base di antichissime «tradizioni celtiche, che ancora aleggiavano tra gli uomini dell’epoca».
E ancora si dedicò al riconoscimento dell’autore. Il poema si presenta senza intitolazione, e dunque senza alcun cenno a un responsabile dello scritto. Ma i primi versi, nei quali l’anonimo estensore parla in prima persona, dicono:

«Sono stato a Erceldoune,
lì ho parlato con Thomas
e l’ho sentito raccontare
di chi diede la vita a Tristrem,
di chi fu incoronato re,
di chi lo fece crescere,
e di chi fu cavaliere coraggioso
com’erano stati i loro antenati.
Anno dopo anno,
Thomas racconta in città
queste avventure, così come accaddero».

La persona che all’inizio del XIV secolo compose il testo che stiamo leggendo, lo stesso testo che anche Walter Scott aveva di fronte a sé nel manoscritto di Edimburgo, racconta di essere stata tempo addietro a Erceldoune, di avervi incontrato un uomo di nome Thomas, e di avere ascoltato da lui il racconto di Tristano e Isotta che ogni anno declamava al pubblico della sua città. È difficile nascondere l’emozione, perché viene naturale pensare al personaggio della ballata scozzese, all’uomo leggendario che avrebbe incontrato la regina delle fate. Ma è anche difficile non cedere allo scetticismo: «Favole», viene da pensare, «si tratterà di una finzione letteraria».
È Walter Scott a salvarci dalla nostra incredulità, con una mossa che ha dell’eccezionale, rendendo reale l’impossibile.
Nell’introduzione, accanto all’analisi del testo e alle speculazioni storiche e linguistiche, al dubbio stesso che la diffrazione fra scrittore e autore fosse un ambiguo gioco letterario, Walter Scott pubblica un documento trascritto da un vecchio registro della chiesa della Trinità di Soutra, nel sud della Scozia. È una lettera datata «il primo martedì dopo il giorno dei santi Simone e Giuda, 1299». Siamo dunque nell’autunno inoltrato di quell’anno, e il mittente dichiara di donare parte dei suoi beni alla comunità agostiniana che regge la piccola chiesa. L’autore della lettera si definisce con queste parole: «Thomas di Erceldoune, figlio ed erede di Thomas the Rhymer di Erceldoune».
Dunque, conclude Scott, Thomas the Rhymer era realmente esistito: morto prima del 1299, entro quell’anno aveva vissuto, e aveva composto e recitato canzoni di antichissimi eroi; fra queste, anche la storia di Sir Tristrem e dell’amata Isotta, quella storia che uno sconosciuto ebbe occasione di ascoltare e mettere per iscritto, in modo che anche noi potessimo infine leggerla. L’ipotesi dell’irrealtà era diventata finalmente possibile.
Così Scott, che pure avrebbe in seguito nascosto di essere l’autore dei propri romanzi, poteva orgogliosamente dichiarare, nel frontespizio della sua edizione di Sir Tristrem, che Thomas di Erceldoune era il padre di quella storia, «un romanzo in versi del Tredicesimo secolo».
Non sarà quindi a torto che Walter Scott, colui che diede vita a un uomo delle fiabe, poeta egli stesso, capace di trasformare in racconto un’opera di filologia, fosse chiamato dai suoi contemporanei «l’incantatore del Nord».

Veduta di Eildon Hill, detta “Scott’s View”

5. Nota bibliografica

Le più antiche versioni manoscritte della ballata di Thomas the Rhymer (o Tomas the Rymour) risalgono solo al XVIII secolo, mentre la prima edizione a stampa si deve, non a caso, a Walter Scott (1771-1832): Minstrelsy of the Scottish Border, II, Edinburgh, Ballantyne, 1803, pp. 269-73. Esistono diverse versioni messe in musica, sia su melodie tradizionali sia in versioni folk-rock.
Il manoscritto testimone unico di Sir Tristrem è noto come Auchinleck manuscript, dal nome di Alexander Boswell, Lord Auchinleck (1706-1782), che lo donò alla Advocates Library di Edimburgo. È oggi conservato alla National Library of Scotland, Adv. ms. 19.2.1.
Nel corso del XVIII secolo si erano cimentati con il manoscritto, nell’ordine, Joseph Ritson (1752-1806) e George Ellis (1753-1815): Arthur Johnston, Enchanted Ground. The Study of Medieval Romance in the Eighteenth Century, London, University of London, 1964.
Walter Scott ebbe liberamente accesso al manoscritto, pubblicando il poema su Tristano e Isotta (Tristrem e Ysonde nel testo), come Sir Tristrem. A metrical Romance of the Thirteenth Century, by Thomas of Erceldoune called the Rhymer, Edinburgh, Constable, 1804. Personalmente, possiedo una copia della seconda edizione del 1806.
Si tende spesso a mettere in evidenza le debolezze dell’edizione di Scott: Stuart Kelly, Scott-Land. The Man who invented a Nation, Edinburgh, Polygon, 2010, pp. 64-66. La sua lettura ha senz’altro più di un limite: con una certa scaltrezza nazionalistica, Scott sosteneva per esempio che tutte le versioni medievali di Tristano e Isotta fossero successive a questa, e che la lingua dell’intera letteratura inglese rinascimentale fosse derivata da quella in uso in Scozia alla fine del XIII secolo (una posizione in seguito abbandonata dallo stesso Scott). Ma numerosi degli elementi fondanti la sua interpretazione sono di assoluto interesse: l’eredità  celtica dei luoghi, della vicenda e dei personaggi (Introduction, pp. xxvi, liv, che possono accostarsi con qualche interesse a certe posizioni della moderna filologia romanza a partire almeno da Gaston Paris nella seconda metà  del XIX secolo, o alle più recenti tesi di continuità fra cultura celtica e poesia medievale: si vedano in questo senso almeno F. Benozzo, Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda, «Francofonia», 33, anno 1997, pp. 105-130; Id., La tradizione smarrita. Le origini non scritte delle letterature romanze, Roma, Viella, 2007, con ampia bibliografia); la distinzione fra autore del poema recitato oralmente e autore dell’opera fissata per essere scritta (pp. lxix, lxxviii); la collocazione in Inghilterra della realizzazione materiale del manoscritto (p. civ).
Le traduzioni sono state condotte ex novo sul testo costituito da Scott, con l’ausilio dell’edizione più recente dotata di versione italiana: Sir Tristrem. La storia di Tristano in Inghilterra, a cura di Claire Fennell, Milano, Luni, 2000.
L’appellativo di «incantatore del Nord», «Wizard of the North», fu attribuito già in vita a Walter Scott. Niente avrebbe potuto essere più appropriato per chi sapeva scorgere l’uomo consegnato alla leggenda, senza uccidere la leggenda.
Al manoscritto di Sir Tristrem, si diceva, manca una piccola parte: si tratta degli ultimi versi, ed è quindi impossibile leggerne la conclusione. La lacuna fu sanata da Scott, che propose una sorta di restauro integrativo aggiungendo all’edizione un finale da lui scritto nella lingua e nel metro dell’originale. Quel finale prefigurava in qualche modo i poemi e i romanzi storici con i quali Scott avrebbe infine dato una nuova forma all’arte narrativa dell’età contemporanea.
La prima edizione di Waverley esce a Edimburgo dieci anni esatti dopo quella di Sir Tristrem, nel 1814.





In copertina: Portrait of Sir Walter Scott and his dogs, Henry Raeburn

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