1. Maestro d’inganni
Se anche esistesse un registro anagrafico del mondo, sarebbe certamente difficile stabilire una data univoca per la nascita della Storia. La Storia: questa capacità di concepire l’esistenza di donne e di uomini, di animali e perfino di oggetti come una serie di eventi e personaggi collegati da una trama di connessioni; probabilmente non è nemmeno scaturita in un solo tempo, in un unico luogo.
Se non è lecito individuarne la nascita anagrafica, è però possibile, almeno secondo Hannah Arendt, riconoscere il momento esatto della sua nascita poetica.
È quando Ulisse, il maestro d’inganni dei poemi di Omero, siede alla corte del re dei Feaci: lì, durante un banchetto imbandito in suo onore, ascolta la storia delle sue stesse imprese narrata dal cantore Demodoco; si commuove; la storia della sua vita diventa qualcosa che esce dalla sua persona, un racconto esposto alle sue orecchie come a quelle di tutti i commensali.
È una storia raccontata in un libro, l’Odissea, ma che è avvenuta all’esterno di quel testo. Quasi in un’altra vita.
2. Cavaliere dalla trista figura
Qualcosa di simile accade a un altro eroe della letteratura, Don Chisciotte della Mancia, il cavaliere dalla trista figura che è personaggio noto quanto il suo astuto e lontano predecessore, se non più.
Siamo nella seconda delle due parti di cui si compone il suo romanzo. L’autore, l’avventuroso Miguel de Cervantes, aveva pubblicato il primo volume nel 1605, fingendo che l’intera vicenda fosse stata trovata nel manoscritto di un immaginario storico arabo, Cide Hamete Benengeli.
A distanza di dieci anni, nel 1615, esce ora il secondo tomo. Nel trentesimo capitolo, nell’ampio spazio aperto di un prato verdeggiante al limitare di un bosco, Don Chisciotte e il fedele scudiero Sancho Panza incontrano una bella donna a cavallo, elegantissima, intenta in una battuta di caccia con il falcone. È la Duchessa. Don Chisciotte, da cavaliere qual è, non può esimersi dall’omaggiare la dama, e invia lo scudiero a offrirle i suoi galanti servizi.
Sancho la raggiunge, s’inginocchia e compie l’annuncio.
La Duchessa ascolta e gli chiede di alzarsi, perché «non è giusto che stia inginocchiato lo scudiero di un così grande cavaliere, com’è quello dalla trista figura di cui tanto si è sentito parlare». E prosegue chiedendo:
«Questo vostro signore non è forse quello di cui gira stampata una storia intitolata El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, che ha per signora del suo cuore una certa Dulcinea del Toboso?».
È una domanda che all’improvviso trasforma la natura stessa del libro che stiamo leggendo: non è più la seconda parte di un romanzo, ma una storia che ne comprende un’altra; oppure è la prima parte che precipita in questa seconda, e ne viene all’improvviso contenuta. Una storia dentro un’altra storia.
E infatti Sancho risponde alla Duchessa:
«È proprio lui, signora, e quel suo scudiero sono io… a meno che mi abbiano scambiato nella culla… cioè, volevo dire, nella stampa».
3. Secco come polvere
Walter Scott (1771-1832) era un grande ammiratore di Cervantes. Le allusioni allo scrittore castigliano non mancano nella sua narrativa, fin dal primo romanzo, Waverley (1814), pubblicato quando Scott aveva ormai raggiunto i quarantatré anni di età. Da lì in poi non si sarebbe più fermato, moltiplicando i volumi a un ritmo sempre più veloce; e i rimandi letterari crescevano di mese in mese, non solo a Cervantes ma anche a Omero, Boiardo, Ariosto e innumerevoli altri, i cui nomi costellano le pagine delle avventure che metteva per iscritto. Il nome che mancava, almeno fino al 1827 (quando si rivelò autore della sua intera produzione), era in realtà il suo, quello di Walter Scott.
Ogni volume entrava e usciva dalle stampe in forma anonima. I testi inviati all’editore erano trascritti da un copista, perché non si potesse riconoscere la scrittura di Scott. Nei frontespizi, una volta che i libri erano ultimati, spesso era indicato come L’Autore di Waverley, per esempio quando pubblicò il suo terzo lavoro, The Antiquary (1816), dove il protagonista Jonathan Oldbuck era in parte una proiezione dello stesso Scott, un suo contemporaneo animato dagli stessi interessi e capricci. Altre volte assumeva false identità: Jedediah Cleishbotham è uno dei più ricorrenti, il curatore ufficiale di un testo capitale come The Bride of Lammermoor (1819), nonché suo fittizio corrispondente; il celebre Ivanhoe, pubblicato tra la fine dello stesso anno e l’inizio del successivo, era presentato ancora come un lavoro dell’Autore di Waverley, ma l’origine del testo appariva subito ben più complessa. Al romanzo era infatti premessa una lettera di un certo Laurence Templeton, che due anni prima aveva presentato l’opera all’immaginario dottor Jonas Dryasdust (“Secco come polvere”), un noioso e pedante antiquario.
Quella lettera di dedica è spesso identificata come un testo particolarmente importante: chi studia la letteratura italiana, per esempio, ci vede il terreno sul quale cresce l’Anonimo secentesco dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Ma il gioco di Scott è più profondo e articolato: tocca tutti i tasti che furono già di Omero e di Cervantes, e ne aggiunge di propri.
Il signor Laurence Templeton, nella finzione dell’Anonimo Scott, rivela dunque al dottor Dryasdust (e a noi che leggiamo) che l’avventura del cavaliere crociato Ivanhoe è desunta da un manoscritto medievale. Questo manoscritto si troverebbe nella biblioteca privata di un collezionista scozzese, sir Arthur Wardour. E questi altri non è che l’amico e rivale di Jonathan Oldbuck, il protagonista del romanzo The Antiquary.
Dunque non solo l’artificio di Scott fabbrica una falsa fonte storica per sostenere la sua narrazione, ma colloca il manoscritto nella casa di un personaggio che vive in un altro dei suoi romanzi. A questo punto Ivanhoe piomba dentro The Antiquary, e ne viene contenuto, come accadeva alla prima parte del Quijote con la seconda. Ma c’è di più. L’Autore di Waverley, ovvero Walter Scott medesimo, incontrerà un giorno personalmente il dottor Dryasdust, come viene rivelato nell’introduzione di un altro romanzo ancora, Peveril of the Peak (1823).
Un gioco di personalità multiple? Non proprio. È la creazione di un universo letterario che influisce sulla natura stessa del reale, se è vero che l’Anonimo manzoniano viene da lì; che la stessa Scozia moderna, come illustrato dal critico scozzese Stuart Kelly, viene per grande parte da lì. È una realtà a molteplici livelli: non due come in Cervantes, ma tre, quattro, forse più.
Dal loro intreccio scaturiscono le storie di Scott: una dopo l’altra, una dentro l’altra.
4. Rinascita della Storia
È stato scritto che «dopo Scott, né il romanzo, né la storiografia furono più gli stessi».
Come fosse una rinascita poetica della Storia, a secoli di distanza dal canto di Demodoco alla tavola di Omero.
(c) Royal Academy of Arts
Nota bibliografica
L’allusione alla nascita poetica della Storia è in H. Arendt, Between Past and Future. Eight Exercises in political Thought, New York, The Viking Press, 1961, capitolo 2, The Concept of History. Ancient and Modern.
È lo stesso Walter Scott a menzionare una sua corrispondenza con Jedediah Cleishbotham: Letters, ed. by H. Grierson, London, Constable, 1932-1937, per esempio nel volume V.
La lettera di Laurence Templeton a Jonas Dryasdust è oggetto di un paio di saggi in lingua italiana: M. Sarni, Il segno e la cornice. I Promessi sposi alla luce dei romanzi di Walter Scott, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2013, capitolo 2, Lo spettatore in cornice; R. Ferrari, «Amidst the Dust of Antiquity»: Scott, Ivanhoe e il racconto della storia, in Due secoli con Ivanhoe, a cura di D. Campanile, Pisa, Pisa University Press, 2019, pp. 17-43 (l’espressione «dopo Scott, né il romanzo, né la storiografia furono più gli stessi» chiude il saggio, a p. 41).
S. Kelly, Scott-Land. The Man who invented a Nation, Edinburgh, Polygon, 2011, presenta la Scozia odierna come una nazione fortemente connotata dall’opera del romanziere, e riserva ampio spazio alle «personalità multiple» di Walter Scott.