Comma 22

Guido Ceronetti è sepolto sulla luna




«Io non voglio e non posso credere
che il male sia lo stato normale degli uomini.»
F. M. Dostoevskij


C’è la luna di Neil Armstrong e c’è la luna di Guido Ceronetti, che poi è quella di Leopardi e dei poeti autentici, la luna «eterna pellegrina» che Ceronetti difende dalla brutale luna degli astronauti e degli schermi umani, delle televisioni. La luna di Leopardi è solitaria e intatta; la luna di Neil Armstrong è violata, calpestata dall’immondo passo umano e adorata dalle folle. La luna di Leopardi (e di Ceronetti) è immortale e silenziosa, mentre la luna di Neil Armstrong, cioè del mondo intero, è «essoterica, scalabile, misurabile, fotografabile, esplorabile, saccheggiabile», scrive Ceronetti. È il 1971; l’uomo è già stato tre volte sulla luna e Ceronetti pubblica un libro in sua difesa, Difesa della luna, la sua prima opera in prosa, dopo varie traduzioni di versi (Marziale, i Salmi, il Qohélet, Catullo, Giovenale) e un libriccino di poesie (Poesie, frammenti, poesie separate).
L’esordio ceronettiano è un libro inclassificabile che spazia da saggi letterari a poesie a testi pamphlettistici (Ceronetti è uno dei pochi pamphlettisti italiani del Novecento) a aforismi. Con Difesa della luna, libro purtroppo ormai introvabile nelle librerie, Ceronetti si scopre e si professa pestigrafo, ossia visitatore delle varie pesti umane e disumane del Novecento, anticipando l’intera sua opera, dai saggi letterari e filosofici ai libri di aforismi e di viaggio fino alle poesie e al diario e ai libri narrativi. In un amore felice, il romanzo scritto pochi anni prima di morire (e quarant’anni dopo Difesa della luna), racconta invece di Aris e Ada e di un cosmo sfinito e delle misteriose creature aliene che lo popolano e che contattano la Terra, i Senza Nome, Aristide e Nada, alterazioni poetiche dei due protagonisti; e anche qui, come nell’esordio, Ceronetti difende la poeticità dello spazio contro il chiasso assordante della modernità umana, perfino linguisticamente – «Invece delle tre squallide lettere UFO» scrive, «in un’epoca di fertili connubi tra il linguaggio e l’immaginazione, l’Oggetto venuto dagli spazi o dalle tarlature planetarie sottomarine, o dalle basi segrete di El Yunque, del Musinè o delle Bahamas, era chiamato da alcuni autori Carro di fuoco…».

Ceronetti

Il Carro di fuoco è apparso sulla Terra. La luna protetta e amata da Ceronetti ruota intorno alla Terra e su se stessa, in una danza solitaria e silenziosa di cui l’uomo probabilmente non conoscerà la fine. Ceronetti è morto ed è sepolto in una collina piemontese, non lontano da dove è nato. Altri uomini, altri astronauti, sono sbarcati o sbarcheranno sulla luna di Neil Armstrong, o su Marte. Il futuro della scienza, spesse volte combattuta da Ceronetti nei suoi libri, non contempla la poesia e la disperazione umane. L’uomo violerà ancora lo spazio; se potessero, scrive Ceronetti in Difesa della luna, gli uomini «arrostirebbero e mangerebbero la luna, per sfruttarne al meglio, alla cannibalica, i visceri, in vista delle loro supremazie economiche e militari». Non c’è speranza per il poeta, perché l’umanità è mostruosa. Non c’è scampo alla sciagura – per Ceronetti.
Non si può leggere Guido Ceronetti senza interrogarsi sull’ammirevole mostro che egli è, osservava Emil Cioran in uno dei suoi Esercizi di ammirazione, all’uscita dell’edizione francese di Il silenzio del corpo. Quale strana e per certi versi mostruosa forma di poeta e di filosofo ignoto è infatti Ceronetti, anche fisicamente, esteticamente, con il basco e l’impermeabile e la magrezza da mistico asceta, con le sue traduzioni bibliche e i suoi furori sui giornali e il suo maniacale veganesimo («Tutte le religioni che tollerano l’alimentazione carnea vanno abbandonate» ammonisce in Ti saluto mio secolo crudele) e la sua disperazione antimoderna e ultrapoetica; quanto sono mostruosamente anacronistici i suoi scritti, le sue opinioni, e quanto sono belli e necessari e unici i suoi libri, la sua voce che vibra di sdegno e di passione, cioè di amore. La parola di Guido Ceronetti non soccorre né medica, ma guida l’uomo (il lettore, che leggendo è poeta) nel dell’essere e del divenire, donandogli una possibilità di esistenza alternativa al mondo umano, al chiasso e alla bruttezza dell’esistere. Non vi è redenzione, non vi è speranza alcuna, se non nel disvelamento del Male, nella luce rivelata dalle tenebre dell’uomo. Come Baudelaire, che per lui è sempre stato un complice e una guida, Ceronetti si e ci spinge continuamente al punto estremo dell’animo umano, scavando nella terribilità della propria avventura terrestre, della propria verità vissuta e sofferta e gridata, nei suoi racconti come nelle sue poesie, nei suoi saggi come nei suoi libri di viaggio e nelle sue traduzioni.

Ceronetti

Ceronetti è un grande e indocile testimone del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo, per lui incomprensibile e oscuro come e forse più del precedente, troppo tecnologico, troppo filoamericano e quindi linguisticamente e artisticamente insulso; è stato un testimone scomodo e fuori dai ranghi fin dall’esordio, tanto che Umberto Eco, travisandone completamente la parola, lo attaccò in un articolo del 1970 su L’Espresso (dieci anni prima di scrivere Il nome della Rosa), dandogli del «buon reazionario» e tacciando la Rusconi, che gli pubblicava i primi libri, quale editore destrorso; Ceronetti non se ne curò. E pur scrivendo per La Stampa e per la Repubblica, anche negli ultimi anni della sua vita non sono mancati articoli accusati di razzismo o di sessismo o di fanatismo antiscientista, come nel suo attacco a Samantha Cristoforetti, un breve pezzo del 2015, che si conclude in questo modo: «Le imprese spaziali non sono portatrici di luce: chiamarle scientifiche è estenderle oltre le mura umane, e sgomenta la veemenza del loro urto con l’ambiente, che dura dai primi Sputnik e Apolli in cui sempre più incollati gli uni agli altri tentiamo di sopravvivere ai maleodoranti purgatori politici. La Civitas Dei non è più una speranza, la città umana si va trasformando sempre più in un mostro. La nave spaziale è inabitabile, le fughe sui pianeti impossibili. Dateci sogni, sogni, sogni…» – e chissà quanti lettori di Repubblica (o commentatori online: l’articolo è stato definito un delirio da Linkiesta, in una pagina che non brilla né per stile né per linguaggio) hanno pensato o ricordato o magari scoperto Difesa della Luna o In un amore felice, ché un vero poeta non ha opinioni bensì visioni e racconti, voci e parole che rispondono al tragico del sentire umano e non all’attualità, non all’opinione pubblica né al ben pensare dei quotidiani.
Chissà cosa sognava Ceronetti. Chissà cosa voleva sognare, non riuscendoci e agognando «sogni, sogni, sogni», come scrive nella conclusione del pezzo/sfogo su Samantha Cristoforetti. Di certo le sue pagine sono spesso popolate non tanto di sogni quanto di incubi, ad esempio nei due volumi einaudiani dei D.D. Deliri disarmati (questi sì “deliranti”, e sono un consiglio di lettura per i redattori/inquisitori di Linkiesta), fra uccelli mostruosi e giganteschi ragni-elefante e banditi e mosche-killer e catarro, oppure nel Viaggio in Italia, nell’inquietante incontro con un esorcista torinese (e dire che Raffaele La Capria, grande ammiratore di Ceronetti, consigliava di far leggere il Viaggio e Albergo Italia nelle scuole), o nelle poesie di Le ballate dell’angelo ferito, soprattutto in quella dedicata a Erika Nardo, Ballata della ragazza di Novi, per un canto di sofferenza e di orrore che pure si chiude nel perdono del padre, in una strofa di rara e possibile speranza: «Dice la gente: sia demolita / la casa invasa da tanto crimine. / Il padre invece ne lava i muri, / spera il cancello spinga una sera / l’amara figlia.»

C’è bellezza nell’orrore, c’è una possibilità di luce, per quanto tenue, nell’oscurità. Ceronetti ci insegna a non distogliere lo sguardo dall’abisso dell’uomo, a mirarlo e a soffrirlo fino a trarne parola e poesia. I suoi libri sono una diga al dirompere dello strepito umano della nostra povera epoca, un riparo dai giornali, dai social, dai cellulari, dai click online, dalle opinioni correnti, dalla politica politicante e dalle mode più o meno civili e più o meno impegnate di questi fragili tempi. Guido Ceronetti è un arrabbiato di razza, un ribelle della Parola che ama e traduce le sacre scritture e Céline e Baudelaire e Rimbaud, sempre armato di sdegno e di stile, di originalità e di amore infinito per chi si rifugia nel silenzio del verso e cerca nonostante tutto di salvarsi dal mondo, o di salvare il mondo. A chi si senta respinto dalle sue troppe tenebre, a chi pensa che non solo di disperazione e di orrori è fatto l’uomo (e noi siamo tra questi: noi crediamo nell’uomo), a chi è persuaso che il pessimismo leopardiano o ceronettesco in fondo non porti a nulla se non al nulla stesso, opponiamo – oltre allo stile della scrittura di Ceronetti, che è fra i più originali prosatori italiani del secondo Novecento – i colori delle sue fughe, i suoi variopinti (e disperati) disegni e collages, oppure le sue marionette, altro aspetto straordinario della sua persona, che lo ha portato più che settantenne a omaggiare la Charleville di Arthur Rimbaud, nel 1991, in occasione del centenario della morte del poeta, mettendo in scena una pièce burattinesca (con il teatro dei Sensibili) in cui compaiono fra gli altri Rimbaud morente e il Maldoror di Lautréamont e dei buchi neri e persino degli UFO, come in In un amore felice – una pièce racchiusa in un libriccino prezioso, edito da il melangolo, Viaggia viaggia, Rimbaud!, con il quale concludiamo questo piccolo omaggio alla parola e all’arte (e all’avventura terrestre) di Guido Ceronetti. Lo spettacolo è terminato.

«Lo spettacolo è terminato. Siamo stati ingoiati dal Buco Nero e tra poco avremo tutti fretta di essere eruttati fuori, tra luci ignobili, apparentemente rassicuranti. Ma le luci in sala tardano a riaccendersi. È un attimo terra di nessuno; non si è più là, né ancora qua. Chi ha fretta di applaudire e di andarsene non ha capito. La baracca ora emetterà un grido, l’ultimo. Un grido che non proviene dal Buco Nero, né dalla città là fuori, né dalla gola di un’attrice, ma de profundis, dai sottosuoli immemorabili dell’amore infinito: BACIAMI. BACIAMI, PRESTO. BACIAMI…»

Illustrazione copertina a cura di Fabio Monti