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L’universalità di un ritratto. Gli angeli personali di Brianna Carafa



Dopo anni di buio, di Brianna Carafa si è letto e detto molto nell’ultimo periodo, ma forse non ancora abbastanza.

Se si è qui a leggere queste poche righe, immagino che la storia la si conosca già: ma per fare un breve riassunto delle puntate precedenti, si può dire che dopo anni di dimenticanza, Carafa sia rispuntata da una bancarella dell’usato e abbia convinto chi l’ha letta del fatto che dovesse necessariamente essere ripubblicata. Un’operazione non priva di insidie, ma motivata dalla grandezza del testo in cui ci si era imbattuti. Il risultato è stato la ripubblicazione di La vita involontaria, romanzo apparso per la prima volta nel 1975 con Einaudi, che si è effettivamente rivelato come una grande narrazione da collocare nel solco della tradizione mitteleuropea.
Ma se già il rischio di pubblicare un’autrice sconosciuta è piuttosto alto, lo diventa ancor di più pubblicare di quella stessa autrice dimenticata non il romanzo più famoso, né il secondo più famoso, bensì una raccolta di racconti parzialmente autobiografici assemblata tra quelli pubblicati su rivista e quelli inediti – chi legge autrici? Chi legge racconti? In Italia, tendenzialmente nessuno. 

Gli angeli personali ha però visto comunque la luce, con una scelta d’altronde perfettamente coerente con gli obiettivi dichiarati dalla sua casa editrice Cliquot e a cui i lettori, non a torto, si sono tanto affezionati. Una scelta che senza dubbio non stupirà coloro che hanno già letto e amato La vita involontaria, ma che rimane significativa prescindendone.
Perché dopo decenni di studio dedicato ai grandissimi del Novecento italiano, è non solo giusto ma doveroso ripescare dal passato le grandissime, affinché una storia letteraria possa essere meglio delineata, adattarsi ai tempi. Il che non significa cedere alla moda delle autrici dimenticate, ma concedere spazio a chi lo merita, al di fuori di ogni categorizzazione, ma che non ha mai potuto averlo, in quanto facente parte di una categoria.

La grafica del volume è molto consonante con il suo interno: l’illustrazione in copertina insieme alle altre quattro che abbelliscono il testo di Carafa sono di pugno dell’autrice stessa, ritrovate tra le sue carte. Il tratto è sicuro, deciso, privato ma sobrio e oggettivo. Allo stesso modo si devono immaginare i testi: qualcosa di soggettivo, personale appunto, ma universalmente valido, comprensibile e godibile da chiunque voglia approcciarsi a queste righe, tratteggiato nella sua essenza.
Immagino questi racconti come estremamente rifiniti all’interno del laboratorio della scrittrice, finemente limati. Ogni parola è al suo posto, non vi sono ridondanze e retoriche eccessive.

Si prendano ad esempio gli incisi parentetici, di cui i racconti sono fittissimi. Da luogo del testo in cui in apparenza vengono gettate casualmente delle considerazioni o degli aspetti di poca importanza, essi diventano in realtà spazio per riferimenti a cose accadute minute ma significative, per anticipare il futuro e predire gli avvenimenti successivi, ma soprattutto per svelare le ipocrisie dei personaggi, inclusa se stessa, e porne alla luce alcune pieghe del carattere altrimenti taciute. Come nel racconto sul padre, in cui si leggono incisi come: «[…] non senza essersi ossequiosamente toccato una falda del cappello e mostrandosi, secondo il suo solito, più timido di quanto fosse in realtà. (Era un suo modo per accattivarsi la gente: mio padre non sopportava l’idea di non riuscire simpatico.)» oppure «dunque un uomo solo, libero delle sue azioni e per di più ricco, brillante, raffinato. (“Io non capisco” diceva “questi pregiudizi contro il baccalà. Bisognerebbe rivalutarlo”. E intanto assaggiava il baccalà confezionato dal suo cuoco francese, innaffiato di vino e ricoperto di tartufi.)».

Si diceva di Il giardino perduto, in cui viene appunto delineata la figura del padre nelle sue (di lui) incoerenze e ambiguità e nella sua (di lei) ingiustificata e ignorata venerazione. Il rapporto tra i due è sviscerato attraverso il racconto di un episodio, ovvero la presentazione di Brianna bambina all’amante del padre, in cui si leggono passi sobri e non per questo meno potenti, anzi, sinceramente strazianti:

«“Che chiasso insopportabile” disse subito mio padre, visibilmente infastidito. Fui perciò obbligata a rinnegare in fretta quel che in un primo momento mi aveva incantato, quell’aria di festività e di stordimento che credevo in accordo con la nostra avventura. Avrei voluto, anzi, proteggere mio padre da ogni rumore che lo allontanasse da me, fare scudo del mio corpo davanti a lui, togliergli dallo sguardo corrucciato tutto quel volgo dai colori troppo vivi […] poi mi strinsi a mio padre più che mai solidale con lui, come scusandomi che avvenissero quei tradimenti in me e nel mondo, protetta infine dalle mie stesse tentazioni, dal suo sperduto e sovrano isolamento, quasi fossimo stati, noi due, su una barca nel mare in tempesta. E, naturalmente, mio padre non si accorse di nulla.»

Brianna Carafa

La dualità dei rapporti – quella che Morante avrebbe definito una duplicità senza soluzione – è a lungo analizzata soprattutto nei primi tre racconti della raccolta, quelli appartenenti alla sezione omonima al testo, Gli angeli personali appunto. Oltre al ritratto della relazione con il padre, vi è anche il Ritratto di straniera dedicata alla nonna e La Governante, quello che è stato definito da Ilaria Gaspari nella prefazione non a torto il «racconto forse più perfetto di tutto il volume, dove la governante […] tenta di piegare l’equilibrio familiare in un gioco di potere che pare la trasposizione letteraria, perfetta, pulita, limpida, senza sbavature, del quadro hegeliano della dialettica servo-padrone». Il primo trasuda tutta la gratitudine e la tenerezza provata per questa figura di donna, nobile e vissuta sempre negli agi ma protesa con tutta se stessa a voler sconfiggere la povertà, irremovibile e un po’ buffa nei suoi tentativi; il secondo ben rappresenta il timore scaturito dalla figura della governante, il cui «volto, peraltro scialbo, fu a poco a poco ricoperto dalla lucida maschera del Potere che ne cancellò i sorrisi di cortesia», salvo poi assistere a un grandioso rovesciamento finale.

La seconda sezione, quella degli Altri ritratti, delinea in racconti più brevi altre figure meno connesse alla sua propria biografia, come una compagna di classe o un amico che era solito farle visita, mettendone in luce di volta in volta il carattere svelandolo attraverso dei dettagli o narrando un episodio significativo che lo vede coinvolto.

Come ci si aspetta da una raccolta di ritratti umani, l’accento non è posto su spazio e tempi, se non in maniera funzionale alla caratterizzazione del personaggio – il che rende ancora più significativo il fatto che invece le illustrazioni che corredano il testo siano di puro spazio, senza figure umane. Tutte le dinamiche che coinvolgono queste figure sono di difficile risoluzione: ambiguità e ambivalenza sembrano essere ciò che attraversa trasversalmente tutti gli animi e su cui si riversa l’attenzione dell’autrice, e di conseguenza del lettore, ma anche della narratrice. L’incontro-scontro con gli altri porta spesso all’autoanalisi di chi parla, che specchiandosi nell’alterità legge qualcosa di sé (come si vede molto bene ad esempio in Il sordo o La porta di carta).

Ed è da ciò che trae maggior piacere chi oggi abbia ancora voglia di leggere questo libro forse fuori tendenza (si diceva prima: non solo autrice, non solo autrice del passato semi-sconosciuta ma anche raccolta di racconti) ma non meno meritevole di attenzione rispetto a molti testi del secolo scorso che vengono etichettati come imprescindibili. Perché, come scrive ancora Gaspari nella prefazione, questi angeli personali «di angelico hanno poco, ma di personale molto, e sono imperfetti, umanissimi messaggeri di un destino privato, segreto, e insieme, come quello di tutti i grandi autori, aperto alla comprensione dell’umanità intera».

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