Comma 22

Distopia in blu. Il blu delle rose di Tony Laudadio

In tutte le città il centro era diventato spettrale, anche in seguito alla pandemia che aveva colpito l’intero pianeta e spostato le popolazioni fuori dalle città, portando a conseguenze estreme il principio di distanziamento sociale imposto alla fine del lockdown.

Ha i toni di un presagio fosco lo scenario del prossimo futuro in cui è ambientato Il blu delle rose di Tony Laudadio, autore e attore di teatro e romanziere, al suo terzo titolo per NN.
Durante i mesi del lockdown ci siamo chiesti che forma avrebbe assunto il futuro e come gli artisti avrebbero raccontato attraverso le loro opere la pandemia e l’esperienza della reclusione forzata, che per la scrittura in particolare parrebbe una condizione ideale. Per quanto riguarda l’audiovisivo abbiamo già raccontato su questi schermi alcune delle prime opere prodotte in e stimolate da queste condizioni straordinarie, la rassegna Homemade di Netflix. Il libro di Tony Laudadio è una seconda risposta; sebbene la trama non prenda le mosse dalla pandemia di Covid-19, probabilmente Il blu delle rose è uno dei primi libri a uscire dopo esserne stato contagiato.

Laudadio

La premessa del romanzo, che ci trasporta venticinque anni avanti nel tempo, è simile a quella del film Minority Report (Steven Spielberg, 2002). Mentre nel film di Spielberg un sofisticato sistema tecnologico consentiva di prevedere e quindi prevenire un crimine prima che fosse commesso, in Il blu delle rose l’individuazione del gene C, responsabile della tendenza di una persona a delinquere, ha consentito di ridurre la criminalità quasi a zero nei Paesi industrializzati, adottando una politica dittatoriale di controllo delle nascite: la legge Genesi rende il test CIRCO sul feto obbligatorio, in caso di esito positivo (ossia rilevata la presenza del gene C) è obbligatorio anche l’aborto. Il paradosso di uno stato di cose in cui l’obiezione di coscienza non è la negazione di un diritto, ma un atto di ribellione.

Nella narrativa degli ultimi anni il genere ha conosciuto un picco di popolarità tale che molti lo rifuggono ormai come un cliché, insofferenti all’abuso di questa etichetta, ma in questo caso la definizione non potrebbe essere più calzante: Il blu delle rose è un romanzo distopico.
Le rose blu del titolo assurgono a simbolo dell’origine del male: sono stati questi fiori, modificati geneticamente perché assumessero un colore che non avrebbero in natura, ad affascinare Elisabetta Russo, la ricercatrice protagonista del romanzo, e a spingerla a intraprendere gli studi di Genetica che l’hanno portata a conoscere il professor Miccio, con cui ha avuto negli anni Venti una relazione e che l’ha introdotta nel gruppo di ricerca responsabile della scoperta del gene C. La prospettiva è uno degli aspetti più riusciti – e disturbanti – del romanzo: la realtà priva di delinquenza della storia è vista attraverso gli occhi non di un emarginato portatore del gene C (la nascita viene prevenuta, ma coloro che già erano nati e positivi quando è stato scoperto sono stati relegati ai margini della società), non di uno dei ribelli del gruppo Erode che contesta la pratica dell’aborto coatto, bensì di una dei fautori del nuovo ordine costituito: è una distopia raccontata dal punto di vista del cattivo. La parte iniziale del romanzo è un’esperienza di lettura per certi versi ripugnante, un sequestro di persona letterario che costringe nella testa della dottoressa Russo, che descrive come un paradiso di pacificazione una deriva raccapricciante e spaventosamente realistica del mondo occidentale. Liquidato in poche parole come secondario il fattore ambientale delle condizioni socio-economiche che spingerebbero gli individui a infrangere la legge, tutti i Paesi sviluppati hanno identificato nel crimine il male ultimo da estirpare per costruire un mondo migliore. Ignorando seraficamente che la causa del cambiamento climatico è il loro stile di vita insostenibile, i ricchi e privilegiati del mondo si sono attrezzati per convivere  con l’aumento della temperatura e l’intensificarsi di condizioni atmosferiche estreme come i nubifragi. Vivono nella scenografia di un episodio di Black Mirror, in complessi residenziali che consentono il distanziamento sociale, nei lussuosi interni di abitazioni in cui la temperatura è mantenuta artificialmente fresca e ogni cosa è gestita dai domot (sistemi tecnologici interattivi che sono lo stadio successivo di Alexa), si spostano su G-car che si guidano da sole, passando da un ambiente climatizzato all’altro.

«In piena estate non si poteva più stare al mare, sulla spiaggia, a prendere il sole, come quando lei era giovane. Troppo pericoloso per la pelle e per gli occhi, il calore era così elevato da provocare danni alla salute. Quindi anche di lidi ne erano rimasti pochi e si usavano solo nel breve periodo, comunque irregolare, tra il grande freddo e il grande caldo.»

E i poveri? «Chi non poteva permetterselo – un certo numero di poveri si ostinava a esistere – sopportava. E imprecava.»

Laudadio

È molto facile nella prima parte del libro essere disgustati da Elisabetta Russo e dal mondo che ha contribuito a costruire. Nonostante la storia non manchi di avvenimenti e persino di colpi di scena drammatici fin dal principio, per un po’ la narrazione procede come se non succedesse nulla. C’è un’atmosfera ovattata, immobile, asettica. Perché così è la vita di Elisabetta, il cui privilegio la mantiene lontanissima dalle cose del mondo, anche quando si scagliano contro di lei con violenza: il privilegio è tale che nulla sembra turbarla o toccarla in alcun modo, così ripiegata su sé stessa e sulla sua esistenza vacua, capricciosa ed egoista. Tony Laudadio è abile nel condurre il lettore a scoprire, lentamente, la pochezza del male. Elisabetta non è una sociopatica crudele dalla psiche complessa, il personaggio negativo manicheo che puoi odiare e disprezzare senza remore; si rivela un cattivo ingenuo. Pagina dopo pagina ti ritrovi con crescente straniamento ad accorgerti che la sua condizione di privilegiata l’ha protetta, ma l’ha resa anche inconsapevole, cieca: del mondo non ha conosciuto nulla, la sua esposizione alla diversità è stata quasi inesistente e questo l’ha mantenuta a uno stadio adolescenziale. 

«Aveva sempre ritenuto l’amore la conseguenza della pigrizia dell’animo umano, il desiderio di un comodo appoggio alla propria solitudine, che invece è la condizione naturale di tutti. Un banale costrutto genetico che immette nel sistema linfatico una serie di processi biochimici che noi – e i poeti e gli artisti – facciamo corrispondere alla parola “amore”. Non che lo trovasse deprimente, ma troppo comune, troppo diffuso, troppo meccanico.»

Questa è un’ottima premessa per l’arrivo di qualcosa di travolgente. Che non manca di arrivare, con toni sentimentali che a tratti scivolano nel sentimentalista.  Nella seconda parte del romanzo, quando entra in scena un personaggio che racchiude in sé tutto ciò che il lavoro della genetista ha contribuito a reprimere ed estirpare, tutto ciò che lei stessa non ha mai avuto modo di conoscere, è come se assistessimo all’uscita dalla caverna di Elisabetta.

Anni fa il mio relatore della tesi di triennale, il professor Stefano Tani, che teneva un meraviglioso corso di Letterature comparate, mi disse che la fantascienza aveva fallito. Io rimasi sbalordita: l’idea che la narrativa potesse avere successo o fallire non mi aveva mai sfiorata. La fantascienza ha in effetti fallito se consideriamo la sua ambizione di prevedere il futuro: almeno per il momento il futuro non sta andando nella direzione di viaggi in astronave e avventure alla scoperta dello spazio. È forse questo che ha determinato un calo di popolarità della fantascienza a favore della distopia: le distopie hanno azzeccato diversi aspetti del futuro, Orwell aveva previsto che avremmo avuto sempre uno schermo a guardarci, anche se non sapeva che ce lo saremmo portati dietro in versione portatile; Huxley aveva previsto il diffondersi di uno stile di vita in cui pillole e sesso occasionale fanno parte del quotidiano, anche se non immaginava che la cosa potesse avere anche risvolti positivi. Un altro aspetto a favore delle distopie è che trattandosi per definizione di previsioni funeste, hanno una funzione di avvertimento e gli autori fanno scommesse sul futuro che il lettore si augurerà di vedere perse. 

«”Gli immigrati con il gene C, anche se in regola con i documenti, vengono comunque rimpatriati. Non accettiamo criminali potenziali in Italia…”[…] La severità con cui venivano trattati i clandestini, e in particolare quelli con il gene C, era l’orgoglio dell’amministrazione pubblica. Se la legge Genesi aveva abbattuto la criminalità italiana ed europea, l’unico modo per preservare questo risultato era impedire che il gene C arrivasse da fuori.»

Suona familiare?
A proposito di scommesse sul futuro, sarebbe un sollievo scoprire che gli allibratori danno Tony Laudadio perdente con Il blu delle rose.

Photo credits
Copertina: dettaglio, Scultura da parete, pezzo unico, di cm. 112 x 112 x 15, composta da 48 rose in cartapesta e una rosa centrale bianca in ceramica, di
Silvano Bavia
Ritratto di Tony Laudadio: dal sito di
Teatri Uniti