Camera Obscura

Ricordi horror dal futuro. Il tempo orizzontale in The Haunting



Si dice, in gergo tecnico, che una serie TV è orizzontale quando la narrazione si propaga da una puntata all’altra, in continuità, come prosa tra i capitoli di un romanzo, e verticale quando gli episodi sono autosufficienti come poesie (la similitudine letteraria non è casuale, perché sto per parlare di una serie TV antologica che ha radici romanzesche). Ma se il concetto di orizzontalità si estendesse al tessuto stesso della storia? Se, cioè, le maglie di una narrazione televisiva si allargassero così tanto che ogni episodio non contenesse solo le conseguenze degli episodi precedenti, del passato dei personaggi, ma anche quelli degli “episodi futuri”, ovvero del modo in cui le azioni dei personaggi si dispiegheranno nel tempo?
L’idea può sembrare confusa, ridondante. Può addirittura mettere in discussione il nostro concetto occidentale di identità: un’unità solida e impenetrabile, proiettata in salita dalla nascita alla morte nella rigorosa missione individualista di portare a termine un intimo e nobile “destino”, tanto romantico quanto nascosto (e meno male che lo è: che lo sia è il dono più prezioso che ci ha fatto Dio, scriveva Philip K. Dick). Eppure, nell’Asia orientale (non dico di proposito “in oriente”, che significa ben poco e fa pensare allo slogan di un olio essenziale), si racconta una storia diversa.

I cinesi, tradizionalmente, percepiscono il futuro come una pianta il cui fiore e stelo (presente e passato) sono visibili, ma le cui radici (il futuro) sono nascoste. Un tempo dunque che non è una successione in tre quarti ma un’unità, dove il discrimine non è cronologico ma una semplice questione di visibilità. Non sappiamo come saremo soltanto perché siamo ciechi: la nostra ignoranza è una questione banale di percezione e il presagio non è altro che un attimo di chiarezza. Così, nelle crepe che si aprono tra lo scenario rivelato e quello nascosto, sarebbe possibile sbirciare ciò che saremo. Inoltre il futuro, cioè le radici, sta in basso, sotto di noi, come se non fosse un vero svolgimento ma una sorta di eredità: le nostre fondamenta invisibili, innegabili come quelle genetiche.

Haunting

E i personaggi di The Haunting of Hill House, basato sul noto romanzo di Shirley Jackson e prima stagione della serie TV antologica The Haunting (Netflix), ereditano il proprio futuro come si eredita, o espia, una colpa. Se prima, come tutti, ereditano il passato – non solo il proprio, ma quello della casa in cui vanno a vivere, con tutti i suoi fantasmi – successivamente, man mano che i primi segni di presenze spettrali interrompono la vita quotidiana, qualcosa di più sinistro viene proposto alle loro menti: piccoli segni dal futuro. Una scritta sul muro che non ha (ancora) significato, ma lo acquisterà decine di anni dopo, una scatola di gattini malaticci che educano le figlie alla morte futura di una di loro, e così via.
Nella scena clou della serie (non è spoiler), i due gemelli Nellie e Luke dicono alla madre di aver fatto un brutto sogno. Il sogno riguarda il loro futuro: la tossicodipendenza di uno e le problematiche psicologiche dell’altra. Ma, naturalmente, il futuro non si può raccontare: si può percepire, presagire, tutti verbi che attengono a sensazioni ed astrazioni, approssimazioni, cose insomma verso cui il linguaggio può tendersi e torcersi ma che non può davvero afferrare. I gemelli la chiamano “oscurità”. Il futuro che si percepisce come una pelle d’oca, una maledizione, una spada di Damocle in fase REM, maledice solo chi lo sa vedere, chi lo sa vedere senza poterlo davvero interpretare, e dunque cambiare. Così la madre che osserva, sull’orlo di un misterioso esaurimento, i figli che predicono il peggio nel cuore della notte nella loro casa stregata, non può che dire loro che da quell’incubo, dal loro futuro, devono svegliarsi.

Haunting

Ma come ci si sveglia dal futuro? Da una cosa che, in quanto già percepita, esiste già, in attesa? La fisica quantistica ci racconta di atomi che si comportano da particella o da onda a seconda che venga o no effettuata, in un momento successivo, una manipolazione sullo spazio circostante. L’agire nel presente secondo il futuro, dunque, ha un precedente non esattamente soprannaturale. Potremmo quindi pensare che, se i gemelli piangono di un tempo non ancora accaduto, è proprio perché è già accaduto, dunque inchiodato sulla loro linea del tempo. Come per il buddhismo: un campo di attimi che accadono contemporaneamente, da qui al futuro più lontano. L’universo, secondo la raffigurazione nella rete di Indra buddhista, non è altro che l’illuminarsi all’unisono di ogni cosa, presente e futura. Non esiste luce individuale. I gemelli splendono, insieme, del loro infausto destino. La stessa luce che, nella forma di un raggio rosato, ha raggiunto Philip K. Dick (quello reale, non l’io narrante di un suo libro), trasmettendogli un’informazione medica importante sulla salute del figlio, e salvandogli la vita.
I gemelli sono condannati a una sentenza di “oscurità”, che più che una pena di morte è una pena di vita, e l’unico modo di evitarla è, al contrario, morire. La madre che vuole i figli morti, per proteggerli, non è qui una Medea fuori tempo e nemmeno un esempio di omicidio-suicidio purtroppo presente nelle cronache: è uno sfasamento della madre di prima, un prodotto di quel tempo deragliato che, inondato dal futuro, per raddrizzarsi non può far altro che sparire.
È sempre la fisica quantistica, però, che ci racconta l’osservazione di un oggetto come fondamentale per il suo comportamento. E infatti i figli osservati nei loro lettini non sono esattamente i figli veri: mentre lei li guarda e parla con loro, quelli veri sono al piano di sotto a giocare. E allora quale delle due coppie è quella che finirà inghiottita dal male della depressione e dell’auto-annientamento? Naturalmente quella che è stata osservata e che ha osservato la madre che, lentamente, discendeva nella follia per poi decidere di farla finita.

Haunting

Lo stesso concetto di tempo, e di morte, si trova nella seconda stagione della serie antologica dal titolo The Haunting of Bly Manor, basata su diverse opere di Henry James, in particolare Il giro di vite. Meno cupa e meno sofisticata psicologicamente, ma altrettanto ammaliante, Bly Manor segue le vicende di un gruppo di persone, alcune vive alcune morte, sottraendosi con ingegno alla pretesa narrativa occidentale di segnare bene i limiti tra le due realtà. Il tempo è come un carillon inceppato: tra storie d’amore e di mancanza, di malattia e di gelosia, ripete di continuo le stesse note e poi si ferma all’improvviso, lasciando i personaggi increduli e incagliati nella loro memoria come pesci in una rete.
Si nascondono tutti nei propri ricordi in cerca di conforto, rimboccati in momenti che in quanto già accaduti sono come coperte calde. Perché il futuro lascia segni indelebili, alla pari del passato, e al contrario del passato non è mai un posto sicuro. Come scrisse Virginia Woolf in Orlando: «Life is a dream. ‘Tis the waking that kills us».