Oltre la Soglia

Sopravvivere alla verità. La storia di Lorenzo, dall’eroina alla scrittura

«Amo troppo la vita per riuscire a viverla è troppo vero per essere un romanzo» commenta Andrea De Carlo nella prefazione al libro autobiografico di Lorenzo Raffaini (Bompiani, 2015), benché, mentre leggo la storia, si insinua in me il dubbio contrario e mi tallona la domanda su come tutto ciò possa essere vero. Ma poiché la letteratura esige l’abbandono dell’incredulità, depongo le armi e mi sottometto; di interrogativo allora me ne rimane uno solo: come si sopravvive all’esperienza di quel vero?Redivivo, reduce, ritornato, sono aggettivi composti da prefissi iterativi, che trascendono e ritornano alla vita, sono i requisiti della resurrezione. Amo troppo la vita per riuscire a viverla è in fin de conti il racconto di una catabasi, quella costretta e priva di scampo della tossicodipendenza, e di una resurrezione, fragile e faticosa, come può essere il riemergere alla vita dopo più di vent’anni di ottundimento da eroina.

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Quando ancora il coronavirus sembrava un male remoto dell’altro continente, ho incontrato Lorenzo Raffaini a Malonno, dove vive con la sua famiglia, in quello stesso paese teatro delle sue scorribande giovanili, paese che lo ha saputo perdonare e tenere con sé, nonostante. Frugo i suoi occhi, la pelle, gli spigoli dello sguardo, avida di una traccia o una cicatrice che mi possa testimoniare un passato stra-ordinario. Non trovo niente, solo uno sguardo gentile e timido, che mi richiama alla voce narrante del libro. Forse è quella l’evidenza.
Ci inerpichiamo con Lorenzo su stradine verticali che portano a una cascina isolata in mezzo al bosco: ha iniziato a costruirla lui anni fa, mattone per mattone, mentre ricostruiva anche se stesso, incarnando letteralmente l’arte vivifica del falegname.

Fa freddo, la cascina non è riscaldata e la luce è fioca, ma ci sediamo comunque su sedie di legno pesante e iniziamo a parlare.

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«Anche se smetterò di drogarmi, io dentro sarò sempre un tossico», scrivi nel primo capitolo. Cosa significa?
A quei tempi, fine anni ’80, il tossico andava controcorrente, non seguiva la massa. Il tossico era lasciato in disparte anche dai suoi stessi amici. Io dentro mi sentivo così, faceva parte dei miei geni, del mio carattere. Io sono sempre stato dalla parte dei perdenti, non mi sono mai sentito un vincente. Mi sento sempre un po’ in difficoltà, come quando ero a scuola e non mi sentivo a mio agio, anzi, mi sentivo inferiore.

La tua dipendenza dall’eroina ha origine dall’inganno e da un’ingenua ignoranza. L’autista che lavorava con tuo padre un giorno offrì a te diciassettenne della «“roba” tipo anfetamina ma non lo era, e non procurava nessuna astinenza». Solo più tardi hai scoperto fosse eroina. Quanta coscienza c’era in quegli anni dei rischi legati alla droga?
L’ho usata per un anno senza sapere cosa fosse, poi una volta sono rimasto senza e mi sembrava di avere l’influenza. Solo a  quel punto ho scoperto che cosa fosse. In quegli anni, non c’era conoscenza, non c’era prevenzione. Era la fine degli anni ’80 e si parlava di eroina, perché erano appena passati gli hippie. A Malonno c’era una comunità di hippie che si ritrovava e fare feste, a dormire nelle tende; giravano nudi e assumevano molte droghe. Tantissimi di loro sono morti di AIDS.
L’informazione era legata più che altro alla paura dell’AIDS. Si sapeva che la droga faceva male, si sentivano storie brutte sui tossici, ma non sapevamo nello specifico cosa comportasse.

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Nel 1978 lo psichiatra Elvio Fachinelli pubblica sul Corriere della sera tre articoli nei quali avanza la proposta di controllare il mercato dell’eroina e di iniziare a venderla in farmacia, al pari della morfina. Fachinelli definisce l’eroina come una vera e propria cultura e così scrive: «L’eroina costituisce essenzialmente e in primo luogo una cultura. Non una cultura marginale, o laterale, una sottocultura, e neppure una cultura alternativa. Ma una cultura per così dire interstiziale, secreta da tutti i pori della nostra società. Ora, gli elementi significativi di questa cultura mi sembrano essere, nelle persone che ho conosciuto, da un lato una particolare trasgressività nei confronti della cultura dei padri e, dall’altro, una impostazione o attesa di tipo rudimentalmente estatico, perseguita attraverso un’azione chimica sul corpo». Ripensando a quegli anni, trovi corrispondenza in queste parole?
La cultura dell’eroina apparteneva alla generazione precedente alla mia. Ci era stata lasciata in eredità e con essa il monito di andare contro corrente. C’era una forte voglia di trasgressione. Questa spinta l’avevamo già a 13 anni, quando facevamo le scorribande per il paese. Poi sono arrivate le canne, la cocaina e infine l’eroina, che, a differenze delle altre droghe, ti avvolge in breve tempo a 360 gradi.

Teatro della tua esperienza è un paese di pochi abitanti, Malonno, il classico luogo in cui tutti sanno di tutti. Dopo le prime scorribande della vostra compagnia, siete stati additati come i delinquenti: «Tutti ci condussero all’essere ribelli, nessuno ci aiutò. Ci esclusero, diventammo degli emarginati. Loro ci avevano creato, loro ora ci condannavano senza appello». Scrivi anche di un senso di tradimento da parte della comunità, che diventò quasi una giustificazione per tradire a tua volta. Quanto credi sia pesato sulle tue scelte questo stigma sociale?
Noi stessi ci emarginavamo, ma avevamo solo tredici anni. Un ragazzino ha un modo di ragionare limitato, non ha esperienza, vede quello che sente. Il paese ha cominciato a guardarci male, ad addossarci anche marachelle di cui non eravamo responsabili. Al posto di fare comunità e di coinvolgerci in altre attività, ci evitavano. Molti impedivano ai figli di frequentarci. Dopo fu difficile riallacciare i rapporti, forse era compito dei genitori e delle istituzioni del paese. Ma probabilmente non si rendevano conto del problema.

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Credi che oggi l’atteggiamento della comunità sia cambiato nei confronti dei cosidetti emarginati?
Ora è diverso, ci si prova. Ma di fondo c’è sempre l’ostacolo che spesso l’altro non vuole essere aiutato. Spesso è la famiglia stessa a rifiutare l’aiuto. I genitori dei figli in difficoltà hanno paura di mostrare i loro problemi, temono il giudizio. Non è facile trovare riscontro, ma di sicuro si fa di più rispetto al passato.

Nelle molte pagine dedicate alla vita nel carcere, che descrivi minuziosamente, compare anche una critica al sistema carcerario che invece di educare il detenuto, di recuperarlo, spesso ha l’effetto contrario, rende il delinquente ancor più delinquente.
In carcere sei lasciato a te stesso, in mezzo a gente che parla di rapine, di soldi facili. O sei capace di isolarti, altrimenti è difficile non farsi influenzare. Io  quando sono uscito, per un periodo non mi sono drogato, ma avevo imparato a rubare insieme a un amico conosciuto in carcere. Entrai in una logica diversa, che i miei genitori non mi avevano insegnato, non era nella mia indole, nella mia educazione.
Credo che nel carcere ci sia bisogno di iniziative, i detenuti, sempre alla ricerca di soldi, dovrebbero essere affiancati da persone disinteressate al guadagno, come i portatori di handicap. Un tale affiancamento potrebbe aiutare il detenuto a capire cosa c’è di importante nella vita, grazie alla leggerezza e alla profondità che ha una persona disabile. Solo con iniziative del genere si può pensare a un cambiamento.

Il carcere però nella tua storia non è stata solo un’esperienza negativa. Durante un periodo di prigionia racconti di un sentimento quasi paradossale: «Ma in quella carcerazione assaporai la libertà come da tanto tempo non riuscivo a fare fuori». Quale libertà ti aveva tolto l’eroina?
Mi aveva tolto tutta la libertà, fisica e mentale. Mi comandava lei, in tutto per tutto. Il mio ritmo era dettato dal ritmo dell’eroina. Il pensiero era solo rivolto a come fare a procurarmela, a come trovare i soldi. In prigione avevo trovato un’altra libertà, quella di una persona normale, potevo correre, leggere, scrivere e pensare. Assaporai la libertà nonostante fossi in una gabbia.

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Oltre l’esperienza del carcere, nel tuo libro racconti le tantissime e varie permanenze all’interno delle comunità, quasi tutte fallimentari. Perché nel tuo percorso la comunità non è stata efficace?
Forse avevo io una forma di allergia alle comunità, alle regole rigide. Quando una cosa è obbligata è difficile che ottenga un risultato. Se ci fosse stato un sistema diverso, più elastico, probabilmente avrebbe funzionato. Credo sia molto soggettivo, servirebbero dei percorsi personalizzati.

Malgrado la tua esperienza, credi che le comunità riescano ad accompagnare le persone in un percorso che abbia poi come fine il reinserimento nella società?
Di regola il percorso lo prevede. A me era andata bene nell’ultima comunità che frequentai. Si lavorava, la domenica andavamo in gita. Lì ho potuto assaporare l’ambiente familiare, che mi mancava da anni. Sembrava tutto molto vicino alla vita reale e mi ha fatto bene. Il problema fu che la comunità fallì e mi fece saltare il percorso di inserimento nella società. Mi hanno buttato tutto di un colpo fuori. Ero rimasto agganciato a qualche operatore ma dopo un mese ho ripreso a drogarmi. È mancata la fase di inserimento, importantissima. Molte delle malefatte nascono quando sei da solo. È facile in quei casi ricadere nell’eroina, mi sarebbero serviti degli amici, degli hobby.

Racconti che durante il tuo primo periodo di detenzione avevi iniziato un libro. Parte di quel materiale è confluito in Amo troppo la vita per riuscire a viverla? Quale ruolo ha svolto la scrittura nel tuo percorso?
La scritturata è nata come autoanalisi, per cercare di capire dove avessi sbagliato e cosa mi avesse potuto fare male. Era il ’96-97 e avevo scritto quattro quaderni; mi aiutava a passare il tempo in carcere, a riflettere. Poi sono uscito e ho accantonato la scrittura. Ho ripreso dopo anni, a casa, quando la mia vita era sistemata e realizzata. Ho riguardato i quaderni e un po’ di quel materiale è confluito in questo libro, anche se molte cose le ho eliminate perché non corrispondevano più ai miei pensieri.

Hai mai avuto paura della tua verità?
Certo che ho avuto paura! Ce l’ho sempre avuta, ce l’ho anche adesso. Ma mi sono anche detto che un libro come il mio aveva senso solo scrivendo tutta la verità. Scriverne sarebbe potuto essere utile anche agli altri. Racconto ogni cosa, da quando ero un bambino come gli altri, innocente e timido, a quello che poi sono diventato. Fa male raccontare quei momenti, fa male scriverli. Ho raccontato anche della mia impotenza sessuale nel libro, cosa di cui ho molta vergogna, però mi sono fatto forza. In quegli anni due miei cugini, entrambi molto chiusi, si sono suicidati, e io non li avevo mai visti andare con una ragazza. Come è successo a me, sarà successo anche ad altri, e la mia storia può essere un esempio, un conforto. Era dunque necessario scrivere la verità. Anche quando fa male.

Volevo leggerti una testimonianza di un ragazzo, molto lucida e spietata che mi ha ricordato alcune tue pagine. È stata raccolta da Simone Feder, psicologo impegnato nel recupero di ragazzi tossicodipendenti.
«Caro Simone come posso pensarmi senza la roba? Non so chi sono senza di lei. Fatico a capire chi sono, quali sono i miei veri pensieri…
Ho 25 anni e mi rendo conto che non posso continuare a vivere in questo modo! Si può chiamare vita questa? Eppure non riesco a pensarmi all’interno di una comunità. Chiuso dentro ad aspettare per mesi. E, anche se ce la facessi, so che quando uscirò, tornerò qui in questo inferno che è nello stesso tempo la mia ambizione e la mia condanna, la tregua al mio soffrire e la causa della mia morte lenta… Purtroppo l’eroina è dentro di me, è parte di me, è nei miei pensieri costanti, nelle giornate senza meta e nelle mie notti insonni. Il mio dramma? Non riesco a pensarmi altro, non riesco a pensarmi diverso.
Mi spaventa e mi fa paura non riuscire a cambiare, non scoprire mai cosa c’è dietro questa patina offuscata che da anni mi circonda e mi impedisce di vedere il mondo e il mio stesso esistere. Ho voglia di ritornare a vivere davvero, ma… non so da che parte si inizia per farlo. Mi mancano delle opportunità reali, qualcosa che sappia farmi intravedere traguardi veri… E se non trovo intorno a me qualcuno che mi indichi un nuovo sentiero e mi accompagni a percorrerlo, come posso lasciare quello del bosco?»
È vero, io mi sentivo come lui. È difficile, non hai sbocchi. Io ho smesso, quando non credevo più di riuscirci. Avevo perso tutte le mie speranze, invece poi sono stato fortunato, anche se in modo strano. È una cosa che fa un po’ male ai benpensanti: io ho smesso in modo graduale, ho smesso con l’eroina e ho cominciato con la cocaina e l’ecstasy. In quel periodo avevo una compagnia che usava quelle sostanze, e mi ha aiutato a farmi lasciare quel bosco, il bosco dell’eroina, e ad andare, per così dire, in un sotto bosco. Non era ancora la vita giusta, però la compagnia mi apprezzava, e nonostante usassero tutti cocaina ed ecstasy, guardavano i tossici da eroina come la peste. Avevo cominciato a muovere dei passi in un ambiente che prima di tutto mi dava amici e divertimenti, mentre prima ero solo. Quando ti fai di eroina cerchi i soldi, la compri, torni a casa e ti fai; quella compagnia mi ha fatto uscire dal guscio. Poi sono stato fortunato perché è subentrata mia moglie che mi ha aiutato a prendere le distanze da quella vita errante, che mi avrebbe rovinato ugualmente. Sono stato fortunato a smettere, ho incontrato le persone giuste al momento giusto.

Uno dei più grandi problemi forse è proprio la solitudine…
Sì, sei solo, lontano anche da chi ti vuole bene. Io ho portato via tutto da mia madre e da mio padre, sia economicamente sia sentimentalmente. Oggi mi metto nei panni dei miei, e se capitasse a me starei malissimo, ma in quanto genitore, cercherei di non far mai mancare l’aiuto ai miei figli e continuerei a credere che prima o poi ce la facciano ad uscirne, perché è possibile. Serve un aiuto del genere, è importante.





Servizio fotografico realizzato da Silvano Richini