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Imparare a sanguinare. Dentro la Milano feroce di Funeralopolis

È un primo agosto di caldo torrido a Milano, quando ci incontriamo nel piazzale del Cimitero Monumentale. Il sole cade a picco su di noi mentre ci scambiamo strette di mano, tra nomi che si incrociano, palpebre afflosciate e sguardi cauti e incuriositi sotto scudi di neri occhiali da sole. Vash porta un’enorme borsa nera, pesanti anfibi ai piedi, anelli alle orecchie e un braccio destro graffiato da fiamme nere tatuate; Felce indossa al centro del petto un teschio stampato sulla t-shirt nera, un grande orologio sul braccio sinistro e grosse scarpe da montagna o da battaglia.
«Ma ci faranno fotografare dentro al cimitero?». Siamo senza dubbio i visitatori più insoliti e incomodi dello storico Cimitero Monumentale.
«Senti, alla base del cristianesimo c’è una profonda contraddizione. Se il cristianesimo contempla la risurrezione della carne, allora qual è il senso….».
Sembra di essere piombati nel film.
Entriamo.

Bresso, Sesto San Giovanni, Rogoredo, i margini sfumati di Milano sono i luoghi in cui corrono veloci le vite di Vash e Felce e i loro amici; una velocità scapestrata che viene immortalata nel documentario Funeralopolis diretto da Alessandro Redaelli e uscito nel giugno del 2017. Selezionato nel 2018 come miglior documentario ai David di Donatello, Funeralopolis è prima di tutto il ritratto di una Milano sotterranea, inedita, carica di pericoli e fascino. Il racconto si dipana attraverso le voci di Vash e Felce, i due protagonisti uniti da un’amicizia d’altri tempi, amici per la pelle. Sono due rapper hardcore con la passione per la musica – la scrittura dei testi su foglietti strappati, le rime lanciate agli angoli dei marciapiedi, le registrazioni, i concerti, i rave e la furia distruttiva –, sempre pronti a farsi travolgere da qualche interminabile discussione e a condividere una dose di eroina, iniettata lungo le strade e nelle case delle periferie milanesi, in un continuo ed estenuante girovagare, che sembra collocarsi fuori dal lineare scorrere del tempo. Sono due esistenze che sbattono i pugni contro i limiti dell’eccesso, impavidi di fronte alle nere fessure generate dallo sfrigolio tra vita e morte.

Limina doveva ancora nascere quando abbiamo incontrato il regista Alessandro Redaelli per un’intervista, e i due protagonisti Vash e Felce per un set fotografico nei principali luoghi del film. E così, con il fotografo Stefano Mendeni armato di camera digitale e polaroid, partendo dal cuore della città, il Cimitero Monumentale, abbiamo costeggiato peregrini, tra uno scatto e l’altro, gli estremi margini di Milano.

Partiamo dall’inizio. Da dove la scelta del titolo?
Funeralopolis è il titolo di un pezzo di Vash e di un brano degli Electric Wizard, un gruppo black metal. Il black metal è parte importante della cultura musicale dell’immaginario di Vash e di Felce. Tra l’altro Vash in quel brano racconta del degrado della città e di quello che ha vissuto. Il titolo contiene un doppio collegamento: il racconto della città e l’immaginario metal più estremo.

Funeralopolis
When you die, you’ll become maggots!, Rogoredo

Da quale esigenza nasce Funeralopolis?
Ai tempi stavo finendo la scuola di cinema e avevo bisogno di girare qualcosa. Ho sempre fatto cortometraggi, piccoli progetti per conto mio da quando avevo tredici anni, ma in quel periodo ero fermo da un po’ e mi stavo avvicinando al documentario di osservazione: ero fissato con Wiseman, Pietro Marcello, e tutto quel filone lì. Poi un giorno ho rivisto per caso Vash e Felce, dopo anni che non li vedevo, e mi sono detto di provare a fare un documentario su di loro, la loro vita, i loro concerti, la loro musica. È partito quindi come un racconto di Vash e Felce in quanto musicisti. In realtà avevo intuito che ci fosse qualcosa che non volevano dirmi. Si è quindi poi trasformato in un film anche sull’eroina, pur rimanendo un documentario su due amici che provano a fare delle cose e si confrontano.

Funeralopolis
Uno e trino, Cimitero Monumentale

Ho letto che conoscevi Vash e Felce da tanti anni. Com’è stato il rapporto che si è instaurato tra te dietro la telecamera e loro?
In realtà il rapporto che io avevo con loro era più di stima reciproca che di amicizia. Mi piaceva la musica che facevano e a loro piacevano le cose che facevo io. Ci si vedeva più che altro per discutere, confrontarci su alcune cose. All’inizio eravamo tutti un po’ storditi dalla situazione, perché nessuno dei tre sapeva come sarebbe andata. Si vede nelle prime riprese del film, che sono poi le prime scene, in cui loro mi parlano. Consapevoli del fatto che io avessi in mano la camera, ma anche del fatto che eravamo amici – e lo siamo tuttora –, giochicchiavano. La mia tendenza invece era quella di scomparire completamente e a un certo punto ho deciso di non rispondere più. Dopo un po’ di mesi loro raramente mi parlavano o si rivolgevano in camera.

Funeralopolis
Cerco rogne, Macao

Quindi ci sono stati dei momenti in cui i protagonisti si sono falsati? Vash per esempio ha una fortissima presenza scenica, anche se intuisco che sia lui proprio così.
All’inizio sicuramente sì, anche perché loro vedevano il film come una cosa autocelebrativa e all’inizio soprattutto Vash faceva il circo, i balletti, poi si è dimenticato completamente di questo ed è uscito il Vash vero. In realtà sono stati entrambi molto spontanei. Io li ho visti la settimana scorsa, sono venuti a casa mia e hanno iniziato a discutere e giuro che quella era un’altra scena del film: dieci minuti di religioni e discorsi deliranti a ruota libera. E quella cosa lì è vera, loro sono così, non abbiamo aggiunto niente.

Funeralopolis
Adorando la bestia, Macao

Mi ha colpita molto la voglia ma anche il coraggio di tutti i ragazzi di mostrarsi e di raccontarsi, anche in momenti, in aspetti non facili, intimi e socialmente poco accettati. Vi siete mai interrogati sulle conseguenze che avrebbe potuto avere, o forse che ha avuto, sulle vite dei protagonisti questo documentario?
Per quanto riguarda Vash e Felce, secondo me, essendo molto vicini ad ambienti estremi, erano quasi felici di mostrarsi così al limite. Quando poi si sono rivisti, una volta concluso il film, si sono resi conto di non uscirne sempre benissimo, però erano consci che quella era stata la loro vita per un certo periodo e che era giusto raccontarla e mostrare una Milano che non si vede mai. Io invece mi sono fatto parecchi problemi, ho avuto molti dubbi, anche etici, e questo è successo dal primo giorno, quando siamo saliti sul treno e loro sono andati in bagno e si sono fatti la prima pera. Lì ho riflettuto e la risposta me la sono data con la famosa questione della fotografia di guerra. La fotografia di guerra racconta delle cose orrende e tu in qualche modo ci stai lucrando sopra, la stai facendo un’immagine tua, stai rubando un momento brutto, ma è altrettanto vero che stai raccontando la realtà. A un certo punto mi sono sforzato di ragionare come una telecamera vivente e non mi sono più posto il problema.

Funeralopolis
Beatitudine di morte, Cimitero Monumentale

Uno dei meriti del tuo documentario è anche quello di evitare un punto di vista didascalico. Gran parte del materiale filmico sul tema dell’eroina ha un fine educativo, più o meno esplicito. Nel tuo documentario invece non c’è questo sguardo, che si fa semplicemente portavoce del punto di vista dei personaggi in alcuni frangenti della loro quotidianità.
Ho deciso di farlo così sia perché credo sbagliato a prescindere dare una direzione rigida, fascista, di una situazione che non si conosce fino in fondo; sia perché oggi l’informazione moralizzante non funziona più. Come la pubblicità progresso, che ha perso il suo scopo, non ci spinge più a riflettere ma ne deridiamo il cattivo gusto. Ciò che porta a pensare è un prodotto che dà delle informazioni e dalle quali si può ricostruire un testo, un pensiero.

Come ha reagito il pubblico? Hai ricevuto delle critiche?
La maggioranza delle persone ha reagito bene, è riuscita a ragionare su ciò che ha visto e formulare un proprio punto di vista. Passaggio sicuramente che non è stato fatto da tutti, come quando è stata contestata la mancanza di una spiegazione, di una lezione educativa sull’eroina. Di fronte a questo cosa si può dire? È implicito che il messaggio del documentario non sia una spinta alla tossicodipendenza, ma d’altra parte non emerge nemmeno un’accusa diretta a delle persone che possono avere dei problemi e mille motivazioni per iniziare quella cosa lì.

Funeralopolis
Felce e Vash, Rogoredo

Com’è stata la distribuzione, in particolare nei festival? Ci sono state problematiche legate al tema delicato del film?
È stato un disastro. Porte chiuse dappertutto. Dopo questa esperienza ho sviluppato una certa avversione verso alcuni festival, che non apprezzano a prescindere un documentario che non nasce come un’indagine sociologica che espone un problema, un fenomeno in maniera totalmente esplicita. Ma non si può ridurre un documentario soltanto a quella funzione, altrimenti non si sta raccontando niente. Con la distribuzione, problemi su problemi, tant’è che alla fine, dopo che le case di distribuzione sia piccole sia grandi ci hanno chiuso le porte, lo abbiamo portato in sala noi. Al cinema Beltrade è stato l’incasso più grande dell’anno. Soltanto in un secondo momento la Tyconn Distribution in collaborazione con 01 Rai Cinema l’ha distribuito in home video.

Quando è uscito il dvd?
A maggio. È andato molto bene, su Amazon è stato in prima posizione come il documentario più venduto sul sito in Italia per due settimane. Questo dimostra che c’è un interesse da parte del pubblico per questo tipo di film.

Questo film è un piccolo miracolo. Partito come indipendente, alternativo ha poi raggiunto un vasto pubblico, un bellissimo esempio di come si possa fare del cinema che può raggiungere anche tante persone. Qual è stato il percorso a livello produttivo?
In realtà questa è la mia tesi di laurea (anche se durante la presentazione, dopo un minuto la Preside, sconvolta, ha intimato di spegnere tutto e non mi ha lasciato proiettare!). Sono partito da solo e l’ho concluso da solo con a fianco Ruggero Melis, sceneggiatore, e Daniele Fargone, aiuto regia. Abbiamo finito il film e siamo andati a bussare alle porte di K48, casa di produzione di Milano, alla quale il film è piaciuto molto e hanno deciso di firmarlo. Funeralopolis nasce in realtà come un film indipendente, prodotto da nessuno che poi è diventato un film prodotto da qualcuno e distribuito a livello nazionale. Credo che se non si riesce da subito a entrare in una casa di produzione, forse quello è l’unico modo sensato per fare un film. Ti “spacchi” per due anni e mezzo, tre, fai una roba tua e vedi se sei capace. A me è andata bene, anche se non credo sia tutto merito mio: i protagonisti sono due persone che si prestano e raccontano tanto, i miei due colleghi ottimi collaboratori con cui si riesce a lavorare molto bene. Bisogna farsi una mini troupe di gente che vuole raccontare qualcosa a prescindere da tutto e provarci.

Funeralopolis
Pace eterna, Cimitero Monumentale

Come mai la scelta del bianco e nero?
Il bianco e nero l’ho scelto per uniformare concettualmente il racconto: volevo che tutto avesse lo stesso peso all’interno del film. Inoltre, è innegabile che Funeralopolis sia un film ogni tanto faticoso da vedere, e il bianco e nero in qualche modo mette un filtro, che è poi il filtro del cinema. Mi è sembrato un buon compromesso per fare entrare lo spettatore in quel mondo senza scioccarlo e senza puntare su quello shock. Anche se chiaramente un certo turbamento c’è, soprattutto perché nei primi mesi in cui giravo avevo uno sguardo in qualche modo voyeuristico.

Fermiamoci un attimo su questo aspetto. Com’è stato per te stare così a stretto contatto, assistere, ricoprendo quindi un ruolo passivo, a delle esperienze così estreme, così forti?
Il primo giorno, come dicevo, mi sono posto tante domande poi mi sono detto: «o divento la camera o non riesco a finire questo film. Qualunque cosa succeda, io ragiono per inquadrature». Poi stando a contatto con quella realtà quotidianamente mi sono desensibilizzato.

Funeralopolis
Santificazione, Cimitero Monumentale

Per quanto tempo li hai seguiti?
Per un anno e mezzo. È curioso ma oggi noi vediamo questo film come una black comedy, anche se alla prima visione se ne esce storditi. Però c’è veramente tanta ironia nel film, ci abbiamo lavorato per fare uscire una certa leggerezza. Ogni scena ad esempio l’abbiamo chiusa con una battuta che spezzi la tensione. Altrimenti sarebbe risultato davvero insopportabile.

Hai avuto delle complicazioni mentre giravi? Hai dovuto utilizzare una telecamera nascosta in alcune scene?
L’ho girato tutto in Sony Alpha 7s, con un’ottica non particolarmente grossa, quindi riuscivo a nascondermi. Non sono riuscito invece a Rogoredo, dove ho girato con il telefono tutta la parte interna nel bosco. Non è una scena molto chiara, a tratti non si capisce che cosa stia succedendo, ma lo spettatore percepisce che è una situazione in qualche modo pericolosa e quindi a livello di linguaggio funziona.

Affari letali, Rogoredo

Negli ultimi anni si è tornati a parlare di eroina, soprattutto tra i giovanissimi. Tu che nel 2015 sei stato vicino a quel mondo, che opinione ti sei fatto?
Io ho visto solo un certo tipo di realtà, circoscritta qua a Milano. Dai racconti delle persone sembra che l’eroina sia tornata a circolare, da dati e ricerche emerge che la circolazione di eroina sia aumentata molto, del 300% negli ultimi cinque anni, e soprattutto tra i giovanissimi, anche tra minorenni. Appreso ciò, io mi sono risposto indagando una serie di fattori. Il primo è che nelle scuole non si fa più educazione alle droghe, perché non ci sono i soldi per farlo o sono stati tagliati i fondi. Un altro fattore sicuramente è la legge Fini-Giovanardi che ha messo sullo stesso piano la marijuana e le droghe più pesanti, facendo dei danni enormi sulla percezione delle persone degli effetti delle droghe. Ultimo fattore è l’informazione diretta che non funziona più come una volta: ormai siamo disabituati a sentire la lezione, ad accettare che qualcuno ci dica che cosa ci faccia male e perché.

Forse in questo caso l’informazione manca totalmente…
Senza dubbio. Manca l’informazione e quella che c’è non ha alcuna presa. Non a caso secondo me è giusto parlarne così di eroina, dando gli elementi e gli strumenti per mettere in moto una riflessione sul tema. Non serve più, e nemmeno mi interessa, finire il film con un cartello che riporta dei dati sulle morti da eroina. C’è bisogno di vivere in prima persona quella cosa specifica per attivare una riflessione, e sicuramente vederla al cinema è un’esperienza in prima persona.

Amen

Materiale fotografico realizzato da Stefano Mendeni.

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