08.07.2025

Nietzsche e l’eterno ritorno

Ripensare il tempo o addirittura negarlo?

«Un ritorno più o meno eterno, benché a scadenza remota.»
J. L. Borges, Storia dell’eternità, 1936


In un frammento della primavera del 1888, a pochi mesi dal crollo psichico che porrà fine alla sua esperienza intellettuale, Nietzsche scrive: «Se il mondo può essere pensato come una determinata quantità di forza e come un determinato numero di centri di forza, ne segue che esso deve percorrere un numero calcolabile di combinazioni nel gran gioco di dadi della sua esistenza. In un tempo infinito, ogni possibile combinazione sarebbe una volta, quando fosse, raggiunta. Sarebbe anzi raggiunta infinite volte. Sarebbe con ciò dimostrato un circolo di serie assolutamente identiche, il mondo come circolo che si è già innumerevoli volte ripetuto e che prosegue il suo gioco all’infinito»[1]. Commentando questo passo, Emanuele Severino afferma: «Nietzsche rileva che la misura della forza del cosmo è, per quanto immane, determinata, finita, ne segue che il numero di combinazioni (posizioni, mutamenti, sviluppi) di tale forza è anch’esso determinato e finito; poiché fino a questo momento è trascorsa un’infinità temporale (il cosmo esercita la sua forza finita in un tempo infinito) ne segue che tutte le combinazioni possibili della forza cosmica devono essere già esistite un numero infinito di volte e che quindi tutto ciò che accade è una ripetizione, e così pure tutto ciò da cui esso sorge e che da esso segue»[2].

Si tratta di una prima possibile interpretazione, di carattere cosmologico, di quel pensiero dell’abisso che è l’eterno ritorno, comparso per la prima volta sul finire della Gaia Scienza nel 1882 (edito in Italia da Adelphi). Nietzsche qui sembra credere a un presupposto deterministico, sostenendo che l’intero nostro cosmo sia dotato di una quantità di forza finita e determinata. Ma è logico, in quanto se questa forza aumentasse o diminuisse l’eterno ritorno non sarebbe più sostenibile sul piano fisico, poiché da un suo accrescimento ne deriverebbero infinite combinazioni che mai si potrebbero ripetere, se invece diminuisse dovremmo pensare a uno scenario finale di implosione cosmica. Ed ecco che questo assunto nietzschiano non può che qualificarsi con il ricorso alla dottrina del ritorno eterno dell’uguale, dato che la quantità finita di materia, di forze e di energia dell’universo e l’infinità del tempo si dovranno manifestare in combinazioni destinate a ripetersi eternamente. In realtà questa argomentazione poggia su un ragionamento scientifico fallace, in quanto non esiste né un numero determinato di centri di forza né un numero determinato di elementi. Di lì a pochi anni la fisica comincerà a concepire la divisibilità dell’atomo, rendendo potenzialmente infinito il numero di quei ‘centri di forza’ cui Nietzsche fa riferimento; e poi – spiegherà sempre la fisica – l’evoluzione del nostro universo è segnata dal secondo principio della termodinamica – quello dell’entropia – dove la progressiva perdita di energia e la trasformazione della materia non possono tornare in nessun caso agli stadi precedenti.

A tutto questo si aggiunge un fatto empirico abbastanza inequivocabile: nessuno ha mai avuto un’evidenza del ripetersi di un evento passato, del riproporsi di una medesima dinamica con la stessa composizione fisico-molecolare, esattamente uguale a come è accaduta in passato. Il punto sta nel fatto che l’idea dell’eterno ritorno non deve farci riflettere esclusivamente sull’ipotesi positiva di un ritorno di ciò che è passato, ma sulla messa in discussione della temporalità come idea di successione di momenti di presenza. Pensiamo alla nostra vita interiore: se la temporalità fosse davvero un semplice succedersi di attimi, uno dopo l’altro, questo spalancherebbe le porte a una concezione deterministica della realtà, dove tutto ciò che succede è determinato da ciò che l’ha preceduto, ma la nostra esperienza ci mostra il contrario. Dunque, l’eterno ritorno consente di pensare la temporalità del reale in modo diverso, al di fuori di una catena deterministica che condanna ogni momento dell’esistenza umana a essere travolto da quello successivo.

Esiste un significato della nostra esistenza che permanga al di là della sua scomparsa (e in definitiva della nostra scomparsa)? Sì, noi abbiamo la percezione che ci siano dei momenti della nostra vita che siano più pieni di esistenza di altri. Una notte d’amore, una serata con amici che non si vedevano da tempo, un incontro o una scoperta che ci cambierà la vita, una perdita o una nuova nascita sono tutti momenti che hanno una portata esistenziale più carica di significato di un pomeriggio passato a fissare il soffitto della stanza senza concludere nulla, di un’ora di lezione della materia che non sopportiamo o di una noiosa giornata d’ufficio. Si comprende qui come Nietzsche abbia aperto la strada alla riflessione di Henri Bergson sul tempo. Ne deduciamo che il tempo non sia qualcosa di omogeneo, non sia qualcosa di lineare, di semplicemente matematizzabile, ma che sia un che di qualitativo.

Nietzsche è in lotta serrata contro quella freccia del tempo che aveva condannato la volontà di potenza a un’aporia, in quanto la volontà avrebbe perso la pienezza della sua potenza. Questo Wille zur Macht, che si configura come essenza della realtà, non sarebbe in realtà pienamente libero, perché nulla può sul passato. Ma cosa sta dicendo Nietzsche? Ancora Emanuele Severino: «La volontà che vuole l’eterno ritorno raggiunge il culmine della volontà di potenza: volendo l’eterno ritorno delle cose viene distrutto l’ultimo bastione degli apparati immutabili (eretto in difesa del divenire), che sembrerebbe inespugnabile: l’immutabilità e immodificabilità del passato. ‘Ciò che fu’ è il macigno che la volontà morale non può smuovere. Essa non è capace di camminare a ritroso. […] Ma quando la volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose, diventa capace di volere a ritroso, perché il passato è anche il futuro e il futuro è il passato»[3].

Cerchiamo di comprendere. Nietzsche ha affermato, con una potenza assoluta, il carattere essenzialmente diveniente della realtà, ma allora come può affermare che ciò che è passato, ciò che non è più, debba di necessità ritornare eternamente? Sembra una contraddizione. Nietzsche aveva profetato l’inevitabilità della morte di Dio, cioè l’impossibilità a essere di forme immutabili, perché se questo ‘immutabile’ vi fosse non sarebbe possibile il divenire del mondo; tuttavia, il divenire della realtà è l’evidenza assoluta: le cose cambiano, si trasformano continuamente e costitutivamente. Il ‘passare’, cioè il trasformarsi di ogni realtà, è inconfutabile. Il mondo in quanto divenire è il continuo ‘passare’, il mutare di ogni elemento che lo compone da uno stadio ad un altro, e rispetto alla volontà – cioè alla capacità trasformativa della volontà – tutto ciò che è passato diventa un immutabile, diventa un ‘Dio’, cioè un qualcosa che si presenta con i tratti caratterizzanti del divino, che non può più essere raggiunto, modificato e trasformato dalla creatività del volere, che rimane come un eterno passato, come qualcosa che non è più e su cui la volontà non fa più presa. Occorre dunque cambiare la nostra accezione del divenire. Il divenire, così come lo abbiamo sempre inteso, non è altro che un regno dove nel suo passato si accumula e accresce sempre di più la quantità di tempo, di forza e di materia su cui la volontà non può agire.

Paul Nash’s Wood on the Downs (1930). Photograph: Aberdeen Art Gallery & Museums Collections

Scrive Nietzsche: «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza. Che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione»[4]. Nietzsche sta dicendo che l’essenza della realtà è il divenire, che l’eterno ritorno è l’essere del divenire, un divenire che è possibile solo se si presuppone una volontà che possa trasformare ogni realtà e agire anche sul passato non-più-immutabile. Ma cosa significa che la volontà deve poter agire anche su ciò che è passato? Certamente questo non significa che la volontà debba continuare a volere una determinata cosa in uno specifico tempo, per il semplice fatto che se la volontà continuasse a volere un qualcosa di ‘determinato’, fissandosi eternamente, questa non farebbe altro che riproporre a sua volta una struttura immutabile. La volontà, quindi, ha come caratteri propri da un lato la creatività nuova, il volere cose nuove, e dall’altro il fatto di dover continuare a far presa sul passato. In definitiva, dovendo coniugare il fatto che la volontà vuole sempre qualcosa di nuovo, e che allo stesso tempo il passato non possa sottrarsi alla capacità trasformativa della volontà stessa, allora ciò che la volontà vuole è un continuare a volere, infinitamente, le cose nuove che la volontà stessa progressivamente vuole. Evidentemente siamo di fronte alla struttura ontologica stessa del divenire così come la concepisce Nietzsche, che poggia e si installa sull’eterno ritorno.

Ancora Severino: «La distruzione radicale di ogni forma di immutabile è la distruzione che può essere ottenuta da colui che riesce a volere il ritorno del tutto. Così l’amor fati è la forma di estrema fedeltà al divenire. E l’oltrepassamento dell’uomo nel superuomo apre per Nietzsche la prospettiva della ‘grande politica’, che si lascia alle spalle tutte le forme di azione politica, socialismo compreso, più o meno direttamente legate alla morale e al timore dei deboli di fronte alla minaccia del divenire»[5]. Ancora una volta non è tanto il dire ‘sì’ a un meccanico ripetersi dell’uguale, il che non sarebbe altro che un ripetersi ritornante delle dinamiche del piccolo uomo, ma è il salto qualitativo a risultare decisivo: è il fatto che ogni ente e ogni istante – per come sono esistiti – sono necessari ed eterni. Questo è il grande ‘sì’ che l’oltreuomo dovrà trovare la forza di pronunciare per realizzare la ‘grande salute’, nella misura in cui questo sguardo dell’oltreuomo è al di là di ogni critica, di ogni divisione, di ogni giudizio, di ogni condanna e di ogni male. È il debole che vede il male, o meglio, è il piccolo uomo ad essere debole proprio perché vede ciò che gli fa male, cioè ritiene che vi sia qualcosa o qualcuno che siano per lui il male. La forza dell’oltreuomo, che è la sua grande salute, non ha nulla che le faccia male.
Come ci ricorda Tommaso Tuppini, Heidegger commentando Nietzsche sostiene che: «Se la volontà di potenza è il che cosa del mondo, l’eterno ritorno dell’identico è il come del mondo, il modo in cui funziona la volontà di potenza, lo stile dell’essere-volontà»[6]. È un superamento della storia, nella misura in cui l’essere umano è sempre stato schiacciato sotto il peso del tempo passato, di ciò su cui – come ha detto Emanuele Severino – la volontà non può più agire, che non può più essere cambiato e che si configura come un senso di colpa, un peccato originale.

Nash’s Event on the Downs (1934). Photograph: Government Art Collection, UK

L’eterno ritorno è dunque il modo d’essere dell’oltreuomo, dell’uomo che ride. Si è detto che porsi nell’ottica dell’eterno ritorno significa contrapporsi e rifiutare la concezione lineare del tempo come concatenazione di istanti, di momenti in cui ognuno di essi ha senso solo all’interno di una storia, cioè assume un significato non in quanto tale, ma in funzione degli altri momenti, passati e futuri. Il tempo che muore è quello delle religioni rivelate, quel tempo salvifico che assume hegelianamente l’univocità di un significato già tracciato, da sempre. Ecco, l’eterno ritorno non è escatologico, perché l’eterna ripetizione è tale anche per ogni forma di negatività, dalla sofferenza alla morte, dove tutto si ripete uguale, senza speranze di salvezza e di univocità assoluta. L’invito nietzschiano sta nel superare quell’idea stantia che vuole l’umanità ‘cammello’, piegata nel subire il proprio destino senza possibilità alcuna di poterlo trasformare. No, il destino lo si deve amare, cioè lo si deve volere.
Il tempo da uccidere è quel tempo che divora sé stesso, dove ogni istante è da pensare come un figlio che fagocita il padre: il momento presente che si nutre del momento passato, pronto a essere divorato a sua volta. Struttura edipica del tempo la chiama Gianni Vattimo, lasciando intravedere il senso di quell’attimo che signoreggia sopra la porta carraia nel celebre aforisma dello Zarathustra. L’eterno ritorno demolisce l’idea del tempo passato come immutabilità del senso, poiché nessun momento vissuto esaurisce pienamente in sé stesso tutti i suoi significati. L’eterno ritorno è l’aprire sul passato una prospettiva di modificabilità, farlo ritornare per trasformarlo ermeneuticamente, in un continuo gioco di interpretazioni, rompendo quello schema che voleva il passato come agente determinante del futuro. L’eterno ritorno è dunque l’autentica libertà che supera il determinismo che vede la storia futura vincolata alle necessità della storia passata, dei popoli come di ogni singolo essere umano, superando quello stadio di eterna nevrosi esistenziale che da sempre ha caratterizzato l’uomo.

Ma allora, l’eterno ritorno dell’uguale nega o no il tempo? Cela dietro di sé un’ansia di futuro, una sorta di preparazione per il futuro? Uno dei più grandi studiosi di Nietzsche del Novecento, Karl Löwith – allievo di Husserl e di Heidegger – nel 1936 scrive un libro dedicato a un collega di Nietzsche all’Università di Basilea, Jacob Burckhardt, un grande storico svizzero, a sua volta allievo di Leopold von Ranke. Nel primo capitolo di questo libro Löwith toglie a Nietzsche lo status di ‘inattuale’ e lo attribuisce a Burckhardt, scrivendo che l’eterno ritorno dell’uguale professato da Zarathustra altro non sarebbe se non uno stadio verso la redenzione metafisica dal passato in generale[7]. Alla fine, nella concezione della storia in Nietzsche, ciò che viene negato è proprio il passato, e quella di Zarathustra è una redenzione ‘dal passato’ come ciò che non può più essere.

Paul Nash, The Menin road 1919

Ma perché Burckhardt sarebbe molto più inattuale di Nietzsche? Perché Burckhardt si concentra essenzialmente sul passato: «Ricordare il passato è l’unico modo per garantire la continuità della storia, cosa che invece Nietzsche con la sua ansia da futuro (di radicamento nel presente in vista del futuro) non sa fare. Nietzsche, volendo agire contro il tempo e in favore di un’epoca futura, dovette radicarsi così profondamente nel tempo da volerlo infine dimenticare del tutto per poterlo ricominciare da capo nell’innocenza»[8]. È l’innocenza del fanciullo, ultima figura dell’Übermensch, che nel suo essere-nel-mondo non è costantemente compromesso e determinato dal passato, ma agisce con uno sguardo di sempre nuova scoperta, pronto a risignificare ogni volta la realtà che ha di fronte. In un altro scritto, di un anno precedente a quello su Burckhardt, Löwith si interroga anche sul senso che ha la ripresa dell’antichità greca (e in particolare di Eraclito) nella filosofia di Nietzsche. L’intuizione dell’eterno ritorno viene certamente dall’idea antica che la natura e il cosmo in un certo qual modo ritornassero eternamente – idea che comunque non era estranea al mondo greco, o prima ancora mesopotamico –, ma nessun filosofo greco, da Eraclito ad Empedocle, si sarebbe mai sognato di dire che questo fato ciclico – che loro considerano un dato di fatto – andasse anche voluto. Nietzsche invece parla di amor fati perché in lui questo ritornare ciclico diventa un’ansia da futuro, una volontà di inaugurare un’era nuova, dove l’ostacolo più grande risulta essere proprio il grande macigno del passato, del così fu, di cui l’umanità si deve liberare, redimendosi dallo spirito di vendetta, cioè indirizzando e facendo agire la volontà contro l’immodificabilità del passato e, constatato che di questo passato non ci si può liberare, lo si deve volere, lo si deve amare. Scrive Nietzsche: «Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida fin quando la volontà che crea non dica anche: ‘ma così volli che fosse’; finché la volontà che crea non dica anche: ‘ma io così voglio, così vorrò’»[9]. Questo è il Wille che ha imparato a volere a ritroso, e solo così potranno coincidere la volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale, dove ogni istante non assume significato sulla base dei momenti che l’hanno preceduto o di quelli che lo seguiranno, ma esso è accolto e voluto nella pienezza del suo significato come eternamente ritornante.



[1] F. Nietzsche, Opere, vol. VIII/3, Frammenti postumi 1887-1888, fr. 14 (188).
[2] E. Severino, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, Ed. SuperBur – Saggi, 2001, p. 127.
[3] E. Severino, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, Ed. SuperBur – Saggi, 2001, p. 127.
[4] F. Nietzsche, Opere, vol. VIII/1 Adelphi, Milano 1964, p. 297.
[5] E. Severino, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, p. 128.
[6] T. Tuppini, Nietzsche, Filosofica – Pagine scelte e commentate, con il «Corriere della Sera», p. 184.
[7] Si veda K. Löwith, Jacob Burckhardt, I. ed. 1936.
[8] K. Löwith, Jacob Burckhardt, 1936.
[9] F. Nietzsche, Opere, vol. II, Così parlò Zarathustra, cap. “Della redenzione”, p. 164.

""
categorie
menu