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Immagine e tempo. Bill Viola a Palazzo Reale



L’uomo, appena divenuto sapiens nel paleolitico, cominciò a far comparire statuette votive, caverne dipinte. Genera immagini artificiali pressoché da sempre e non ha mai smesso di produrle e consumarle. La variabile lungo secoli e millenni è stata qualitativa ma soprattutto quantitativa, con incremento esponenziale vertiginoso. Se possiamo supporre che l’uomo medievale medio avesse accesso lungo una vita a un numero ristretto di immagini – dipinti e affreschi nella chiesa dove seguiva le funzioni e poco altro – e l’uomo di fine ottocento tra stampa e città ottica ne consumasse svariate migliaia, è stato stimato che l’uomo contemporaneo tra mondo fisico e web entri in contatto quotidianamente con circa 400.000 immagini. Inevitabilmente nei grandissimi numeri la maggior parte delle immagini di oggi passa senza tracce di attenzione e memoria mentre alcune icone antiche di secoli continuano a proliferare. La produzione di un’immagine risponde sempre a pulsioni e criteri plurimi, più o meno consapevoli, più o meno equilibrati: in parte fattori pratici, pragmatici, dispositivi, in parte legati alle ideologie e alle credenze dominanti il momento storico dato, in parte espressivi e gratuiti, risultato di una elaborazione personale. Le prime due funzioni sono inevitabilmente contingenti e decadono o perdono forza nel tempo. Il lavoro di Bill Viola si situa esattamente in questo spazio: trovare immagini del passato che ancora parlano, riproporne gli elementi formali e compositivi innestando significati nuovi e presenti senza depotenziare l’archetipo.

La mostra antologica dedicata da Palazzo Reale all’artista americano viene aperta da un’opera fondamentale: The Greeting, del 1995. È un momento chiave per Bill Viola e segue una lunga crisi creativa. Dopo le prime opere sonore e di videoarte sperimentale e pionieristica (si trattava negli anni ’70 di un linguaggio giovane, al massimo alla seconda generazione dopo i primissimi esperimenti di Nam June Paik e Bruce Nauman), l’artista si trova in senso stretto e figurato in mezzo al deserto, non riesce a concludere un’opera ambientata nel deserto e torna alla figurativa rinascimentale e manierista che aveva ammirato nei diciotto mesi fiorentini del 1974 quando era direttore tecnico del laboratorio art/tapes/22. The Greeting replica nella composizione e nella cromia un capolavoro di Pontormo, la Visitazione, laicizzando e mondanizzando le identità e il contesto. Tre donne si incontrano in uno scenario urbano notturno: la scena in tempo reale dura 45 secondi ma viene stirata con un ralenti a 10 minuti. È una operazione sul tempo che cristallizza rendendo leggibile e esperibile ogni impercettibile emozione che passa sul viso delle attrici, ogni mossa di corpi e vesti. Come nel successivo Emergence, il quale replica la stessa pratica sulla Resurrezione di Masolino da Panicale, viviamo il tempo fuori dal tempo e quindi fuor di sesto, non misurabile, bergsoniano prima, durante e dopo una rivelazione, un’epifania, un miracolo non soprannaturale (a cui noi possiamo, se vogliamo, dare un contenuto preciso oppure no). L’elemento trascendente contingenze geografiche, temporali, ideologiche che faceva di quelle specifiche opere quattro-cinquecentesche capolavori senza tempo rivive nei video di Bill Viola che si fanno pittura in movimento, pittura più tempo – il tempo bergsoniano della durata abnorme, il tempo misurabile tra le date di Pontormo e Viola. C’è nell’operazione una metafisica specifica che discende da alcune domande fondamentali. Perché fermiamo un’immagine? Perché scegliamo che alcune immagini durino nel tempo? Che rapporto c’è con la transitorietà di ogni ente ed evento? La visione del mondo e la poetica di Bill Viola sono impregnate dalle filosofie orientali, si respira ovunque la dottrina zen dell’impermanenza. Infatti le immagini fluttuano (come nell’installazione The Veiling, in mostra) e la vita e la morte scorrono fianco a fianco (come nell’ultima sezione dell’allestimento dove si trovano la serie dei martiri e le ascensioni elementari nell’acqua e nel fuoco).

La poetica sincretica nel tempo e nello spazio di Viola propone un ponte tra l’esperienza del mondo al modo occidentale e orientale. Un esempio paradigma è un altro capolavoro che correttamente apre l’allestimento a fianco di The Greeting: Catherine’s Room (2001) è composto da cinque quadri giustapposti che mostrano una donna sola (eremita mistica e monaco zen) compiere gesti quotidiani in cinque diversi momenti della giornata. Lo spazio della stanza rimanda da vicino a quello dei santi anacoreti nella figurativa rinascimentale ma il ramo fiorito alla finestra e il variare della luce (tutte le stagioni in un solo giorno) sono elementi del mondo fluttuante ukiyo-e che tradusse in estetica la filosofia wabi-sabi. Bill Viola, soprattutto dopo la svolta ‘cinematografica’ degli anni ’90, predispone meticolosamente set e attori e poi lascia che siano colpiti, attraversati, illuminati da una grazia transeunte e transitoria. I suoi spazi, come scrisse, non sono «problems to solved but rather arenas to be inhabitated, to be encountered through Being». Il senso di questo incontro non è mai forzato bensì lasciato aperto alla sensibilità dello spettatore e, ancor prima, alle variabili umane e ambientali. Il giovane Bill Viola comincia lavorando con il suono e porta qualcosa dell’approccio serendipico nelle installazioni più articolate della produzione matura. Egli stesso annota come il film sia una elaborazione della fotografia ma il video discenda piuttosto dal microfono, lasciato aperto per catturare i suoni ambientali.

The Raft (2004, in mostra) è il concetto di The Quintet of Silence (2000, sempre in mostra: cinque uomini reagiscono con cinque climax emotivi individuali a un evento esterno indefinito) portato alle estreme conseguenze. Un gruppo eterogeneo per età, etnia, estrazione sociale viene improvvisamente colpito da un violentissimo getto d’acqua. Quello che sembrava un insieme neutro, inerte reagisce individualmente al trauma. Il solito ralenti permette di studiare le reazioni diverse allo shock nella mimica, nei movimenti, nella postura. Un grande dramma può essere dissezionato in molteplici microdrammi singolari. L’epifania nei quadri di Bill Viola è sempre trasformativa ma può ovviamente essere trascendenza come catastrofe. In questo caso la dimensione è metafisica e spirituale quanto concreta e politica rimandando ai temi urgentissimi dell’Antropocene con la moltiplicazione dei fenomeni atmosferici estremi conseguenti al cambiamento climatico. Il corpo, gli elementi e il loro incontro/scontro sono elementi ricorrenti nelle opere di Viola. C’è tanta acqua nei suoi video – fino dall’opera più antonomastica, The Reflecting Pool dove è doppio e soglia – e non stupisce. L’acqua è simbolo polivalente e trasversale: è l’elemento dove si è sviluppata la vita degli organismi pluricellulari, è la condizione necessaria alla sopravvivenza, è anche fenomeno catastrofico e mortifero; è centrale tanto nella simbologia cristiana tanto in quella buddhista e taoista. In The Emergence il corpo nudo, inerme, cadaverico passa attraverso una eliotiana morte per acqua che sicuramente è evento ma non è chiaro se sia resurrezione o soppressione. L’acqua è anche un elemento associato da sempre al femminile, un’area latrice di particolare valore nell’opera di Bill Viola, un valore riassunto in formula nel titolo Man Searching for Immortality, Woman Searching for Eternity.

Bill Viola, The Tempest’ still

The Raft è una cesura. Opera drammatica ma ancora acquea viene seguita, come anticipato, da una sezione finale dell’allestimento dedicata a opere più recenti dove invece domina l’elemento complementare, il fuoco. Sono lavori che trattano la prossimità con la morte e il senso ultimo dell’esistenza umana. Tuttavia, coerentemente con la visione di un artista tanto influenzato dalla visione orientale del mondo, prima di uscire ripassiamo dalla prima sala, a dire l’impronta di un eterno ritorno ciclico. Dopo essere passati attraverso gli elementi, dopo vita, morte e resurrezione si torna da capo. Bill Viola si appoggia al bagaglio iconografico dell’uomo occidentale contemporaneo, alle persistenze della storia dell’arte, ne estrae l’elemento atemporale, lo ibrida con altre ideologie, sensibilità, emergenze. Non c’è oleografia o citazionismo, piuttosto un senso quasi uncanny. Il risultato, nelle opere più riuscite, è la creazione di nuovi archetipi, di nuove immagini che usano le stratificazioni per generare senso nuovo, per indagare le aree profonde e radicali dell’esperienza umana.

Dal 24 febbraio al 25 giugno 2023 a Palazzo Reale, Milano.

A cura di Kira Perov.

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