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Vivere con un piede nel presente e uno nel passato. Una conversazione con Benedetta Cibrario



Se nella vita fosse necessario sostenere un esame di “virtù femminili”, io non potrei superarlo. Non ho mai tirato una sfoglia, pulisco solo perché devo, aborro l’ammorbidente, la velatura della polvere mi rassicura, specialmente sui libri. Ciò che decreterebbe per me una bocciatura senza appello è però l’assenza totale di capacità manuale: non so intrecciare, legare, rammendare, lavorare a maglia; e nonostante (pochi) volonterosi tentativi, non ho mai imparato a cucire. Sia messo agli atti che la mia inadeguatezza al ruolo di “angelo del focolare” è per me una medaglia al merito; e non di meno, ammetto di possedere qualcosa che potrei definire “invidia del rammendo”, esattamente come generazioni di antenate irrequiete e angosciate possedevano, a leggere Freud, un'”invidia del pene”. Poiché possedere un pene, ci spiega chiaramente il padre della psicoanalisi, elimina l’angoscia e calma l’animo; dunque, non averlo porta, necessariamente, a diventare esseri tormentati, capaci solo di odiare le altre donne, madre inclusa. Non va meglio ai maschi, i quali, quando si accorgono che le bambine sono prive del loro rassicurante attributo, sperimentano un sentimento chiamato “angoscia di castrazione” che li porta, naturalmente, a temere e detestare tutte le donne, madre inclusa.
A oltre un secolo di distanza, la “misoginia fatale” di Freud andrebbe sepolta insieme al suo autore; e i libri in cui si teorizza lasciati a prendere tutta la polvere che meritano. Lo dico perché questa visione distorta e binaria di maschile e femminile ha segnato fin troppo profondamente la cultura e dunque la letteratura del Novecento, relegando le (poche) donne e le (rare) storie che le riguardano nella dimensione castrata dell'”alterità”. Tra le molte ricadute positive di una nerboruta ripresa del dibattito femminista e le conseguenze dello tsunami occidentale scatenato dal movimento #metoo (in italia #quellavoltache) c’è un varco, aperto con la forza: un “spazio per le donne” (come titola il breve e denso saggio di Daniela Brogi uscito quest’anno per Einaudi) in cui finalmente le autrici di oggi riconoscono alle donne di ogni tempo il loro posto nella storia.

Ricomporre la storia delle donne è come pensare di rimettere insieme i frammenti del fregio del Partenone dopo il bombardamento delle truppe veneziane: l’accanimento all’oblio, la dispersione volontaria, la rimozione dei frammenti, la cancellazione e la depredazione di ciò che le donne hanno fatto o contribuito a fare è così sistematica che occorre moltissima fatica per recuperare e ricucire i pochi, preziosi reperti. Eppure, per ogni pezzo di storia che si arricchisce delle donne che l’hanno fatta, ognunә di noi deve essere gratә a chi l’ha scovata, assemblata e restituita, perché ci rende una storia finalmente completa e indubbiamente carica di significato.
Sia chiaro: nel tempo in cui l’orrore atomico risorge, negli anni del trumpismo e del fanatismo antiabortista, di fronte alla cronaca ripugnante di talebani e pasdaran, ogni celebrazione di machismo così come l’autoassoluzione del maschile connivente è un atto di guerra. Mentre l’orizzonte si fa scuro e le donne muoiono in quanto tali, è tempo di decidere come raccontiamo la storia, quella che è ora al pari di quella che fu.

cibrario

«Mettere ordine è diventata la mia parola d’ordine. Sistemare ogni cosa al suo posto. Smistare i ricordi, disinnescarli e arrendermi alla mia memoria autobiografica debordante, altro che superiore. Metto in prospettiva, non posso archiviare. Da bambina credevo vivessimo tutti così, immersi in un eterno presente. Per me l’espressione “vivere con un piede nel presente e uno nel passato” è letterale, esperienza quotidiana.»

Perdonerete questa mia lunga introduzione, ma ne capirete il senso tra poco. Era necessario spiegare prima perché uso questo spazio per una dichiarazione d’amore – letteraria, ça va sans dire – a Benedetta Cibrario, che ho avuto il piacere di intervistare in occasione del festival letterario Presente Prossimo. Il pretesto me l’ha dato l’uscita del suo ultimo libro Per ogni parola perduta (Mondadori) che perfettamente si innesta nella sua opera, con cui ricuce frammenti di vita di personaggi che attraversano la grande storia. In quest’ultimo lavoro, Benedetta rammenda tra loro vite assai diverse, che si intrecciano a seguito di una morte improvvisa:

«Mi chiamo Nicola Obreskov. E sono morto questa mattina.
È stata una sorpresa. Credevo che sarebbe stato un giorno come gli altri, un po’ più faticoso forse, perché mi sono svegliato all’alba, in tempo per prendere un aereo, e ho dormito poco in volo – colpa di una turbolenza che ci ha fatti sobbalzare dal decollo all’arrivo. Nessun preavviso che un giorno cominciato come tutti gli altri potesse essere l’ultimo. Nella sua normalità rassicurante non avevo notato nulla di sospetto.»

La morte di Nicola è l’innesco di un intreccio quasi impossibile da raccontare, pena la riduzione del romanzo a un elenco di personaggi, dei luoghi in cui si muovono e degli eventi che li uniscono o li separano. Usando il romanzo come una sorta “lanterna magica”, Cibrario anche questa volta lascia che i suoi personaggi manipolino il tempo e lo spazio attraverso le loro connessioni, permettendogli di muoversi attraverso l’Europa e la sua storia con la disinvoltura propria del cinema e del teatro, che abbattono i confini di luogo e tempo connettendo spettatori e protagonisti con il grande potere dell’empatia.
Quando il sipario si alza, nella casella di partenza ci sono: Sofia, gettata dal lutto in una depressione apatica; Edmund, che si è appena aggiudicato il reperto che darà valore alla sua collezione di cimeli storici; Pauline, enigmatica e testarda custode dei libri di suo padre; Xavier, che ha viaggiato in tutti i modi possibili; e naturalmente Nicola, la cui morte non basta a fermare la sua attività di ricerca. Mentre la narrazione si dipana e i personaggi si muovono, incontrandosi o separandosi, il tempo smette di avanzare in modo lineare e l’umanità di ieri e di oggi appare un intreccio armonico di esistenze, la storia un incantevole arazzo di cui, più siamo vicini, più ci sfugge la visione d’insieme, tanto siamo distratti da dettagli minimi.
Come in altri lavori (Rossovermiglio e Il rumore del mondo in primis) al centro delle storie di Benedetta Cibrario c’è un incontro tra donne recise dal proprio uomo (marito o padre) e perciò improvvisamente libere come non sono mai state, segnate dal proprio vissuto, la cui spinta reciproca alla comprensione e alla solidarietà, spesso concreta e materiale, è capace di modificare in meglio la vita di ciascuna di loro. Non voglio certo appiccicare all’autrice un intento femminista; e non di meno, il soccorso e la cura che le sue protagoniste dimostrano incontrandosi sono indubbiamente il motore più potente delle sue narrazioni. Così, glielo chiedo esplicitamente.

Le donne nei tuoi romanzi hanno sempre un ruolo centrale. O meglio sarebbe dire: la trasformazione delle tue protagoniste dopo un trauma è il motore della narrazione. Lo riconosci come un filo rosso del tuo lavoro?
Mi piace raccontare di personaggi che sanno essere fluidi, che si scontrano o si adattano alle circostanze. Tutti ci trasformiamo, vivendo. Chi di più, chi con fatica, ma evolviamo. Siamo esseri umani, adattabili e trasformisti. Per default.

I tuoi personaggi si muovono nella storia e nel mondo come testimoni di momenti-chiave del passato, ma anche e soprattutto armati di passioni e fragilità umane. È una combinazione che persegui volontariamente o è una sorta di side-effect della creazione delle tue storie?
È tutto molto volontario. Siamo effimeri e provvisori, ma ci confrontiamo quotidianamente con la Storia e ce ne rendiamo conto solo retrospettivamente. Siamo la Storia e le storie di domani. E le storie di oggi.

cibrario

Dopo aver pubblicato diversi romanzi di sempre maggiore successo, riesci a mettere a fuoco come nascono i tuoi libri? Cosa succede, cosa ti fa scattare in una storia? Cosa cambia in te e come capisci che è “la storia giusta”?
Si tratta di un lento assorbimento di quello che ho attorno. Mi muovo, leggo, faccio una vita molto normale ma, senza esserne del tutto consapevole, accumulo immagini e idee. Mi annoto tutto in mille foglietti che perdo, oppure si tratta di fotografie, o di conversazioni ascoltate casualmente, in treno, al bar. O di un gesto osservato per caso, spesso perfino uno sguardo tra due sconosciuti. Un trafiletto su un giornale. La didascalia di un quadro, cose così.

I tuoi romanzi, così documentati e precisi nella ricostruzione storica, sono caratterizzati dall’unione di molteplici stili. In quest’ultimo lavoro, ad esempio, al romanzo vero e proprio si mischiano il memoir, il romanzo epistolare e il saggio storico. Come nasce questo mix?
Dalla convinzione che il romanzo è più vivo che mai. Si presta a essere manipolato, esplorato, si adatta al tempo in cui si scrive. Cerco di usare tutte le sfumature e i modi di espressione che ho a disposizione, adattandoli a quello che voglio raccontare. Il romanzo è polimorfo, per natura.

La formazione di un’autrice è sempre eterogenea. Come avviene la tua? Quale letteratura ti ha formato e quali altre forme narrative? 
Mi hanno formato l’amore per il cinema e la curiosità per la letteratura. Sono stata una lettrice (e una spettatrice) onnivora, e continuo a esserlo. Mi piace leggere i classici e ancora di più la letteratura contemporanea, italiana, anglosassone, americana, spagnola, francese. I russi, i tedeschi, i greci. Ma ho ancora immense lacune, e la tristezza di sapere che non si può leggere tutto. Costretti a scegliere, come nella vita. E allora mi rassegno, e immagino che le scelte che faccio finiranno con essere quello che mi definisce. Con grandi lacune e alcune ricchezze.

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