«Non credete a questa storia, è simbolica, farneticante, totalmente esagerata.»
C’è un mondo post-catastrofe: una guerra non vinta da nessuno, un’inondazione, eventi che hanno annientato il fisico e la mente. Gli esseri viventi si trascinano sulla terra impregnata di acqua e fango, entrano ed escono dagli edifici in stato di abbandono «come ratti», si aggirano per le vie, conducendo «liti subumane», portando avanti la propria esistenza senza farsene carico, un’esistenza che è priva di vita. Non c’è più nulla di umano, solo uno stato di «decomposta sopravvivenza». In questo scenario, ha luogo l’ingresso in scena della Sublime Costruzione: un cantiere perenne, un foglietto con la dicitura «è l’ultima occasione per riprendervi la dignità che vi spetta! Non perdetela: la fortuna è cieca, non saprebbe ritrovarvi ancora!». Ed è così che iniziano le peripezie di Andrej che scaturiscono dalla penna di Gianluca Di Dio (Voland, 2021).
Non so quanto vi sia di vitale nella forza che spinge Andrej, il suo amico Årvo e tutti gli altri compagni a salire sulla corriera quella notte, a dare il la al viaggio che viene narrato. Non vi può essere nessuna reale voglia di vivere in una simile condizione di subumanità – «penso che quasi nessuno si fosse conservato puramente umano. Nessuno possedeva altro che sé stesso e come tale si nascondeva al mondo nel terrore di far gola alla natura o di vedere specchiato in qualcun altro il ghigno mostruoso del soccombente».
Sembra qualcosa di meno di un istinto di sopravvivenza a smuoverli, forse appena un barlume di essa. È qualcosa di invece molto più simile alla noia, nelle sue molteplici accezioni. O forse, ancora meglio, è la ricerca disperata di un senso da dare al residuo di esistenza che hanno in dotazione in quanto esseri viventi: e quale modo migliore per dare un senso al proprio tempo del lavoro?
Alienati, annientati, l’unico scopo di cui un’esistenza può ancora farsi carico è il lavoro.
«mia moglie è rimasta a casa, ha voluto che andassi, ha detto che si può essere felici comunque, anche senza nessuno vicino… vero?… È… è il lavoro che ci salva, vero? Lo sa anche lei che è così? È il lavoro che ci fa dimenticare ogni cosa, è il lavoro, vero o no?»
Il tempo in cui si muovono i personaggi è dilatato, lo spazio è buio. Questo buio però, dato dal luogo chiuso della corriera, non si contrappone a ciò che c’è fuori, buio anch’esso: la solita dicotomia tra spazi chiusi e aperti viene annientata dal fatto che tutto il mondo sembra essere un grande spazio soffocante dal quale non si può sfuggire, nonostante il viaggio. Anzi, l’oscurità esterna è, se possibile, resa ancora più inquietante dalle eccezioni di luce, che permettono di vedere la desolazione, dagli ambienti immacolati di neve, simbolo completamente capovolto di segno – cosa può esserci ancora di puro, di virgineo in un mondo corrotto a tal punto nella forma e nella sostanza?
C’è di più. Il viaggio compiuto da Andrej e Årvo di La Sublime Costruzione è arricchito da peripezie che rivisitano i cinque più celebri e indimenticati episodi delle vicende di Ulisse: l’incontro con le sirene, i lotofagi, Polifemo, Circe e la discesa nell’Ade. La costruzione narrativa si arricchisce quindi con questa scansione episodica mitica e al tempo stesso modernissima: l’ingresso alla grotta del ciclope è costituito dalla serranda di un bar di una pompa di benzina abbandonata, la dimora di Circe è una villa sfrenata in cui vige una sorta di pornocrazia.
E allora forse che i richiami mitici in questo mondo post-apocalittico vogliano dire qualcosa del nostro tempo. Questi personaggi sono disposti a lasciare le proprie abitudini – poco importa quanto trascurabili e prive di scopo – per cercare un senso nel lavoro che li aspetta in un cantiere perenne, perfetta immagine della parabola esistenziale moderna. Perché forse Andrej e i suoi compagni nel testo narrativo non hanno altra scelta – eppure un’altra opzione, a dir la verità, c’è sempre.
I personaggi sono soli, chiusi «in un eterno e inespugnabile eremitaggio». Creano rapporti, amicizie, certo, talvolta alleanze, reti di supporto, ma finiscono sempre, irrimediabilmente separati. Proprio come Ulisse.
Il tutto è narrato con una prosa ipnotica, lessicalmente molto densa, perfettamente adatta a una vicenda in verità molto meno avventurosa di quanto si possa immaginare leggendo del testo accostato alle vicende omeriche. Una prosa dal tasso di figuratività molto alto, che procede per immagini, per tratteggiare nella maniera più efficace possibile un paradigma esistenziale, dando il compito al lettore di catturarne il senso ultimo.
«Questa è la storia di quella ricerca ossessiva e vana, una sorta di ricostruzione, o meglio di riedificazione del tempo di un essere umano, decennio dopo decennio, giustapponendo frammenti di una vita tarlata da sogni e allucinazioni, proprio come quella di un qualsiasi reduce di una lunga guerra.»
Il suggerimento presente nel Prologo è la chiave di decodifica: cercare all’interno della narrazione «le tracce di una storia comune, che non distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo. Una costruzione infinita a cui tutti partecipano, eternamente, senza scampo», un andamento temporale ciclico al quale non si può sfuggire. Perché la «ricerca ossessiva e vana» del luogo finale da raggiungere, culmine della realizzazione personale, di un potenziale compimento ultimo, è un miraggio:
«e tutto il viaggio compiuto, alla fine, non è altro che un interminabile ritorno al punto da cui sei partito, al luogo che hai abbandonato.»
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Immagine di copertina: Michal Pech tramite unsplash