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Trasmutare il mondo attraverso la lingua.



«Il romanzo mondano si è sviluppato ignorando il fatto che siamo inseparabili dal resto del mondo, che siamo visceralmente e totalmente intrecciati a forze ed entità non-umane». Lo scrive nel suo saggio L’antropocene inconscio, Mark Bould, che prosegue ancora dicendo: «I
nostri incontri con tale agency non-umana non consistono nella scoperta di qualcosa di nuovo, ma nel recupero di qualcosa che era stato dimenticato: non agnizione, ma anamnesi». Secondo il saggista inglese, il romanzo borghese non è più adatto a raccontare la fine del mondo come la conosciamo, ovvero il disastro causato dalle nostre azioni, dalla nostra hybris nel voler controllare i fenomeni non-umani che governano il nostro pianeta.

Secondo Bould, dunque, c’è bisogno di forme ibride per far emergere un perturbante invisibile, ma comunque noto, la cui volontà di sottomettere ha messo in pericolo il nostro pianeta. Un esempio di forma ibrida è quella che Huw Lemmey, esponente di spicco del panorama radicale e LGBTQIA+ anglosassone, ha realizzato assieme alla poeta Bhanu Kapil e ad Alice Spawls con Lingua ignota (traduzione di Enrico Gullo, timeo 2023), una rielaborazione della vita della mistica e dottora della Chiesa Ildegarda di Bingen, la prima ad aver inventato una lingua artificiale – la lingua ignota del titolo – per raccontare le sue visioni mistiche di epidemie, mondi in fiamme, ma allo stesso tempo la viriditas, l’energia vitale che parte dalla comunione fra corpo, anima e ambiente circostante.

Questo romanzo particolare si apre con la biografia di una santa bambina scritta da Bhanu Kapil. Siamo nel 2120 ad Avaaz, pianeta che un tempo si chiamava Terra, con l’orfana Pinky Agarwalia, che rinviene in un blocco di ghiaccio un frammento scritto in una «lingua ignota», «instabile, convettivo, raggiante» che «non può essere estratto, così come l’universo reale non può essere pianificato». Questo frammento sembra contenere «un archivio di informazioni condivise» che possono aiutare Avaaz a intraprendere una svolta. La bambina inizia, allora, a decifrare il frammento, e vi legge la storia della mistica Ildegarda di Bingen. Ha inizio, così, un racconto nel racconto, quello della badessa di Disibodenberg e seguace di Bernardo di Chiaravalle, in cui il passato del Medioevo si fonde con un futuro distopico governato dalla Santa Occupazione – di cui Bernardo diventa qui la massima autorità al servizio della guerra per preservare l’igiene delle città –, dove i pochi governano le città e si arricchiscono attraverso la trasformazione urbana, e dove si trovano droghe come l’hashish, la prostituzione e rifugiati ridotti allo stadio di bestie costretti a vivere ai margini delle città. In questo futuro sospeso nel tempo, Ildegarda non cerca soltanto una lingua per raccontare l’apocalisse, ma un modo per conviverci e per cercare di cambiare il corso degli eventi.

L’operazione svolta da Lemmey, Kapil e Spawls risulta nel panorama editoriale attuale qualcosa di innovativo, ma che ha comunque dei precedenti. La trasposizione della storia di Ildegarda di Bingen in un futuro dispotico a metà fra passato e presente ricorda molto il metodo mitico impiegato da T.S. Eliot nel suo La terra desolata, ma anche da Anne Carson in Autobiografia del Rosso, espediente letterario che consiste nel trasporre le storie del mito per raccontare la contemporaneità e mettere a confronto la fertilità spirituale del passato e la sterilità e alienazione dell’uomo contemporaneo. Se il lavoro di Lemmey ha con il primo in comune la denuncia della sterilità del nuovo mondo e la sua incapacità a confrontarsi con la fine del mondo attraverso la lingua, con il secondo, invece, ha in comune la rielaborazione di una biografia di per sé frammentaria e rielaborata a livello metanarrativo per raccontare il presente. In questo senso è utile usare le note che Kapil scrive alla fine del frammento dedicato a Pinky: «Le biografie sono uno studio su come si sopravvive a qualcosa che in realtà stiamo solo attraversando». In queste parole riecheggiano, dunque, quelle di Bould citate all’inizio dell’articolo: l’operazione fatta da Lemmey non è altro che un’operazione di anamnesi in cui si arriva a riconoscere che stiamo già vivendo la fine, si tratta soltanto di trovare nuove forme per raccontarla, e per farlo bisogna ripercorrere il passato e trovare chi ha già sperimentato il presente che stiamo vivendo, ovvero Ildegarda di Bingen.

La mistica inizia, allora, a raccontare il suo vissuto dalla fine del mondo, dal «medievale lerciume» di prostitute e papponi avvolto dal fumo dell’hashish dove città su città si inglobano l’un l’altra per creare un palinsesto di rovine e distruzione. La mistica vede in questo Medioevo futuristico come a trarre vantaggi sono soltanto poche persone che poco si preoccupano degli stravolgimenti ambientali che la trasformazione urbana e il progresso tecnologico portano con sé. Nel mezzo di questo «orrore pornografico» e di questa «eccitante apocalisse», Ildegarda, ridotta qui a dipendente dell’Amministrazione Sanitaria, vede nella marginalità dell’hinterland e dei Tafur  – i rifugiati che vivono ai margini della città poiché considerati feccia dalla Santa Occupazione – «un luogo di grazia», un luogo incontaminato e lontano dall’urbanizzazzione dove i suoi abitanti vivono come bestie, dove Ildegarda può abbandonarsi all’amore che prova per una ragazza punk – impensabile per la Santa Occupazione, che bolla certi legami come segni di dissolutezza epidemica –, ma dove la mistica trova qualcosa oltre l’umano, qualcosa con cui convivere per superare l’apocalisse:

«Abbandonando la città, sentii nella natura un ritmo che sfugge al controllo umano. Io non ero che un nodo nella sua rete, nella sua infinita espansione. Questo sacro movimento della vita, che oltrepassa i limiti del linguaggio, presi a chiamarloviriditas. Questo termine è solo un gesto che accenna a tutto ciò che è sacro, inafferrabile. Solo Dio, la divinità vera che abita ogni atomo vibrante dell’universo, può unire sostanza e segno».

In questo mondo contemporaneo e al contempo passato, Ildegarda cerca una lingua che, parafrasando le parole di Pinky, aiuti a far sì che «possiamo imparare dai nostri fallimenti e scrivere cosa abbiamo lasciato indietro». Ildegarda ha bisogno di una lingua che l’aiuti a decifrare quello che ha vissuto col suo corpo e con l’anima, in quanto «le parole sono sempre e solo segnali emessi dall’esperienza dei viventi, dei mortali», quando invece ha bisogno di qualcosa che l’aiuti a esprimere l’interezza del suo essere, e quindi anche ciò che non appartiene all’esperienza mortale. Come raccontare, allora, l’esistenza di una agency che governa le nostre azioni? Come si può vivere un mondo nuovo abitando una lingua che ci mostri la via e ci salvi dalla fine? La lingua che parla Ildegarda è quella della trasmutazione, quella cioè della reinvenzione di mondi già immaginati per raccontare la mondanità del nostro quotidiano, la nostra arroganza nel porci al di sopra degli altri, in particolare al di sopra della natura. Vivere con i Tafur nella foresta ha aiutato Ildegarda a riconoscere l’esistenza delle sue ferite e di quelle altrui, ma anche il rispetto di ciò che la circonda, il silenzio della sua vastità, che ci mostra come non siamo i soli a vivere sulla terra. Soltanto se si riconosce l’esistenza di qualcosa di più grande di noi, se si riconoscono le fragilità dell’altro e se si pone l’uomo ai margini più che al centro della terra si può salvare l’umanità.

Lingua ignota incarna, dunque, quella che dovrebbe essere la soluzione perfetta al superamento del romanzo mondano descritta da Mark Bould. Attraverso la viriditas e le visioni di Ildegarda di Bingen, Huw Lemmey, Bhanu Kapil e Alice Spawls ci mostrano come dev’essere veramente il romanzo: qualcosa di multiforme, ibrido, che metta ai margini l’umano per abbracciare il non-umano. La storia di Ildegarda diventa specchio del nostro presente e del nostro futuro: stiamo già attraversando la fine del mondo, che comunica con noi attraverso la catastrofe e l’azione di fenomeni perturbanti e impercettibili. Sta a noi addentrarci al suo interno attraverso una lingua nuova, a capire che non siamo le uniche forme di vita sulla terra, che siamo fragili al cospetto della vastità dell’universo, e che bisogna rispettare l’ordine naturale delle cose, accettando, dunque, l’esistenza di forme ibride di vita, pensiero e amore.

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