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Teatro nero di dolore e Timor Dei. Lei che non tocca mai terra di Andrea Donaera



Distese infinite di ulivi, terra rossa, tamburello: elementi che compongono l’ennesima cartolina perfetta da riportare a casa, o uno scatto di cui farsi vanto con amici, colleghi, parenti durante le tediose giornate d’inverno con le vacanze in Puglia lontane. Eppure, per chi quella terra l’ha abitata o la abita, questi dettagli sono potenzialmente molto altro: possono rimandare all’antico, all’ancestrale, e farsi ambientazione di una modernissima tragedia. E questo è senza dubbio il caso di Lei che non tocca mai terra (NN Editore).

Il Salento di Andrea Donaera è il Salento di chi ci vive e ci passa ogni giorno, di chi vede una città vuota e il mare invernale grigio che, per quanto ormai romanticizzato anch’esso dai più, a ben guardarlo di romantico ha ben poco, con le sue onde gonfie e sopra di lui le nuvole cariche di una pioggia imminente. Gli elementi paesaggistici di chi tanto ama la Gallipoli da cartolina qui vengono capovolti di segno, assumendo un significato uguale e contrario: il tamburello della pizzica si fa strumento d’esorcismo, gli scenari di ulivi e terra rossa l’ambientazione ideale per conficcarvi in mezzo un santuario freddo e ostile, luogo di macabri eventi. 

Lei che non tocca mai terra

La scena narrativa si apre su Miriam, una ragazza in coma, attorno alla quale gravitano le persone della sua vita: c’è Andrea, un giovane innamorato che vuole riportarla indietro con tutto se stesso; ci sono Mara e Lucio, i genitori, vittime di un matrimonio senza amore e segnato da una tragedia; c’è Gabry, un’amica passata e lontana. A questo quadretto di famiglia disfunzionale si aggiunge papa Nanni, un esorcista misterioso dalla lunga barba, presenza ingombrante che attraversa in maniera trasversale tutta la storia – come le vite di quasi tutti i protagonisti.
La vicenda si delinea lentamente, senza fretta prende corpo attraverso la voce di questi personaggi. Tramite le loro parole l’autore dissemina tracce e dà indizi ai propri lettori, fornendo chiavi da preservare in attesa della decodifica finale.

E se la voce è quella dei personaggi, ciò significa che la pagina si fa specchio: i caratteri di stampa si propongono di riflettere l’immagine senza aggiunte e senza orpelli narrativi. Andare a trovare Miriam e dirle delle cose diventa equivalente per ogni personaggio del salire su un palco e sviscerarsi, parlare di sé senza filtri, e sono esattamente quel dolore e quella sincerità verbalizzati a essere materia di lettura (e di letteratura). E forse è proprio l’assenza di filtro e la vicinanza alla tragedia, è la disperazione a far prendere ai sentimenti vissuti dai personaggi le sembianze di estremi, radicali nel bene e nel male. Niente grigi, solo passioni assolutizzate e portate alle massime conseguenze.

«Il Male invece lo puoi esperire, eccome. Così dice papa Nanni. E papa Nanni dice pure che Dio è l’amore, mentre invece quello terreno è un amore. Dice che è per questo che un amore terreno fa soltanto male: perché non lo si può percepire, lo si può soltanto toccare, vedere, fare.
Penso che il mio, se tu non ti svegli, Miriam, è un amore che si può soltanto percepire. Non toccare, non vedere, non fare. Un amore che non tocca mai terra. Se non ti svegli. Penso.»

C’è un ritorno del pensiero anche della giovane in coma, con una non canonica forma di narrazione che tenta di dare voce a chi non può avere una voce: parole che sembrano scaturire dall’oltretomba – o dall’etere in cui la mente di Miriam dovrebbe essere bloccata –, sensazione avvalorata anche dalla presenza di un diverso carattere tipografico piuttosto scheletrico.
Questa diversa voce, che in realtà è anche una diversa lingua, si somma alle altre stratificazioni. Infatti se la storia è veicolata dalle voci dei personaggi, ciò vale sul piano del punto di vista – ogni personaggio è inevitabilmente portatore di un proprio sguardo sul mondo – ma anche sulla scansione del ritmo narrativo, incentrato sull’oralità

La lingua dialettale di Donaera, come già nell’esordio narrativo Io sono la bestia (NNE), ha il grande merito di risultare credibile a chi il salentino lo conosce e comprensibile a tutti gli altri. Non c’è niente di forzato in questa abbondanza di u: il dialetto è la lingua naturale di Lucio e degli altri, non è un artificio. Parlare di sé, o parlare in generale, implica che venga utilizzata la lingua reale, sentita: è evidente che un certo tipo di dolore può essere raccontato solo nella maniera che si sente più vicina all’animo. Tutto il resto rappresenterebbe solo una mera imitazione quasi parodistica della sofferenza.

«E facciu pensieri strani, brutti, mi viene da pensare come se mò questa cosa del coma è la punizione che ci tocca perché ti abbiamo passatu lu malesangue nostru. Certe volte iou pensu puru a ‘ste cose, mannaggia mia. Mi sentu come se tengu lu cervellu distruttu.»

Lu malesangue che il padre di Miriam per primo menziona, e che ricorre sempre più spesso finché il lettore finalmente non scopre l’angosciante storia familiare che fa da sottotesto a tutta la narrazione, riprende il tema di un’ereditarietà della colpa, concetto antichissimo, che in questo caso specifico si lega fortemente a quello religioso. Il Timor Dei è la chiave di tutta la trama: la fede è una fede cieca, e in quanto cieca non può riguardare solo spirito di carità, solidarietà e valori positivi.

Lei che non tocca mai terra porta in scena il dolore, il Male e l’Amore che «è più forte del Male», un Amore salvifico ma non per questo manchevole di problematizzazione, e lo fa con lingua vivida e viva. Un orizzonte lugubre e ombroso è sfondo di un tripudio di voci, linguaggi e lingue.
E forse, una volta immersi in questa favola nera, a libro chiuso e depositato sullo scaffale, ci si scontra con la difficoltà di guardare ulteriormente quella cartolina turistica di Gallipoli senza un’impercettibile smorfia di disprezzo.


Photo credits
Copertina – Mathilde Ro tramite Unsplash

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