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La nostra salvezza è la menzogna. Un incontro con Giorgio Montefoschi fra i sentieri letterari dell’amore borghese


Mi piace, leggendo, trovare dei sentieri.
Inizio con un testo, per esempio la Noia (1960) di Moravia: l’atroce rapporto amoroso tra Dino e Cecilia; Dino che cerca di degradare l’amata rendendo la loro relazione mercenaria; Cecilia che accoglie tutto passivamente, quasi come un Bartleby nostrano; le loro schermaglie impigliate nella realtà che non può essere diversa da ciò che è, pura superficie inscalfibile, come l’ostinazione gelosa di Dino e le menzogne indifferenti di Cecilia. Un romanzo ancora modernissimo, penso, ma non adatto ai nostri tempi, scandalizzerebbe il nuovo puritanesimo che vorrebbe abolire la psicologia e il pensiero dei personaggi (perché i pensieri raramente sono manichei). Un pensiero di Dino: «Guardando Cecilia mentre mi stava accanto sul divano, dopo l’amore, supina e con le gambe aperte, io non potevo fare a meno di confrontare la fenditura orizzontale della bocca con quella verticale del sesso e di notare, meravigliato, quanto la seconda fosse più espressiva della prima».

Aperta la strada di questo sentiero, procedo con L’odore del sangue (scritto nel 1979 ma pubblicato soltanto postumo) di Goffredo Parise. Ancora Roma, ancora una coppia – stavolta tradizionale – di cui cede di schianto uno dei due elementi, Silvia, raccontata impietosamente da suo marito, da questo io maschile ossessionato dai tradimenti di lei ma incapace di offrirle un’alternativa, una salvezza perché ancora e sempre il male d’amore si scopre essere male di vivere. «Era un timbro di voce drammatico, appassionato, un timbro di voce che non le avevo mai sentito e, purtroppo, il timbro di voce della donna innamorata, perduta d’amore. Per l’ennesima volta sentii l’odore del sangue…».

Procediamo lungo il sentiero fino a trovare i Fantasmi romani di Luigi Malerba (2006). Un’altra coppia sposata, Giano e Clarissa, il cui matrimonio si regge su un equilibrio imperfetto, come si legge durante la narrazione – un capitolo lui, un capitolo lei – perché i sotterfugi per sopravvivere all’amore senza passione sono molteplici e appartengono a entrambi, e dove alla fine della giostra, netta, si staglia l’insensatezza del mondo che si poggia su dei rapporti cavi, vuoti, in grado di produrre soltanto un’incessante eco d’amore. «… Evitiamo d’indagare i segreti e i chiodi che ognuno dei due custodisce con cura e che, una volta portati alla luce, potrebbero provocare una catastrofe. La nostra salvezza è la menzogna. Semplice manutenzione del matrimonio».

Montefoschi

Il sentiero procede fino ai giorni nostri naturalmente, e leggiamo Desiderio (2020) di Giorgio Montefoschi, e lo leggiamo ormai come in stato ipnotico, pensando di conoscere bene gli antenati di questi Matteo e Livia, iniziati a seguire sull’Ardeatina (ancora Roma, sempre Roma) all’indomani della fine dei loro studi, nel preciso momento in cui si innamorano e si devono già separare. La loro sarà un’altra rincorsa perenne verso la soddisfazione impossibile di un desiderio – e perciò, a ben vedere, alla fine, di tutti i desideri – nell’assurdità. Basterà l’attacco ormai per capire che il sentiero non è smarrito. «Marco Ceriani aveva annunciato alla sorella Livia l’arrivo del suo amico Matteo, ventenne studente di Lettere, alla loro tenuta sulla strada Ardeatina, a sud di Roma. Era una giornata calda e assolata. Sui campi fra l’Appia e l’Ardeatina il grano, già parecchio alto, era mosso dal vento».

Mi piace, scrivendo, proseguire alcuni di questi sentieri. Sia Gli autunnali (2018) che Gli estivi (2020) hanno proseguito, non so quanto consapevolmente, il discorso dell’amore domestico e borghese che a un certo punto rivela una faccia feroce e non addomesticata, e il cui spazio nevralgico di intersezione sta nel mondo artistico, la via Margutta piena di sordidi atelier descritta da Moravia (ma penso anche ai quadretti di una scrittrice poco nota, che proprio in quegli studi di pittori cominciò da modella, svelandone dall’interno tutte le atroci meschinità e ipocrisie, qui sì maschili e maschiliste).
La storia della letteratura quindi sarebbe anche una storia di continue prosecuzioni, o forse si dovrebbe parlare con più precisione di reincarnazioni. I libri si reincarnano in altri libri, usano gli autori come meri esecutori, sacerdoti che officiano e perpetrano il Verbo. Spesso questo domino stregato tocca autori distanti nel tempo che non possono più comunicare direttamente tra loro. Ho avuto la fortuna sfacciata di contravvenire alla regola: qualche tempo fa io e Giorgio Montefoschi siamo stati chiamati da un quotidiano per conversare sulla quarantena. Essendo prima di tutto scrittori, ci è scappata qualche osservazione di troppo sul nostro lavoro, mentre invece il giornale comprensibilmente ci voleva attenti sull’attualità, sul presente, sul futuro. Metto qui le domande e le risposte che non ci è stato consentito di mettere là: sono colpevoli (ed è una grande colpa, sia ben chiaro) di occuparsi soltanto del nostro lavoro letterario.

Montefoschi
Giorgio Montefoschi (foto: La nave di Teseo)

Tra gli svariati punti di contatto, le donne dei vostri romanzi si somigliano, hanno tratti simili. Ne Gli estivi Teresa ha lunghi capelli mori, in Desiderio Livia ha capelli lucenti neri. Esiste un archetipo letterario della bellezza fatale?

Ricci: Per me il nero dei capelli è in stretto rapporto con il pallore (così poco estivo) della pelle di Teresa. Il pallore mi riporta al candore, al regno delle possibilità non colte. A un uomo e una donna che scelgono di non consumare il loro desiderio, perché non sopporterebbero di vederlo finire.

Montefoschi: Penso che non ne esista solo uno. Penso che l’elemento archetipico della bellezza fatale non risieda in un tratto fisico, bensì nell’essere irraggiungibili. Scrivo di donne che non si riescono a possedere, che vengono viste da lontano. Tutti noi, uomini e donne, desideriamo ciò che non abbiamo.

Un’altra cosa che mi ha colpito sono i dialoghi che, partendo da un assunto realistico, finiscono invece per diventare antinaturalistici. Ne Gli estivi sono icastici e taglienti, sembra quasi di leggere un campionario di aforismi di Flaiano. In Desiderio, il dialogo sembra una sottrazione di senso, come a voler restituire qualcosa di estremamente mobile, che non si può definire: l’attrazione.

Ricci: Credo molto nel dialogo realistico, non mimetico però, non m’interessa il dialetto perché sposterebbe troppo il baricentro della narrazione sulla società. Un dialogo verosimile che poi diventa altro, che è anche altro. Un modo di distorcerlo è appunto quello di sintetizzarlo, fissarlo in una sentenza.

Montefoschi: Do molta importanza ai dialoghi, penso che il lettore debba incontrare dialoghi veri. Voglio che i miei personaggi parlino come persone, e non sopporto di leggere battute inverosimili. Ma poi conta quello che c’è dietro i dialoghi. E c’è sempre tantissimo.

Desiderio e Gli estivi affrontano gli stessi temi, in tutti e due i romanzi c’è una coppia che si vuole senza riuscire mai ad aversi completamente. È quello il segreto per l’amore eterno?

Ricci: Quello della compiutezza nella tragicità è un mito che ci accompagna da sempre. Si potrebbe anche dire che l’amore tragico è il più felice degli amori, tuttavia siamo irrimediabilmente sedotti dalla normalità, dagli sbadigli, dalle pantofole. In questa perenne oscillazione tra due estremi si consumano le nostre vite.

Montefoschi: Penso che non riuscire ad aversi sia la realtà tragica e nello stesso tempo estremamente importante dell’amore eterno. In che senso? Nel senso che il desiderio è inesauribile. Nel momento stesso in cui un desiderio si realizza non è più un desiderio. Il desiderio tra due esseri che si amano è soltanto il riflesso di un amore più grande, totalizzante, verso il Tutto.

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