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Ritorno alla Fortezza Bastiani. Quando Mondadori pubblicò Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati



Prosegue la collaborazione di Limina con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, una serie di approfondimenti sui percorsi editoriali di alcuni degli autori di punta della casa editrice. Nomi e firme che ricorrono e che delineano un percorso importante, quello al centro della mostra digitale Il cam(m)ino dell’editore – Storie di Arnoldo Mondadori a Meina, visitabile sul sito della Fondazione. Il nuovo capitolo del viaggio nell’archivio Mondadori è dedicato a Dino Buzzati, e al suo inedito carteggio con la direzione della casa editrice tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta.

***

«Mi avete generosamente offerto di entrare a far parte della Vostra famiglia di scrittori. Non dubitate che, appena possibile, sarò ben lieto di approfittarne». Su carta intestata Fiume, il 21 settembre 1940 – nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale – il trentaquattrenne Dino Buzzati risponde con evidente entusiasmo alla missiva recapitatogli da Arnoldo Mondadori, che nel 1921 aveva inaugurato i suoi uffici editoriali a Milano. È soltanto il primo capitolo di una lunga storia affettiva che, come tutte le vicende più o meno ascrivibili al filone, deraglierà spesso tra gelosie, ménage proibiti e ritorni di fiamma sotto il culto idolatra della divinità-libro.
Si scrive 1940 e si deve intendere da subito un’annata di particolare valore per l’autore bellunese. Nel mese di aprile vedeva infatti la luce la prima edizione de Il deserto dei Tartari, pubblicato per Rizzoli, il capolavoro riconosciuto parimenti dalla critica letteraria e dal grande pubblico, la consacrazione di un autore che, dopo il buon successo di Bàrnabo delle montagne (1933) e I segreti del Bosco Vecchio, conosceva un’improvvisa fama, nei mesi in cui è inviato di guerra per il Corriere della Sera ad Addis Abeba e pensa all’improbabile progetto (che non vedrà mai la luce) di un manuale di guerra navale. Con un estremo incastro tra finzione letteraria e autobiografismo, Il deserto rappresentava, nei tratti e nell’irrequietezza del sottotenente Giovanni Drogo, l’essenza di Buzzati stesso, che aveva pazientemente centellinato la sua opera a partire dal 1933 nelle notti passate nella redazione del Corriere, tra speranze e sogni traditi, nel grigiore e nella monotona coazione del rituale quotidiano. E quando, nel marzo del 1939, quell’incredibile, indisciplinato folletto dell’editoria che è stato Leo Longanesi gli chiede se abbia un romanzo da fargli leggere per la nuova collana Il Sofà delle Muse, ecco spuntare la prima bozza del deserto. Buzzati è perplesso, ancora non sa come battezzare la sua nuova creatura, così biologicamente aderente alla propria epidermide:

«Mi ero, sempre, reso conto benissimo che, se fossi stato artisticamente onesto fino in fondo, avrei dovuto continuare a scrivere quel libro per tutta la mia vita, o per lo meno fino all’avanzata maturità, quasi si trattasse di una specie di autobiografia. Capivo anche che la tensione narrativa, verso la metà, calava alquanto, che certi passaggi erano un po’ forzati, insomma una rielaborazione sarebbe stata molto utile. Ma c’era la richiesta di Longanesi, la stesura era fatta, ero giovane e abbastanza ambizioso. Insomma non sono stato capace di aspettare, di avere pazienza. E il romanzo venne varato.»

Esistono nella storia dell’editoria novecentesca personaggi quasi sovrumani – oggi li definiremmo supereroi figurandoci l’uomo pipistrello o Spider Man – e tra questi è più che lecito inscrivere Longanesi e il suo fiuto letterario. È fin troppo facile pensarlo attraversato da fremiti e fulmini mentre scrive una missiva a Buzzati, che nel frattempo è salpato per l’avventura etiope, nella quale gli comunica che il libro è valido e che verrà pubblicato nella nuova collana editoriale, a patto che venga cambiato il titolo La fortezza, troppo militaresco, e che il “lei” si tramuti in “voi”, come vuole la nuova grammatica mussoliniana. Buzzati accetta tutto, e affida la revisione al collega e amico Arturo Brambilla: pochi mesi dopo il deserto fa la sua comparsa nelle librerie, e proietta il suo autore, in quel 1940 di sangue, fra i grandi narratori del Novecento.

Buzzati
Il deserto dei Tartari, prima edizione, Rizzoli, 1940

È a questo punto della storia che fa la sua comparsa Arnoldo Mondadori, galante e sapientemente strategico, che rompe gli indugi dopo un casuale incontro mondano e il 9 settembre scrive a Buzzati una lettera che oggi appare una dichiarazione d’intenti tout court:

«Caro Buzzati,
È con vera gioia che ho potuto fare la Vostra conoscenza “fisica”; dico fisica perché di voi conoscevo già e seguivo con vivo interesse le manifestazioni Vostre di giornalista e di scrittore. Seguo tuttavia la Vostra attività che mi pare nobilmente e decisamente orientata verso un livello sempre più alto (…).»

Della lusingata risposta dell’autore si è detto più sopra, alla quale il grande editore risponderà sei giorni dopo imprimendo un’accelerazione ai rapporti professionali. Dopo Longanesi, anche Mondadori si è convinto, attraverso l’esistenza in perenne attesa del sottotenente Giovanni Drogo, del valore della prosa dura e pariteticamente trasognante di Buzzati, e gli recapita un contratto con tanto di clausole da firmare. L’autore non ribatte a tanto ardire, prende tempo; un mese dopo, la sua risposta è vaga, i toni conviviali si piegano su un registro professionale. Accenna a un senso di perplessità, fa riferimento ad accordi preesistenti presi con Vergani per una pubblicazione sotto la scuderia Garzanti. Eppure Arnoldo, che da giovane era stato anche venditore ambulante e nel mantovano era soprannominato incantabiss – incantatore di serpenti – non si dà per vinto, e con il tocco esoterico del quale è capace solo un grande editore, aurea paterna e insieme faustiana, appiana gli accordi con Vergani e fa siglare a Buzzati il tanto agognato contratto con Mondadori. «Ho appreso, dalla vostra gentilissima lettera e da un’altra, di Vergani, come Voi abbiate acconsentito ai miei desideri. E ne sono molto contento» scrive Buzzati. «Soprattutto tengo a ringraziarVi per la grande prova di fiducia che, provenendo da un’autorità letteraria come Voi, è per me anche il più lusinghiero dei riconoscimenti». Due anni dopo alla sede mondadoriana di via Corridoni 39 arriverà una busta proveniente dall’autore: al suo interno è custodito il manoscritto de I sette messaggeri, il primo tassello di un legame, affettivo e professionale, che non si spezzerà più.

Buzzati
Arnoldo Mondadori e Dino Buzzati, 1969

Ma Arnoldo, e ora anche il figlio Alberto che si alterna nelle corrispondenze con gli autori, continua evidentemente a pensare al deserto, quel volume deve avere una nuova vita in Mondadori, costi quel che costi. In una missiva spedita da Arona il 29 aprile 1943, scrive: «Avrei un gran desiderio di ripubblicare ne “Lo Specchio” il tuo Deserto dei Tartari. Puoi dirmi per cortesia se ciò sarà possibile? Io non so infatti quali siano riguardo a questo libro le tue intese con il precedente editore, ma se tu potessi in ogni caso trovare la maniera perché questa ristampa che io desidero possa avvenire, te ne sarei veramente grato e credo che anche tu non avresti a dolertene». Il dado è tratto, ma il tavolo si ribalta in un effetto tragicomico che rivela la vera essenza buzzatiana – che del resto, come ha rivelato Oreste Del Buono nelle sue memorie, i colleghi al Corriere usavano appellare con il nomignolo di Cretinetti, maschera comica di André Deed particolarmente in voga ad inizio Novecento -. Dopo aver spiegato che i diritti del deserto appartengono a Rizzoli, rivela Buzzati:

«Oggi perciò gli ho scritto molto sinceramente, e penso di non aver fatto male, dicendo che tu mi hai chiesto di ristampare il libro. Che cosa può dirmi lui, che a tale ristampa evidentemente muove delle obiezioni? E io, secondo le consuetudini vigenti in materia editoriale (e che non conosco), che cosa posso chiedere? Se Rizzoli mi nega la ristampa, ho diritto o no di chiedergli il permesso che il libro sia ripubblicato da un altro editore? Non so se mi sono spiegato bene. Forse ho fatto un po’ di pasticcio. Ma spero tu mi capirai. Puoi immaginare quanto sarei contento se la tua proposta, che mi lusinga moltissimo, si realizzasse (…).»

Nel bel mezzo di una spassosa slapstick editoriale, Arnoldo risponde cercando di rattoppare l’affaire qua e là. Il 15 maggio gli scrive: «Caro Dino, hai fatto un sacco di pasticci, ma oramai li hai fatti e non c’è che da attendere la risposta che ti verrà dal tuo antico editore. È evidente che se egli rifiuterà di ristampare l’opera, tu hai il diritto di darla ad altri: ma in questo caso scrivimi prima, perché ti dirò io quale sarà la procedura che dovrai seguire. Non credo però che arriveremo a tanto, perché la lettera che tu hai scritto al tuo antico editore lo invoglierà senz’altro, disgraziatamente, a far lui la ristampa (…)». Ma Rizzoli, amareggiato, alla fine concede il consenso, aprendo il varco alla nuova pubblicazione con grande gioia del suo autore, che manda in Mondadori una lettera firmata in inchiostro blu ed elegante calligrafia: «Ho fatto un sacco di pasticci, è vero, ma senza danni. Rizzoli mi ha risposto deluso per il mio accordo con voi e senza porre obiezioni alla ristampa del mio Deserto dei Tartari nella collezione Specchio. Quindi la strada è aperta.»

Buzzati
Arnoldo Mondadori e gli autori della casa editrice, tra i quali si riconosce anche Dino Buzzati

Arnoldo, chiusa la comica querelle («Sono molto contento che, nonostante tu abbia impiegato la miglior buona volontà per metter te e me nei guai, non ci sia riuscito e Rizzoli abbia acconsentito») e addomesticato il narcisismo di Buzzati che dopo aver visionato le bozze della galleria de Lo Specchio scrive «Peccato – data la mia luciferesca vanità – che, siluettando la foto, mi abbiano un po’ scorciato il naso, facendomi assumere un’espressione da pappagallo (non priva di un certo interesse, del resto; né lontana, evidentemente, dalla realtà)», aziona la sua imponente macchina editoriale, recapita all’autore il nuovo contratto, lo esorta con impellenza ad approntare le modifiche, che vengono specificate da Buzzati stesso il 2 agosto:

«Domani o dopodomani invierò ad Alberto una copia del Deserto con alcune correzioni; fra l’altro desidero rimettere, come nella stesura originale, il “lei” anziché il “voi” in molti dialoghi; ciò che corrisponde di più al periodo, sia pure indeterminato, in cui si svolge la vicenda, nonché al mio gusto personale. Per il resto le correzioni sono pochissime (…).»

Nel frattempo il conflitto si inasprisce, e la posizione dell’Italia si complica. I mesi passano, arriva il 1944 e Buzzati chiede notizie sulle tempistiche della pubblicazione; Arnoldo deve rivelare la problematica linguistica legata al Ministero della Cultura Popolare: «Effettivamente nessuna ragione osta alla pubblicazione del “Deserto dei Tartari” se non la faccenda del “voi” e del “lei”. In altri termini, se si trattasse di un’opera pubblicata ora per la prima volta e in cui i dialoghi fossero col “lei”, non ci sarebbe nulla da dire, ma un mutamento della precedente edizione potrebbe suscitare malumori. È vero che noi potremmo ribattere con le argomentazioni che Lei stesso ci suggerisce, ma bisognerebbe sempre ingolfarsi in una polemica che noi desideriamo invece evitare». Bisognerà aspettare il 12 ottobre 1945, a guerra terminata, quando Buzzati scrive:

«Vi rimando, corrette, le bozze dell’impaginato del mio Deserto dei Tartari, pregandovi di non lasciarle riposare per un altro paio d’anni. Vi sarei inoltre grato se mi farete vedere, appena sarà pronta, la sovracoperta di Fiume. Io pensavo di fare le lettere del titolo in giallo e arancione vivo, contornate di nero, con ombra a destra, tipo carattere egiziano maiuscolo IL. Molte grazie e cordiali saluti dal vostro Dino Buzzati.»

A due anni di distanza, nel novembre del 1945, mentre un paese intero si sta ridestando dall’incubo bellico leccandosi le ferite e piangendo i propri morti, fa la sua comparsa nelle librerie la nuova edizione de Il deserto dei Tartari, nella prestigiosa collana La Medusa degli Italiani, contornata da una sgargiante cornice arancione. È la storia di un successo annunciato, che verrà bissato nella medesima confezione nell’aprile del 1952, e negli anni a seguire nella collana Grandi Narratori Italiani, Narratori Italiani. Opere di Dino Buzzati (1960), Oscar Mondadori (1970), Biblioteca Mondadori (1975), Oscar Narrativa (1979) e molte altre edizioni fino ai giorni nostri.

Buzzati
Il deserto dei Tartari, prima edizione Mondadori, 1945

E nuovi libri nasceranno da questa collaborazione, alcuni clamorosi come Un amore e il premio Strega vinto nel 1958 con Sessanta racconti, sigilli di un rapporto editore-autore che oggi sembra stagliarsi su uno sfondo fiabesco e perduto, che farà scrivere ad Arnoldo rivolgendosi al proprio autore-figlio: «Se è vero che l’editore possa dirsi un po’ il padre spirituale di un autore o almeno considerarsene il catalizzatore (per adoperare espressioni più moderne), ecco che io, Suo editore, non indugio a intervenire presso di Lei come strumento spirituale o fisico, secondo sia da ritenersi. E Le chiedo: perché, caro Buzzati, da tempo, ormai da tempo, non scrive più un libro?». Al che Dino risponderà, stizzito e appassionato, una manciata di giorni dopo, con una lettera che assume i toni di un testamento letterario:

«No, io non sto scrivendo nessun nuovo libro, ancora non ho alcuna idea e la prospettiva di raccogliere altri racconti in un secondo volume antologico non mi sorride per nulla. Quindi, per ora, silenzio. Avrei dovuto sforzarmi? Cercarla, se non mi nasceva spontaneamente, l’idea? Io sono convinto che qualsiasi lavoro narrativo scritto programmaticamente, per partito preso, a freddo, allo scopo di non vedere sparire il proprio nome dalle vetrine delle librerie e dalle cronache letterarie, riesca per forza una cosa mediocre (…). Dunque: le più serie intenzioni. Ma attesa e non impazienza. Per caso è scritto che io non debba più scrivere romanzi od opere di lungo fiato? La prospettiva per me sarebbe molto dolorosa. Eppure è meglio eventualmente adattarsi, che fare, per puntiglio, una cosa superflua.
Con gratitudine, suo Dino Buzzati.»

Dopo il grande successo, l’autore – e il suo personaggio così indissolubilmente legato al proprio destino – hanno fatto ritorno ancora una volta alla Fortezza Bastiani, armati di pazienza, avvolti nel silenzio della radura oltre le mura che li contengono e li delimitano. L’attesa potrebbe durare a lungo, tanto vale mettersi comodi, stringersi nei cappotti, raccontarsi ancora una storiella inverosimile, fantasticare su un nuovo giorno che sembra non arrivare mai. In attesa, perché no, del nemico, di un incipit, di un nuovo inizio.




Illustrazione di copertina: Giorgia Merlin

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