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La vittoria dei perdenti. Poveri a noi di Elvio Carrieri



Esiste ancora un confine tra adolescenza ed età adulta? Un giorno in cui si smette di essere incerti e disorientati? Il nostro tempo ci lascia intendere una risposta al negativo –la vita vera è continuamente rimandata, annacquata nell’infinito strascico illusorio di quell’età in cui tutto può ancora succedere, con il solo scarto che invece, più si va avanti, più il tempo si assottiglia e le possibilità si moltiplicano.
Nel raggio di quest’ottica entra il romanzo Poveri a noi (Ventanas edizioni) esordio narrativo di Elvio Carrieri, scrittore sulla soglia dei vent’anni, che mette al centro del suo romanzo un personaggio, Libero, sulla soglia dei trenta, fortemente caratterizzato da tutte quelle storture che demarcano i millennials del nostro tempo.

Carrieri

Libero è mosso dal goffo eroismo dell’antieroe, da trent’anni soffre per non aver aiutato da bambino il suo migliore amico, Felice, altresì detto Plinio il Vecchio, malmenato dai compagni. Da quel mancato aiuto si genera un senso di colpa e di protezione quasi materno nei confronti dell’amico. I due vivono a Bari centro e insieme conducono una vita strascicata: Libero fa il professore di lettere in carcere a una manica di docili sex offenders, si innamora di Letizia, la psicologa della struttura proveniente da un paesino del barese, mentre Plinio prova a dare l’ultimo esame di latino dedicato ai codici del Satyricon di Petronio.
Vite quotidiane, distanti da qualsiasi vetta celestiale, ma colorate da un’ironia così endemica da impregnare anche i fatti più drammatici. Lo spirito meridionale, quel non prendersi mai troppo sul serio, è il sottofondo di tutte le vicende del romanzo e Libero ne è il principale portavoce – la narrazione è in prima persona – guardando se stesso e il mondo attraverso una lente deformante di sarcastico snobismo. Nello sguardo del protagonista si percepisce la forte incombenza dell’autore, che disegna il suo personaggio con un tratto a volte troppo calcato, rischiando di tenere il fiato sul collo di Libero, che non riesce mai del tutto ad emanciparsi, a camminare nella storia in autonomia. Carrieri prova una compassione intenerente verso i suoi personaggi – dei poveri a noi -, così disgraziati, così sempre fuori posto ma così sempre sinceri. Libero è costruito come un personaggio perdente, a partire dal suo canzonatorio soprannome prfssò che sempre lo accompagna, ma, e in questo si corre il rischio di scivolare in un facile stilema, portatore di una luce bianca: un idealista, che forse proprio in virtù della sua integrità, saprà salvarsi. In questa caratterizzazione a più riprese credibile e spesso divertente, a volte sfuggono però certe ingenuità di una voce autoriale che chiama sulla pagina gesti e abitudini a lui distanti, senza riuscire sempre a dissimularlo.

Poveri a noi racchiude tante storie insieme, come la rarità di un’amicizia longeva, il bisogno, puntualmente deluso, di riconoscimento in un ruolo predefinito, la passione per un tempo, quello passato, che appare morto – «mi permetteva di pensare a Leopardi e non allo SPID» – ma che quando revocato sa tornare vivo e parlare ai più improbabili. È quello che succede nelle mura del carcere, dove Libero non solo trova quella agognata dimensione di riconoscimento, nella quale può straparlare con legittimo compiacimento di Dante e di Leopardi, ma riesce anche a scheggiare le bronzee corazze dei sex offenders.

Una delle cifre più distintive del romanzo è la lingua costruita da Carrieri, un pastiche linguistico che coniuga latitudini e cronologie tra loro molto distanti. Vi si trovano mescolati dialetto barese, neologismi, inglesismi, richiami alla tradizione classica, che formano un condensato uniforme e melodioso. La pagina più riuscita di questa ardimentosa combinazione linguistica è quella in cui Libero e Plinio si trovano al bar a discutere, una «mistura tra l’italiano, il mediolatino e il dialetto barese»:

Ohangor? Mo tu’ so ditt! Vae Felìce, mittatil’ n gap che è stato Poggio Bracciolini”.
Sehmocazzcazz ex abrupto arrivjid e m’ada disc a me com s fasc la filologìj”.

La varietà dell’impianto linguistico offre anche al testo degli squarci di libertà dai quali confluiscono sulla pagina elementi trasversali, tra loro così distanti da essere ossimorici ma con l’effetto di regalare alla storia un ritmo e una patina ipercontemporanea che ritroviamo ogni volta che scrolliamo la home page di Instagram: gattini, guerra, skin care, bombe, cambiamento climatico, tigri addomesticate, eccetera eccetera. Carrieri trasla sulla pagina la sclerosi a cui siamo esposti quotidianamente: alla vista di Letizia «attaccavano le campane, sentivo forte nelle orecchie i Carmina Burana intonati da Silvio Berlusconi, poi partiva Start Me Up, eseguita da un complessino bandistico composto da soli pregiudicati italiani di Casal di Principe»; oppure al ritorno al Sud del cugino emigrato dal paesino barese a Milano per cogliere una delle innumerevoli possibilità offerte dalla città meneghina, Carrieri ironizza:

«Si diceva che il paese fosse in procinto di coniare un decadramma con rilievo della foto che usava come immagine sul profilo Tinder: petto abbronzato al caramello, peli rigorosamente laserizzati, barba ordinata, tatuaggio spirituale sull’avambraccio, gin tonic colmo di ghiaccio nella mano destra, Iqos in quella sinistra».

E proprio l’altra grande protagonista del romanzo è Bari. Una Bari viva, intima e soggettiva, che cambia se guardata dagli occhi di Libero – uno sguardo nostalgico che vede solo le cicatrici sulla pelle cementificata di una città che ha distrutto se stessa – o dagli occhi di Letizia, che si sorprendono e si fanno affascinare anche dagli alti orribili palazzi che occludono il cielo. Una Bari martoriata dalla cultura dell’illecito, tumefatta ma proprio per questo un luogo che pulsa, come pulsava il corpo di Felice\Plinio sotto le percosse dei compagni di scuola, ma questa volta soccorso dal suo amico Libero.



In copertina un disegno di Franz Kafka, uomo stilizzato

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