Oceanides
Comma 22

Storie immaginifiche e d’avventura in Oceanides di Riccardo Capoferro



Gli Oceanides sono uccelli anfibi che sfuggono alle classificazioni tipiche delle scienze naturali; sono «espressioni di un principio basilare» dalle piume azzurre, esseri molto più vicini a Dio che a qualunque altra specie animale. Coglierne l’essenza è la missione di Richard Kenton, giovane Ulisse protagonista del romanzo d’esordio di Riccardo Capoferro, Oceanides (il Saggiatore).

Oceanides

Sul finire del Seicento, Kenton decide di lasciare il focolare domestico e la sua Inghilterra per imbarcarsi su una nave e raggiungere la Giamaica, dove lo attende un lavoro nelle piantagioni di zucchero. Uno sguardo acuto per ogni dettaglio che lo circonda e la promessa, ripetuta a se stesso come una preghiera, di cose più grandi da scoprire e osservare da vicino, lo spingono ad abbandonare presto una vita che, di fatto, non ha neppure cominciato e ad avventurarsi in quello che si rivelerà un vero e proprio viaggio iniziatico.

Avventato ed ebbro di libertà, si unisce a una ciurma di bucanieri nelle acque del Mar dei Caraibi e del Pacifico: la sua propensione quasi congenita all’adattamento e lo sguardo trasversale gli permettono di adattarsi alle scorribande dei compagni, ad apprendere l’arte della navigazione, a muoversi con destrezza.

Ogni conoscenza acquisita non è, per Kenton, mai abbastanza: non il popolo di indiani che la ciurma incrocia, non quello di Marinai in grado di condurre uomini morenti in luoghi sconosciuti per salvarli. Kenton deve assecondare quella fiamma che lo ha spinto oltreoceano per la prima volta, deve guardare con propri occhi un luogo di cui non sa nulla, nemmeno la posizione sulle mappe.

«Distinsi il colore che cercavo, pensai che fosse sempre stato lì, vicino a noi, anche quando non lo vedevo.
Nell’avvicinarmi, osservai la sua essenza che si precisava, che usciva dalla mia mente per entrare nella realtà, e sebbene mi reputassi al servizio di un sapere razionale, un sapere logico, pensai non ci fosse nulla di sbagliato nella profezia del vecchio indio: mi aspettava un lungo viaggio di scoperta. Così, scaldato da vaghi progetti e da un’altrettanto vaga fiducia nel mio ruolo e nella mia missione, mi incamminai e sfilando la camicia mi avvicinai a passi leggeri al ramo. L’uccello ruotava il collo a scatti, e saltellando girava intorno al suo asse, ma non si allontanava.»

Guidato dal solo istinto e da un curioso stormo di animali che sembrano moltiplicarsi in volo seguendo cerchi concentrici, si inoltra per mare diretto a un’isola ignota agli uomini, dove gli Oceanides hanno dimora tra cielo e terra.

Nelle mani dell’autore, professore di Letteratura inglese presso l’Università di Roma La Sapienza, il giovane Kenton assume sempre più le fattezze di un eroe classico, in cui l’inseguimento della «virtute e canoscenza» dantesche e la parabola del viaggio di Ulisse trovano spazio per un romanzo potente e ambizioso.

Nell’immaginario di avventura costruito da Capoferro, le reminiscenze dei grandi miti classici legati al viaggio, del romanzo settecentesco di Swift e Defoe, della tradizione letteraria di Conrad si fondono per trovare una sintesi di raffinata bellezza.

Il risultato è un’opera che custodisce e tramanda un’eredità letteraria in forme nuove, in cui le contaminazioni sono molteplici e strabordano da ogni pagina, ma non solo. Il lirismo presente in Oceanides è funzionale alla parabola di Kenton e porta la narrazione a un livello superiore, perché concilia la materialità della terra e delle esistenze dissolute dei numerosi volti che si susseguono nella storia alla più alta metafora dell’uomo.

Il valore di questo romanzo non si esaurisce, però, nel mero resoconto di un’avventura, seppur immaginifica ed evocativa, nei mari del Pacifico. Con un interessante e imprevisto cambio di scenario, la storia prende fiato per dare ulteriore spago al narratore. Anche le questioni più terrene, come la vanità dell’uomo, la ricchezza, la fama, possono diventare il pretesto per nuovi intrecci e nuove riflessioni.

«Che valore avrebbero avuto, altrimenti, le azioni, le decisioni e l’intelligenza? A cosa sarebbe servito esaminare le cose, indagarne con ostinazione la natura, se poi quel che che andavamo determinando era parte di un processo più lungo e più ramificato, che con noi, con la nostra coscienza e i nostri fini, aveva ben poco a che fare, e che poteva, nel suo completo svolgimento, contraddire il nostro giudizio, eclissare le nostre intelligenze? Tanto sarebbe valso smettere di giudicare, restarsene fermi a mormorare preghiere, ritirarsi in un tempio, rinunciare all’esercizio della nostra libertà, all’unico vero vantaggio che potevamo mietere dalla nostra sudditanza alla morte.»

Nel dialogo continuo con se stesso, Kenton testimonia quel moto continuo che accomuna gli individui, dentro e fuori dai libri. Nelle vicende di un uomo che affronta il pericolo e l’ignoto per amor di conoscenza e libertà, si scorge il carattere universale della sua vicenda.




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