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Non si fruga nella polvere, la coscienza smarginata di William Faulkner



Faulkner diceva di leggere con piacere romanzi gialli, se buoni come I fratelli Karamazov. Ed è proprio uno di loro a pronunciare quella frase memorabile che offre lo spunto iniziale alla vicenda narrata in queste dense pagine dal romanziere americano: «A dir la verità non mi ha fatto nulla di male, ma sono io, invece, che gli ho fatto una grossa porcheria e, appena gliel’ebbi fatta, cominciai subito a odiarlo per questo… Ho cominciato e voglio finirlo».
Accade infatti qualcosa del genere al giovanissimo protagonista di Non si fruga nella polvere, uscito per Adelphi nella robusta traduzione di Roberto Serrai. Poco più che bambino, dopo una caduta nel fiume, Charles Mallison Junior, detto Chick, viene ospitato e rimesso in sesto da Lucas Beauchamp, un «negro», ma un «negro che si crede un bianco», cosa inconcepibile nel sud degli Stati Uniti degli anni Quaranta. C’è di peggio, però, perché a offendere la vista e la morale pubblica c’è pure l’aspetto di questo «vecchio negro saccente inflessibile arrogante cocciuto riottoso indipendente (e anche insolente)», sempre in completo elegante, il cappello spavaldamente sulle ventitré, la pesante catena d’oro al taschino e al labbro uno stuzzichino d’oro che manda riflessi sfacciati tutt’intorno. Incapace di decifrare il mistero di quest’uomo, in ricompensa Chick gli offre maldestramente le monete che ha in tasca. Beauchamp le rifiuta e gliele fa restituire dai suoi amici. Per il ragazzo, affogato in un misto di vergogna e senso di rivalsa, è il principio di un’ossessione, che durerà anni, allo scopo di riaffermare «la sua virilità e il suo sangue bianco», fino al giorno che quello stesso uomo finirà in carcere, accusato di aver ucciso un bianco, per di più sparandogli alle spalle. L’hanno trovato nel bosco, con l’arma calda in tasca e il cadavere ai piedi. La contea di Yoknapatawpha «era il posto sbagliato per un negro dove sparare alle spalle di un bianco», e per giunta un bianco del Quarto distretto, «un sinonimo di indipendenza e violenza […], una compagine di attaccabrighe e contadini e cacciatori di volpi e mercanti di bestiame e legname […], dove l’unico estraneo a entrare impunemente era Dio e anche Lui solo di giorno e di domenica». Beauchamp è spacciato, ma non arriverà nemmeno al processo. Lo linceranno, gli daranno fuoco, lo crocifiggeranno. Chick capisce presto di essere l’unico a poterlo in qualche modo aiutare, lui che si è sempre interessato «solo delle cose secondarie e accessorie», perché nessuno dei bianchi si prenderà la briga neppure di interrogarlo, e non farà eccezione il suo amato zio, l’avvocato, il saggio, che accetterà sì di assumere la difesa legale di Beuachamp, ma non di ascoltare la sua versione dei fatti. «Qualcuno doveva farlo e nessun altro l’avrebbe fatto». Il destino sembra offrirgli l’occasione di chiudere infine il cerchio, non per una vendetta, ma per un riscatto, al fine di rovesciare il modello ancestrale di Caino che, alla richiesta di Dio su dove fosse Abele, gli rispose: sono forse il custode di mio fratello? La stessa domanda se l’è angosciosamente posta Chick per tre anni, e ora può ribaltarne il senso. (Quando si legge Faulkner, si deve tenere sempre accanto la Bibbia…).

Faulkner

Nella sua famiglia, d’altronde, si sa da sempre che «se mai ti servirà fare qualcosa fuori dal comune, non perdere tempo con gli uomini, vai dalle donne e dai bambini». Sono proprio una donna, una vecchia signora sodale della defunta moglie dell’accusato, e il suo amico Aleck Sander, un coetaneo nero, ad aiutarlo nel suo folle piano, riesumare il corpo della vittima per cercare prove dell’innocenza di Beauchamp. Una missione con cui non c’è nulla da guadagnare (nessuno lo avrebbe mai ringraziato) e tutto da perdere, visto che non solo si tratta di un reato, ma se venissero colti sul fatto farebbero forse la stessa fine di Beauchamp.
Chick vuole «lasciare un segno sulla sua vita di uomo, un segno della sua parte sulla terra ma umilmente, aspettando volendo perfino umilmente, senza in realtà sperare, niente (che naturalmente era tutto) tranne la sua unica anonima occasione di compiere qualcosa di appassionato e coraggioso e austero in segno di gratitudine per il dono del suo tempo». È stato infatti lo zio, il suo mentore, a insegnargli che «l’uomo non aveva altro che il suo tempo, tutto ciò che stava tra lui e la morte che temeva e aborriva era il tempo eppure lo trascorreva per metà a inventarsi modi per trascorrere l’altra metà».

Romanzo politico, parabola biblica, noir esistenzialista, il racconto fluisce per lunghi tratti sull’onda di quello che è generalmente definito flusso di coscienza, ma questa espressione va presa con le pinze, dato che in Faulkner la “coscienza” è smarginata, indefinibile, cangiante, non possiede né confini razionali – si trapassa dal presente al passato, con puntate nel futuro, attraversando spesso le regioni del sogno – né confini individuali, dato che l’io si smarrisce spesso nel noi, l’attualità nell’archetipo, la mente nell’anima, l’uomo in Dio. Faulkner è rabdomante, rapsodo, negromante, mescola la sua voce a quella dei personaggi, e ne evoca altre, ogni suo romanzo è una seduta spiritica, tutte le forze della terra e degli uomini vivi e defunti vengono convocate e poi scatenate sulle pagine, ma anche un atto psicomagico, una catarsi che tuttavia non risparmia l’ordalia. Il sangue non è mai solo quello dei protagonisti, ma anche e soprattutto quello dei lettori.
Nel flusso sono incastonate potenti scene cinematografiche, difficili da dimenticare, ma anche digressioni sociologiche e filosofiche, che se da un lato condannano inequivocabilmente il razzismo del sud, dall’altro non risparmiano l’ipocrisia del nord, vale a dire dei presunti giusti. Anche qui risuonano perentorie le parole di Dostoevskij: «Perché tutti e ciascuno siamo colpevoli l’uno dinnanzi all’altro. Tutti sono colpevoli». Il sud deve affrontare in prima persona questo dramma, perché nessun intervento normativo dall’alto raggiungerà mai davvero la radice del problema, la somma delle sofferenze e delle paure che finiscono per riversarsi su un capro espiatorio. Agli uomini del sud tocca attraversare questo personale inferno per venirne fuori insieme, bianchi e neri; l’alternativa è soccombere, niente e nessuno potrà farci nulla, né norme né baionette.

Faulkner

Faulkner è duro con questa America (modernità?), il cui unico dio è l’automobile, che dimentica l’anima, che vende la libertà in cambio della possibilità di «perseguire il suo privato postulato di felicità e appagamento a prescindere dal costo e dal dolore». In questa mortale incapacità di sopportare la libertà, riecheggia ancora una volta la voce di Dostoevskij: «Ti dico che non c’è per l’uomo preoccupazione più tormentosa di quella di trovare qualcuno al quale restituire, il più presto possibile, quel dono della libertà che ha ricevuto al momento di nascere».
L’unica speranza sono i puri di cuore, come Chick, a cui lo zio ricorda di «non smettere» e di «non credere». Non smettere di rifiutarsi di tollerare ingiustizie, né per lodi né per soldi, né per la foto sul giornale né per il conto in banca. E non credere a chi gli dirà di lasciar perdere, di omologarsi, di arrendersi alla mediocrità e agli dei del vivere moderno.





In copertina:
Andrew Wyeth, The Sexton (1950, particolare), tempera su tavola
© Andrew Wyeth by Siae 2022

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