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Navigare il reale. Essere camminante viator nell’Italia di Dante

È strano tornare sul viaggio dantesco, da me compiuto per la Società Dante Alighieri e approdato al libro pubblicato dalla Nave di Teseo L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della “Commedia”: è strano prendere  in mano questo libro, quando, dopo la pausa che il Covid-19 sembrava averci dato nella scorsa estate, diventa di nuovo difficile e rischioso viaggiare, esitiamo sempre più a muoverci, rischiamo di tornare a chiuderci in casa. Se ci vogliamo muovere, ci sentiamo più sicuri nelle nostre automobili, il solo luogo esterno dove possiamo tranquillamente toglierci la mascherina: ma poi, fuori dalle macchine, scatta di nuovo la preoccupazione, anche nel camminare in mezzo agli altri, nella socialità dei luoghi esterni.

Insomma siamo intralciati anche nel procedere a piedi, ripetendo nei nostri spazi moderni l’antica e più semplice modalità del movimento, che costituisce uno dei dati essenziali della Commedia dantesca: Dante, che del resto dice di trovarsi Nel mezzo del cammin di nostra vita, comincia col tentativo di salire al colle (e lì subito c’è un riferimento all’azione dei piedi, in un verso che è stato molto tormentato dai commentatori, «sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso») e poi tanto faticosamente cammina per attraversare l’Inferno, per risalire su a «riveder le stelle» e poi per scalare la montagna del Purgatorio: nel Paradiso poi non c’è bisogno di camminare, si tratterà di volare. La fisicità del movimento del viator oltremondano si rapporta poi continuamente con la fisicità del mondo reale, con i volti molteplici dell’Italia contemporanea, tante volte chiamati in causa dal poeta narratore.

Dante

Nel corso del mio viaggio, toccando tutti i luoghi d’Italia evocati nella Commedia, mi sono spesso domandato in che modo Dante li aveva percorsi, come li aveva visti, entrando col corpo dentro la loro consistenza materiale, terrestre, e nello stesso tempo proiettandoli nel suo cammino di uomo universale, everyman, verso la salvezza: e quindi automaticamente ho cercato di interrogare tutta la distanza tra quel muoversi di Dante e il nostro attuale muoversi nel mondo. Ho più volte pensato alle occasioni e agli strumenti del mio viaggio, del viaggiare di tutti noi presi dalla nostra specificità esistenziale, dai nostri desideri, dalle nostre insoddisfazioni e pretese, dalle torsioni del nostro io, dal nostro bisogno di consumare e di alterare il mondo. E pensavo che in fondo siamo sempre in movimento, ma che nessuno di noi può più essere un camminante viator, siamo sempre in velocità, i nostri passi sono sempre integrati e facilitati dai mezzi di trasporto più diversi: e se per un paio di secoli il nostro paradigma umano si è costruito in rapporto sempre più stretto con la materialità degli strumenti di viaggio, con il loro orizzonte meccanico, è ora evidente che con l’avvento dell’informatica stiamo sempre più perdendo la coscienza di questa materialità, tutto viene virtualizzato e l’uso di GPS, Google map e simili, sembrano cancellare ogni contatto con la fisicità del mondo, danno luogo a un nuovo paradigma umano, che non sappiamo dove ci porterà. E mi domandavo quanto il viaggio reale sia sempre più accompagnato da tecnologie che danno una proiezione virtuale sia dell’ambiente che degli stessi mezzi di trasporto impiegati. Il turista si trova ad attraversare “non luoghi”, a visitare luoghi storici secondo schemi precostituiti, e fruisce dei diversi siti soprattutto per fotografarli, più che per goderne la bellezza. Così nel libro mi capita tante volte di notare la contraddizione tra l’originaria funzione e destinazione di certi capolavori e il nostro modo di usarli e consumarli. Non possiamo essere altro che turisti.

Ma quello che ora sta succedendo, questa inaudita pandemia mondiale che certo nessuno di noi poteva prevedere, da una parte ha messo totalmente in crisi il turismo, dall’altra ci ha affidato e continua (continuerà?) ad affidarci a una connessione perpetua, che ci fa affacciare su ogni possibile angolo di un mondo che è diventato pericoloso percorrere. Corriamo il rischio di una finale decorporizzazione della cultura, di una definitiva virtualizzazione del viaggio e dell’essere nel mondo, di una visione dei luoghi affidata sempre più ai vari schermi di cui disponiamo, di un movimento che si risolve nel navigare in rete.

A questi pericoli possiamo rispondere ostinandoci comunque a percorrere fisicamente e in sicurezza i luoghi che abbiamo a disposizione. Certo a me piacerebbe tornare in molti dei luoghi che nel mio viaggio dantesco mi hanno imposto dei movimenti a piedi: salire sulla Pietra di Bismantova nell’Appennino tosco-emiliano, più a est, tra la Toscana e la Romagna, raggiungere la cascata dell’Acquacheta, cercare le rovine del castello di Giovagallo in Lunigiana o del castello della Pietra, presunta prigionia di Pia dei Tolomei in Maremma, ecc. Ma ora mi limiterò a percorrere solo luoghi più vicini: convinto però che, se usciremo da questo tunnel pandemico, dovremo saper ritrovare la fascinazione del camminare, questa continuità col movimento più antico dell’umanità, pur intrecciandolo con i nostri molteplici messi moderni.




Photo credits: Gustave Doré, Dante Alighieri Inferno, Plate 8 e Circle VIII
 

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