Comma 22

Nella selva del tradimento. Pier delle Vigne oltre Dante

Dopo aver sviluppato una vera e propria mania per la vicenda di Pier delle Vigne – il plenipotenziario di Federico II che inspiegabilmente tradì il suo imperatore, fatto accecare si suicidò fracassandosi la testa contro la facciata della chiesa pisana di San Paolo a Ripa d’Arno e infine venne collocato da Dante nel XIII Canto dell’Inferno – mi sono posto, tra gli altri, un problema cruciale che è ricorrente in questo tipo di narrazioni: come si fa a portare in scena grandi personaggi, che il lettore conosce fin dai tempi della scuola, abbattendo la distanza perché venga davvero un romanzo storico e non un romanzo in costume? Come si fa a convocare «creature di sangue caldo e nervi», come ha scritto Anton Čechov, e non figurine anche ben delineate che però sembrano provenire più da un carnevale che non dalla vita vera?
Ho deciso di portare in scena, nelle primissime pagine del romanzo, i miei due protagonisti nell’intimità notturna dell’attraversamento di un bosco. Sono solo corpi che stanno affrontando un tragitto difficile insieme, nel buio, nell’incertezza di quello che capiterà. Togliendo di mezzo la corte imperiale, spogliandoli almeno in parte del loro ruolo, confido di averli porti al lettore come le «creature di sangue caldo e nervi» di cui si diceva. Solo così potevo poi discendere alla ricerca di verità dentro una vicenda così tragica e spaventosa.
È notte, siamo in un bosco sugli Appennini. Corre l’anno 1249. Così comincia Nella pietra e nel sangue (Baldini+Castoldi, 2020).

Pier delle Vigne

***

Infine i tronchi furono meno folti e i due uomini si ritrovarono in una piccola radura. Lì il terreno argilloso aveva impedito alle roverelle di prosperare: dal fango si alzavano dapprima sparuti ciuffi d’erba fradicia, poi nemmeno quelli ed era più facile scivolare che procedere spediti.
Fu come uscire da un ventre squarciato. Il bosco, alle loro spalle, era una vacca stesa sul fianco. Avevano camminato in silenzio nel buio dei suoi visceri facendosi largo con le mani, e ora finalmente ne erano fuori.
Si fermarono a rifiatare. L’alba era ancora lontana. Per quanto ormai liberati dal ventre floscio della vacca, anche in quella radura i loro occhi sarebbero stati ciechi senza la piccola torcia che Federico stringeva nella destra. Il fuoco scovava nel buio il suo volto magro di eterno ragazzino; eppure il corpo conosceva ormai il divenire di mezzo secolo di vita. La barba densa di Pietro, la sua faccia lunga come una porta e spessa come un torrione, sembravano invece appartenere a un vecchio. Eppure i due erano pressoché coetanei.
Da quando avevano preso congedo dai compagni per cercare la beccaccia abbattuta dall’imperatore, non avevano scambiato una parola. Era la legge vigente durante quelle cacce notturne in cui non si libravano in volo i falconi, ma si sceglieva un campo, si accendevano grandi fuochi e si rimaneva nei loro pressi mirando con gli archi verso il cielo. Neppure in quel momento Federico ruppe il silenzio. Si limitò a indicare dapprima i calanchi di fronte a loro, facendo un gesto come per escluderli, e poi un sentiero da serpi sulla sinistra che forse avrebbe permesso di superare l’ostacolo. Rientrati nel bosco, però, il gelo dei rami aguzzi ricordava loro a ogni passo che non erano nel ventre ardente della vacca gravida che partorisce, ma in quello diaccio della vacca ammazzata che attende le mani del macellaio.

Pier delle Vigne
Gustave Dorè, Inferno, Canto XIII

Ripresero dunque, uno dietro l’altro, il cammino. Le foglie delle roverelle, dal profilo dolce fatto tutto di insenature e promontori, erano quelle dell’anno passato: secche, colore del bronzo, attendevano la primavera per abbandonare i rami. Allora ne sarebbero spuntate di nuove e la loro lunga veglia si sarebbe conclusa. Lasche come una cinta slacciata a sera, avrebbero riposato per poco sul muschio prima di dissolversi. Ci sarebbe stato un momento in cui, ai piedi degli alberi, l’occhio avrebbe potuto cogliere assieme il verde luminoso dell’erba nuova, il bronzo ormai opaco delle foglie cadute e il colore carnoso delle prime viole; ma non sarebbe durato a lungo. Inoltre, quel momento era ancora lontano.
Federico e Pietro avanzavano nel buio e la torcia nella mano dell’imperatore bastava appena per rendersi conto che il bosco stava cambiando: oltre alle roverelle adesso attorno ai due si rizzava qualche sparuto carpino. I tronchi erano neri, i rami erano spogli: le foglie aguzze sarebbero tornate a farsi tra qualche settimana. Procedevano in salita. Il bosco scricchiolava attorno a loro come se si dovesse assestare, e lo faceva di continuo, cercando requie senza mai trovarla. Tra uno schiocco e l’altro di rami e cortecce si distendeva un manto di suoni liquidi. Chissà che tra quei fruscii ce ne fossero anche di serpi che si facevano strada tra una radice e l’altra. Non si udiva canto d’uccelli; neppure un grido solitario. La fatica costringeva Pietro a respirare a bocca aperta, nei tratti più scoscesi, e in quei momenti il fiato si raddensava per un attimo di fronte alle sue labbra. Ogni passo di Federico sembrava invece identico al precedente. Né più corto, né più lungo.

William Blake, Inferno, Canto XIII

La presenza dei carpini stava a indicare che sarebbero giunti presto a una nuova radura. Prosperavano infatti nelle zone soleggiate, non nel fitto dei boschi. C’era però anche qualcos’altro, in quel momento, che parlava ai loro sensi. Per la seconda volta uscirono dal ventre della vacca. La spianata che si trovarono di fronte era decisamente più grande della precedente. Si fermarono ancora una volta. Poi l’imperatore distese il braccio, la fiamma crepitò e quello che le orecchie avevano già intuito fu evidente anche agli occhi: il breve tratto pianeggiante si interrompeva per accogliere uno specchio d’acqua. Si avvicinarono alle sponde scoscese. Federico si inginocchiò per vedere meglio. L’acqua sembrava profonda e correva veloce. Era un fiume, quindi. L’uomo si rialzò e camminò con cautela lungo la sponda, prima in una direzione e poi in quella opposta. Cercava un albero caduto che si offrisse loro come ponte oppure rocce affioranti che permettessero l’attraversamento. Non trovò né l’uno né le altre, e tornò quindi da Pietro, che non si era mosso. Non esiste fiume che non si possa attraversare. Lo sapevano entrambi. Sapevano però anche che ogni passo fatto in una direzione o nell’altra lungo la sponda li avrebbe allontanati dalla beccaccia. Dopo che la freccia l’aveva colpita, era stata come sbalzata in aria; poi il suo volo era proseguito per un tratto brevissimo, prima di trasformarsi in un precipitare. E ora era da qualche parte di fronte a loro. Nel buio. Di là dal fiume. Chissà quanto avrebbero dovuto camminare prima di raggiungere un punto buono in cui tentare l’attraversamento. Rischiavano di procedere a lungo e inutilmente.
Occorre viltà per abbandonare la caccia. Doveva essere Pietro a proporlo e l’altro a concederlo. L’imperatore non era, né sarebbe mai stato, un vile. Così Pietro tossì forte per richiamare alla vita la gola e generare voce in una bocca fino a quel momento inerte. Guardò Federico, che nel frattempo aveva infisso la torcia nel terreno e stava in piedi di fronte a lui con le braccia conserte sul petto. La vampa del fuoco adesso era lontana dal suo volto, mentre quella dei capelli era vivissima. Si erano avventurati nel bosco a capo scoperto e le ciocche fulve si raccoglievano in onde sulla fronte e in piccole creste attorno alle orecchie. Ancora una volta Pietro si arrese al fatto di essere invecchiato al posto del suo signore. Lo pensò guardandogli le guance, che discendevano come tendaggi di seta dagli zigomi, né gonfie né flosce, ma snelle.
Aprì bocca per dire: «Il mio passo si è fatto incerto».
Non vi riuscì.