Me la ricordo ancor come fosse oggi – diciamo ieri… – l’emozione che veniva da La buona terra, il primo romanzo di Pearl Buck (1892-1973), la scrittrice americana che raccontò la Cina atavica e che fra parentesi vinse pure il Nobel nel 1938 e il Pulitzer nel 1932. La scoperta di un mondo che fino allora stava sulla faccia nascosta della luna, e la sua scrittura così limpida, e le bambine con i piedi fasciati, i contadini con la falce. Fu per me una scoperta, allegra e tormentosa al tempo stesso, perché le storie erano tristi, ma che gioia aver trovato quelle pagine. Uno dopo l’altro, lessi tutti i suoi libri. E a cinquant’anni di distanza, un po’ vorrei riprenderla in mano ma un po’ ho anche paura di non ritrovare quel che allora avevo trovato, senza cercarlo.
Ho fatto questa premessa molto personale, persino un po’ intima, per parlare in realtà di un altro libro. Il fatto è che parlare di Libri che mi hanno rovinato la vita di Daria Bignardi (pubblicato da Einaudi) non può non significare anche confidare un po’ di sé. Bignardi infatti chiama in causa i suoi lettori, è come se dicesse continuamente loro: su, parlami un po’ di te, di quello che hai letto da adolescente, nella tua formazione. E più che mai se, come è capitato a me, trovo nel suo libro tante affinità – vuoi generazionali vuoi di amori giovanili (per certi libri, s’intende). Sono un po’ più vecchia di Daria Bignardi, però in queste sue pagine ho sentito qualcosa di condiviso nel profondo ma che pure affiora ogni volta che continuiamo ad aprire un libro, a metterci a leggere qualcosa di nuovo. Perché ogni volta che succede porti inevitabilmente con te negli occhi e dentro tutte le pagine già lette.
Daria ci parla qui di alcuni dei libri che l’hanno formata, che le hanno lasciato un segno. E il gioco è proprio questo: provare ad affiancarsi, a confrontarti con i tuoi, di gusti, con le tue letture. Pearl Buck l’ho ritrovata qui, ed è tornato proprio quel tuffo al cuore lì, e che bella sensazione. Naturalmente il bagaglio di letture “formative” di ognuno di noi è unico, quindi i libri di Daria non sono tutti i miei, e viceversa. Ma poco importa, anzi: “i libri che mi hanno rovinato la vita” sono anche – per me e son convinta per qualunque altro suo lettore – spunti, tracce da provare a seguire.
C’è tanto, qui: Djuna Barnes e il suo La foresta della notte, Fëdor Sologub e Il demone meschino, ci sono Grazia Cherchi ed Eliot, Camus e Dorothy Parker… c’è Raymond Carver, un altro amore condiviso. Carver ci ha insegnato un mondo e un modo di scrivere, Carver è unico e grandissimo e andrebbe letto a scuola. Ci sono classici e libri eccentrici. Non ci sono neanche soltanto libri. Anche film. E c’è anche una sorta di autobiografia di scrittrice.
C’è tanto, insomma. Ma c’è dell’altro. Perché oltre ad essere un catalogo di letture, di esperienze fatte fra le pagine, e spesso di esperienze anche forti, Daria Bignardi ci racconta qui dell’altro. Questo infatti non è un libro sui libri che l’hanno formata, plasmata. Altrimenti non porterebbe il titolo che porta. Qui, infatti, ci sono “solo” i libri che le “hanno rovinato la vita”.
Ma come? Stiamo qui tutti a spiegare ai giovani e persino ai bambini che leggere fa bene. Che è un’opera buona e doverosa. Che rende migliori. E Daria ci dice invece che ci sono “libri che rovinano la vita”?
Sì, lei racconta qui i libri che l’hanno fatta soffrire. Che l’hanno aiutata a soffrire. Non a caso, infatti, nell’ultima parte compare anche, fra Benni e Coetzee, fra un Murakami e una Abramović (sì, non si parla solo di libri) anche La società senza dolore, un saggio di Byung-Chul Han, star della filosofia contemporanea: «Han è un filosofo coreano che vive e insegna da trent’anni in Germania. Ha due anni più di me ed è un uomo molto bello». In questo suo saggio ci spiega che l’utopia di azzerare il dolore non funziona, mentre lei si dichiara disturbata – e prevenuta – dalla sua bellezza. Sì, in questo libro lei ci parla anche dei suoi, e dei nostri pregiudizi.
Tornando al dolore, è vero che ci sono libri che fanno soffrire. Per le ragioni più diverse. E qui Daria ci racconta di quelle sofferenze, ne tace altre, ci spiega che i libri devono fare anche questo, per non farsi dimenticare.
In copertina:
Illustrazione di Emiliano Ponzi, particolare