Comma 22

Il corpo del tempo negli atti di un mancato addio



Anche il mondo non è matematica, è poesia. Anche il mondo non è – può non essere, un dato oggettivo. Anche il mondo esiste – e smette di esistere – solo quando passa attraverso gli occhi di vite in cerca di se stesse. E se quegli occhi si chiudono – o semplicemente smettono di guardare – manca la luce, ma soprattutto manca il mondo.

Non si può entrare dentro gli Atti di un mancato addio di Giorgio Ghiotti senza partire da questo che, nella sua raccolta precedente, uscita sempre per Hacca, aveva evocato come un difetto nello sguardo. Una prospettiva, anziché un errore, che in questo nuovo, sapientissimo, romanzo, si fa mancanza. Nel senso di assenza. Quella di Giulio, ragazzo come gli altri (forse) e da cui gli altri – Massi, Cecchi, Trottola, ma anche Roberta e il fidanzato Mastino, e soprattutto Edo, che allo sguardo collettivo presta voce e limpidezza di sentimenti – assorbivano il collante per restare insieme. Come si sta insieme solo in quel momento in cui l’incoscienza è già accaduta ma la vita è ancora tutta da inventare, progettare, immaginare. Giulio è il nome di questa cesura. Senza nessuna retorica, con il lirismo composto e il passo lieve del poeta che si presta a una prosa più simile a un versificare senza metro, Giorgio Ghiotti traccia con straordinaria eleganza, nei passi di un giovane uomo che cammina lungo la Tiburtina per non voltarsi indietro, l’allontanarsi pacificato e insieme improvviso di un età. Un’età assoluta, però, non fatta soltanto di tempo. Una giovinezza fatta più di anima che d’anagrafe.

Atti di un mancato addio - Giorgio Ghiotti - Libro - Hacca - | IBS
Atti di un mancato addio, Giorgio Ghiotti, Hacca Edizioni

Al di qua c’è un prima fatto dal branco, crudele e accogliente come solo può esserlo la fame disperata di un’appartenenza, quella che tutti abbiamo sperimentato (mancato, o consumato, a seconda di ognuno) nel tempo in cui niente vale lo sguardo e la mano dell’amico a cui abbiamo affidato la nostra felicità. A cui senza saperlo – sintetizza Ghiotti con un’espressione di folgorante esattezza – abbiamo affidato il compito di essere «il nostro testimone», spesso senza saperlo. Riconoscerlo, significa crescere. Prima, però, c’è il tempo del sogno. Un tempo fatto di madri accoglienti e calde, nemiche di un istante ma per troppo amore. Madri che – non a caso – nelle pagine di Ghiotti hanno nomi inventati apposta per essere dati una volta sola, e che a noi suonano delle immagini sognate dei film, del sorriso di Virna (Lisi) o del dolore assoluto e perfetto di Susanna – così si chiama la madre di Giulio – che non poteva che chiamarsi come la madre di Pier Paolo Pasolini (che per tutta la vita ha cercato la purezza intatta della giovinezza) destinata a rimanere, questa volta, lei «sola, in un futuro aprile» condannato a ripetersi. Perché – lo sa lei e i suoi amici se ne rendono conto presto, tutto sommato senza strappi e senza angosce, per quanto non rifiutino il dolore – Giulio potrebbe non tornare, come non torna il tempo. E non è una resa, è semplicemente la vita.

Nelle eleganti pagine di Ghiotti, quello che rimane sono le persone. I protagonisti – anche quelli di poche righe, che sfilano rapidi ma essenziali – ma anche i luoghi. Anche le città di questa geografia degli affetti sono persone. E non solo perché ognuna si identifica con un volto, quasi sempre perduto: Genova è la radice rubata dal mare di Massi, Bologna è l’amore di Edo che ha rifiutato di essere, Torino è il futuro che avrebbe potuto essere e non è stato, attraverso voci che continuano a chiedere perdono. Milano è una figura che passa veloce. Tra le città, tutte carnali, vive, respiranti, lo è più di tutte Roma, protagonista indiscussa. Soprattutto la città eterna ha una personalità, ma è un assoluto, non un singolo. Roma in Ghiotti è la madre amata, sono tutte le madri, è l’appartenenza compiuta, da cui ci si può allontanare senza mai lasciarla andare davvero.

Ghiotti costruisce pagine sognanti e cesellate, con la competenza dello scrittore più che maturo e l’incoscienza degli eterni ragazzi che sanno essere solo i poeti, e le intesse di un materiale difficile da definire. Fatto di leggerezza, di una sorta di realismo magico lieve e sognante ma intimamente ancorato alla realtà. Anche al dolore. Perché qualcosa si è costretti a lasciare andare nel costante sforzo di essere giusti, adatti, adeguati alla vita adulta, ineluttabilmente. E ha senz’altro a che fare con una parte di noi. E allora per tenerla vicina si può provare a chiamare la vita che continua col nome di quel che si è perduto. Non per confonderli l’uno nell’altro, ma perché la parola continui a risuonare (del resto, nominare le cose è farle esistere). Ma resta soltanto l’eco «di quel ragazzo diventato adulto come un tradimento, colonizzandomi il cuore e la vita». Da quel punto in poi si guarderà alla realtà con un occhio già adulto, e anche la perdita e la morte, che da bambini «viene esorcizzata tenendola vicina, mettendola in scena», prende una nuova consistenza.

Giorgio Ghiotti - Wired Next Fest 2021 -
Giorgio Ghiotti, autore di Atti di un mancato addio

Si comincia ad avvertire davvero che quel che si ama si può perdere, a sentire il bisogno di sfilarsi, di scivolare ai margini delle foto dei progetti che la vita adulta sta proiettando sulla giovinezza personificata attraverso lo sguardo di altri. Poi la paura diventa realtà, e nel quadro degli archetipi di Ghiotti in cui le presenze si incarnano in bagliori di luce arrivano (e scompaiono) un nuovo Giulio e una nuova madre, e il rito di congedo non può che essere officiato nella lingua misteriosa del popolo che è nato per viaggiare. Nella stessa lingua in cui De Andrè scriveva «e domani un fuoco di legna perché l’aria azzurra diventi casa/a raccontare sarà chi rimane, io seguirò questo migrare, seguirò questa corrente di ali». Parole che si potrebbero attagliare bene anche al lavoro di Ghiotti, perché ci vuole coraggio e talento a toccare con tanta grazia il passaggio capitale tra due mondi, tra due prospettive di vita, e rifuggire qualsiasi rischio di didascalismo, offrendo ai propri lettori una storia che scivola via con la freschezza densissima della grande letteratura. Quella che è capace, proprio perché è grande – e la candidatura allo Strega, se vale qualcosa, può certificarlo – di raccontare la vita, la giovinezza. E quello che tutti siamo stati, almeno per un istante. Bellissimi bambini «sciocchi come l’antichità, crudeli come il futuro».