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Gli inganni di un’epoca sono anche i nostri. Il romanzo di Sandro De Feo



Accade talvolta che, per pigrizia e poca lungimiranza editoriale, scrittori e libri di enorme valore vengano lasciati ai margini del panorama culturale, fino a farli sparire del tutto dalle mappe complesse e contradditorie della letteratura. È accaduto soprattutto alle scrittrici, per i motivi che sono oramai sotto gli occhi di tutti (e che qui mi limiterò a riassumere nella formula «un’editoria fatta soprattutto da e per uomini in una società fatta soprattutto da e per uomini; e accade specialmente in Italia, questo paese dalla memoria corta e disgraziata»).

Per fortuna – e non sapete quanta sfacciata fortuna – accade anche che case editrici illuminate, non per elezione divina ma perché semplicemente hanno avuto il coraggio di accendere la luce, decidano di tirarsi su le maniche e andare a rimestare in quel calderone delle meraviglie dimenticate che è il Novecento letterario italiano, ripescando titoli che sono veri e propri capolavori, e proponendoli al pubblico d’oggi con tutta la sconvolgente freschezza e potenza della loro scrittura.

È questo il caso dell’editore Cliquot, che in veste grafica d’irresistibile bellezza propone ai lettori e alle lettrici recuperi di libri ignoti ai più (almeno, faccio tana da solo, a me che scrivo, orecchie d’asino!), accogliendo in catalogo Viaggio di una sconosciuta di Livia De Stefani, i romanzi di Stelio Mattioni, il bellissimo racconto lungo di Laudomia Bonanni Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile o, dolcissima scoperta, un autore come Sandro De Feo. Pugliese di nascita e romano di adozione, De Feo fu protagonista della Roma della Dolce vita ai tavolini di via Veneto con Flaiano (che scriverà parole di grande ammirazione per i suoi romanzi) e Brancati, con Rossellini e Cecchi per i quali lavorerà come sceneggiatore di memorabili film. Critico cinematografico e teatrale, per molti anni (fino alla prematura morte nel ‘68 a poco più di sessant’anni) scrive sulle pagine culturali di “Il Mondo”, del “Messaggero” e di “L’Espresso”.

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Sandro De Feo esordisce tardi nella narrativa – solo nel 1962 – col romanzo, appena valorosamente ripubblicato da Cliquot, Gli inganni, allora edito da Longanesi. Incredibile come riesca a certi libri, a certe scritture, di scampare al tempo, mettersi al riparo da mode e stilemi, gusti e cascami tipici di un’epoca. Certo il titolo sembra partorito dal laboratorio moraviano, con quella peculiarità del romanziere romano di sostantivare sentimenti e aggettivi, e viceversa (La noia, La disubbidienza, Gli indifferenti, Il conformista ecc.); eppure De Feo sfugge a ogni possibile catalogazione o accostamento. Non si fece bersaglio dell’antagonismo delle allora nascenti neoavanguardie neppure coi due libri successivi, non fu letto in chiave borghese anche se alcuni dei personaggi che si muovono ne Gli inganni potrebbero essere dei borghesi, e dei borghesi romani, peraltro.

Ma quali borghesi e borghesi, i protagonisti di questo romanzo, che è per me il più bel libro pubblicato in questi ultimi mesi in Italia, sono degli attori della vita, figuranti, imbroglioni di loro stessi; possono al massimo calare la maschera che si sono dati, lasciarsi andare all’inconcludenza delle giornate, in certe sere ai tavolini di un bar, o nella camera da letto di una prostituta, e in una città come Roma, «città eterna, nel senso che essa eternamente macina e tramuta la sua realtà in repertorio, sicché tutto di lei appare falso, anche i morsi al naso e la stretta ai testicoli, e però si tramanda e dura, così come tutto appare falso ma si tramanda e dura in un repertorio» , questo è tanto più facile che accada. Ma andiamo con ordine (il mio è il disordine felice di chi vorrebbe scrivere, entusiasta, “leggetelo tutti”, e valga come recensione più di molte parole).

Gli inganni è la storia di Antonio, quarantanove anni e anche lui, come De Feo, giunto a Roma per lavorare nel cinema. Mentre la vicenda corre in una manciata di giorni, Antonio è impegnato in un sopralluogo a Villa Adriana dove dovranno tenersi le riprese per un film su Catullo e Lesbia, e già questo anacronismo di Catullo nella Villa d’Adriano, questo falso storico cinematografico, è emblematico di una realtà posticcia che fastidia il protagonista e lo tiene in scacco. Antonio ha una madre morta che da un ritratto lo fissa amorevole sillabando con gli occhi sempre la stessa raccomandazione: abbi cura di Vituccio.

E di questo cinquantenne bambinone e rabbioso Antonio si occupa in virtù della loro antica amicizia, quando entrambi erano a Bari, e in virtù del prozio di Vituccio, Raffaele, il Culacchione (nella valenza di uomo dal grosso sedere e alludendo alla sua possibile omosessualità) impiegato nel ruolo di famiglio dei nonni e poi dei genitori di Antonio. Vituccio di Raffaele ha: un sedere bianco e pieno, esageratamente grande, e una più modesta paura del buio. Ma a differenza del prozio ama le donne, e riesce ad andare solo con le prostitute. Quando piomba in casa di Antonio senza annunciarsi, è per qualche suo affare da sbrigare a Roma: chiedere favori in Vaticano a qualche cugino, o farsi presentare dall’amico a registi e protagonisti del mondo del cinema, che lo deridono senza che lui quasi se ne accorga. Ma quando a Roma tira scirocco, neppure un vecchio amico irascibile e buffo come Vituccio riesce a scacciare via il sentimento della perdita, l’ignavia di cui, in giorni come quelli, l’intera città sembra invasa. «Con lo scirocco passa la voglia di tutto». Persino di amare Silvana, ragazza bella e capricciosa dal sorriso di adulta che ama Antonio, e per sfidarlo gli rinfaccia la differenza d’età baciando poi sulla bocca la propria voglia. «Povera Silvana, un animale è proprio ciò che essa vorrebbe essere e non è».

Tra le avventure in cui s’imbattono Antonio e Vituccio è commovente quella della bambina che, dopo essere stata investita da un camion nei pressi di un chiosco sul ciglio della strada, i due amici portano in macchina al Policlinico di Roma. Subito s’innesta nel protagonista, osservando le fossette sul volto smorto della bambina, l’immagine della Gioconda e della Sconosciuta della Senna. Per un attimo, giusto il tempo di lasciarsi la Nomentana alle spalle e raccordarsi con San Basilio per imboccare la Tiburtina e raggiungere l’ospedale, Vituccio sembra un altro, tira a sé la bambina con apprensione e amore come un padre per non lasciarla andare, per frapporsi tra l’auto che scivola nella notte e il destino. Gli inganni è un lungo racconto fatto di poche istantanee che sono precipitato di molte esistenze, e spazi e stanchezze e desideri, e anni e città e strade e volti e frasi vere o soltanto immaginate portate via dal basso vento romano; istantanee che s’impongono al lettore e restano per sempre nella memoria.

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A destra, Sandro De Feo

È l’occhio di De Feo che registra e svela, poi nasconde e sottende, la temperatura del sentimento umano, scosse sismiche impercettibili a occhio nudo («Sono fatto così, arriva sempre un momento in cui la rabbia mi si tramuta in compassione»), con una lingua che è il vero miracolo di questo libro, così semplice nella sua struttura, così spiazzante nella sua incorrotta bellezza. E più si legge (con la matita in mano per sottolineare frase dopo frase) di Antonio e Vituccio e Silvana e della bambina simile alla Sconosciuta della Senna e del gatto Pietro e del famiglio Raffaele e della madre-ritratto di Antonio, più monta dentro come una rabbia impotente per il grande dolce inganno che è per tutti la vita, quando continuiamo a fare a noi stessi e agli altri promesse su promesse, sapendo benissimo che non ci riuscirà di mantenerne che una su dieci. Finché:

«Un bel mattino, aprendo il balcone e uscendo sulla terrazza del piano attico dove abito, vedrò il cielo pulito e celeste dietro la cupola di San Pietro, allora tutto sarà più facile, voglio dire che sarà più facile resistere a stare al mondo.»

Forse quel che scrive Antonio parlando di Bari e del suo paese vale anche per due epoche così lontane, e apparentemente inconciliabili, come quella de Gli inganni e la nostra tutta fatta di rumore e sottofondi e battaglie a caro prezzo e slogan a bassissimo prezzo: «Nel frattempo, cresciuta Bari e cresciuto il mio paese, si sono andati incontro, e un giorno o l’altro la città grossa finirà per inghiottire la piccola». A ricordarci che, per quanti sforzi siano stati fatti, siamo ancora nella lunga coda imprendibile del Novecento, e sapere accendere la luce diventa allora un dovere morale. Sempre che si accenda la luce della continuità e dello spirito del contemporaneo, e non quella – spacciata per attualità, abbaglio di stella già morta – del rogo a una tradizione (anche letteraria) che ha ancora così tanto da dire, e, arrivando da un passato prossimo e incandescente, ci sorpassa alla grande mentre noi crediamo d’essere il nuovo, il domani, il futuro già spento.



Crediti fotografici:
www.gelestatic.it

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