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Un’anima persa. Nel mondo stregato di Giovanni Arpino

La casa editrice Cliquot riporta in libreria uno dei “classici mancati” del nostro Novecento

«La mia prossima storia si svolgerà attorno a un personaggio assai fuori del comune: una specie di dottor Jeckyll nostrano».

Con queste parole, in un’intervista del 1964 apparsa su «L’Europa Letteraria», Giovanni Arpino anticipa la trama di Un’anima persa che da lì a due anni entrerà a far parte della collana mondadoriana dei Narratori italiani.

Il romanzo non fu tuttavia accompagnato dallo stesso successo delle opere precedenti – il caso della Suora giovane aveva fatto di Arpino uno dei romanzieri italiani più interessanti del panorama letterario nostrano – e Un’anima persa accoglierà tra le sue fila più detrattori che apologeti. Spicca, proprio tra quest’ultimi, il nome di Guido Piovene: in un articolo apparso su «La Stampa», lo scrittore vicentino definì Un’anima persa «il migliore libro di Arpino», passandone poi in rassegna gli aspetti più interessanti e significativi. Altro lettore ed estimatore d’eccezione, seppur giuntovi parecchi anni dopo la pubblicazione del romanzo, fu Jorge Luis Borges – il quale, in seguito alla lettura, riferì di aver assistito a «una storia buenosairense», dotata di una «patente di universalità». Se Un’anima persa è dunque riuscito a stregare Borges, è certamente probabile che all’interno del romanzo di Arpino vi siano elementi degni di interesse e carichi di suggestioni da dover preservare. Oggi, il merito di aver rispolverato un’opera del genere e di averla inserita nuovamente tra gli scaffali delle librerie, lo si deve unicamente alla casa editrice Cliquot, da sempre in prima linea nella ripubblicazione di “classici mancati”, finiti troppo presto negli scantinati delle storie letterarie. Ma ritorniamo ad Arpino.

“Un’anima persa” di Giovanni Arpino (Cliquot, 2025)

È la Torino di fine anni ’60, contemporanea al periodo di stesura e pubblicazione del romanzo, a far da scenografia alle cinque calde giornate estive vissute dal diciassettenne Tino – e ricostruite attraverso le pagine del suo diario. Il giovane protagonista, orfano e ormai pronto a compiere il suo ingresso nella vita adulta, si reca in città per sostenere gli esami di maturità classica: qui, dopo gli anni trascorsi in collegio – luogo che «con tutta la sua orgogliosa organizzazione di piscine e gabinetti medici e cinema [gli] ha messo per troppo tempo nelle narici un invincibile odore di minestra acida» –, troverà ospitalità nella casa della zia materna. In questa delicata fase della propria crescita, spaesato e inesperto, Tino si troverà direttamente coinvolto in un contesto familiare profondamente estraneo e a tratti incomprensibile: zia Galla, la domestica Annetta, zio Serafino – detto l’Ingegnere – si presentano a lui come enigmatiche figure di un mazzo di tarocchi ritrovato in chissà quale polverosa cassetta. Su ognuno dei personaggi aleggia un occulto amalgama di significati e simbologie. Nonostante l’opera aderisca perfettamente alla forma del journal intime, in Arpino risulta fin da subito evidente il ricorso a precisi espedienti narrativi – propri del genere thriller o giallo-poliziesco, come fece notare Piovene – capaci di provocare trepidazione e inquietudine nel lettore. E se da un lato i continui ricorsi all’escalation e alla suspense finiscono per alimentare un’atmosfera di sottile ma palpabile apprensione, dall’altro, come inevitabile e diretta conseguenza, garantiscono una sempre vigile e puntuale attenzione da parte del lettore, le cui angosce arrivano a coincidere con quelle del giovane Tino.

Già dalla prima pagina di diario, incipit del romanzo, risulta inevitabile una compartecipazione ai timori del giovane uomo:

«Ho sempre avuto paura, ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già tra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione. Devo aprire gli occhi, guardare, guardarmi, e finalmente rendermi conto che questa paura è assurda, che la stanza dove ho dormito, benché estranea, non nasconde pericoli, e così la casa, la strada fuori, la città. Poco fa il debole scricchiolio di un passo nella camera sopra la mia mi si è rivoltato in cuore e in gola come una misteriosa minaccia».

Il brivido di Tino è infatti uno dei principali motori del romanzo – e tutte le iniziali minuscole scosse che minano le sicurezze del protagonista troveranno massima espressione in una sorta di “boato finale”. Sarà inoltre la città di Torino, forte del fascino esoterico che la anima e delle oscure leggende che da sempre porta con sé, ad appesantire ulteriormente l’atmosfera e a incidere sui cangianti umori del protagonista. Le enormi piazze, le fabbriche fumose, i signorili e austeri palazzi nobiliari, il recinto alpino che sembra precludere ogni via di fuga: Torino si presenta immediatamente come una città «imprendibile e assente, fuori di me» – sentenzia lo stesso Tino; o, peggio ancora, come una città subito pronta a ingabbiarlo e a piombargli addosso «come un bicchiere sopra una mosca, che invano s’arrampica e rigira su e giù lungo le pareti, stordendosi del suo stesso accanimento».

E non sarà neppure il rientro fra le mura domestiche a concedere il minimo riposo alle ambasce del povero Tino. La casa, luogo per antonomasia deputato a proteggere dalle incursioni del mondo esterno, disvela l’ombroso rovescio della facciata, offrendo la porzione più oscura e misteriosa della propria natura, ricolma di tenebrose presenze e custode di un irrivelabile segreto. Impossibile non pensare alla narrativa di Landolfi, soprattutto al suo Racconto d’autunno, in cui è proprio la casa – demoniaca, infestata da presenze e destinata all’inesorabile crollo – a fungere da ambientazione principale e a occupare il centro narrativo dell’intera storia, divenendo così la vera e sola protagonista; o alle pagine di Alberto Savinio, dove poltrone, tavolini e altre parti del mobilio sembrano animate da spettri e bonari fantasmi.

Appena varcata la soglia dell’abitazione, le parole che la vecchia domestica Annetta rivolge a Tino lo portano subito al corrente della «superna presenza» che si agita nella soffitta: stando ai racconti della anziana donna (e dei pettegoli cugini di Cuneo), si tratterebbe di un fratello gemello dello zio ingegnere, «un deficiente che da vent’anni tengono chiuso in una stanza di questa casa» e a cui tutti si rivolgono con il nomignolo di «Professore». Si racconta inoltre che abbia vissuto per lungo tempo in Africa, «in conto proprio e senza mai rendere ragione di sé ad anima viva», per poi presentarsi in casa degli zii dopo essersi “ammalato”: da allora, chiuso in una stanza al piano superiore, pare che non abbia proferito parola alcuna e nessuno – eccezion fatta per l’ingegnere – ha la facoltà di avvicinarglisi. Come unica modalità di espressione e dialogo con il resto della famiglia, il Professore ricorre a incomprensibili filmini e ad altrettanto bizzarre fotografie, i cui unici soggetti possibili – vista la nudità della stanza – sono solitamente vespe, formiche o spogli angoli di muro. La curiosità di Tino nei confronti del parente misterioso diventa inevitabilmente morbosa, al punto da assediarlo anche durante le letture e i ripassi che precedono gli esami di maturità: il cruccio dello zio di famiglia, misteriosa presenza che orbita e si dimena sopra la sua testa, sopraggiunge anche nei momenti in cui il giovane farebbe meglio a concentrarsi su Kant e le ossidoriduzioni. In passaggi del genere, Arpino rivela la propria abilità – oltre che di narratore – di conoscitore di tipi umani, riuscendo a scavare e delineare con dovizia di particolari la psicologia dei propri personaggi – individui solitamente sui generis, eccentrici, atipici, spesso veri e propri reietti.

“Un’anima persa” – edizione 1966 Mondadori

Il caso di Un’anima persa, tuttavia, risulta leggermente diverso: trattandosi di un romanzo dai toni e dalle ambientazioni totalmente borghesi, parrebbe difficile accostarlo al picaresco esordio di Sei stato felice, Giovanni o ai successivi Domingo il favoloso e Randagio è l’eroe – e se vogliamo, perfino alla turbolenta e scissa Serena della Suora giovane; eppure Arpino, nonostante la ristrettezza della scenografia da “gruppo di famiglia in un interno”, riesce a rendere con estrema lucidità i caratteristici toni squallidi e miserandi che permeano la propria opera narrativa: «armadi straripanti di oggetti, sedie e sgabelli impagliati e sconnessi, bauli e scope e grucce e tappeti consunti, una gabbia per canarini e persino un casco coloniale roso dalle tarme», «cumuli di mozziconi [che] giacciono ramazzati di malavoglia dietro queste porte, e poi stracci, bicchieri e tazze e posacenere rotti, festoni e nappe di tende appesantiti dalle ragnatele»; e infine «bottiglie vuotate a metà, fondi di vini e di liquori» che emanano «una putrida vampa».

L’agiata e apparentemente scialba vita borghese che conducono i due zii viene così posta al setaccio, rivelando una propria dimensione sotterranea impregnata di marciume e putredine. L’ammasso di oggetti disordinati, inutili, sbeccati, riflette la presenza di un oscuro sottosuolo: una realtà ulteriore, più viscerale e sanguigna, da dover nascondere come polvere sotto al tappeto. Non è certo un caso che uno dei temi più importanti del romanzo si regga proprio sul tentativo – sottilmente condotto da Arpino – di smascherare dogmi e apparenze della frivola borghesia cittadina, mostrandone la seconda e orribile faccia, tenuta solitamente nascosta o per vergogna di sé o per paura del giudizio altrui. Con le sue dichiarate sfrenatezze e perversioni, con i suoi appetiti (sessuali e non), con le sue manie e i suoi vizi, il “gemello” dello zio Serafino incarna alla perfezione l’indole segreta di questa seconda faccia. È lui l’uomo del sottosuolo – pur venendo collocato, forse con volontaria e sapiente ironia da parte di Arpino, al piano superiore.

Nulla ci vieta, pertanto, di considerare l’avventura di Tino come una sorta di catabasi: una discesa agli Inferi che il protagonista-eroe, trovandosi in un momento cruciale della propria vita, è costretto a intraprendere. La caduta nei cupi bassifondi di una famiglia borghese si colora di fosche tinte, in ossequio a quella nekyia che Giacomo Debenedetti considerava prerogativa di ogni romanzo ben compiuto. E al giovane Tino, ormai postosi dinanzi all’orrido, non resta che rimuginare su quanto visto e vissuto: senza sapere se riuscirà mai a schiodarsi da tutto ciò, scaraventando ogni cosa in aria con la semplicità di una risata, o se vi rimarrà invece intrappolato, come povera anima persa, «nel suo stregato telaio di incertezze, silenzi, follia».

Immagine di copertina: un primo piano di Giovanni Arpino © Premio Strega – Fondazione Bellonci

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