Comma 22

L’epoca del lavoro culturale interiore. Uccidi l’unicorno di Gabriele Sassone


Il sorriso di due cowboy bambini si affaccia da un poster preparato in uno studio fotografico. I due si scambiano smorfie, divertiti e incuranti della taglia – in valuta statunitense – che gli pesa sulla testa. Il souvenir è stato realizzato con un software per il fotoritocco ormai preistorico. Siamo nell’estate del 1989, e il protagonista scorge nell’immagine una premonizione: «Dopo aver posato, io e mio fratello ci facciamo largo tra sandali ed espadrillas per raggiungere le frontiere della Storia. Nessuno può accorgersene, né gli studiosi, né i nostri genitori, ma il concetto di tempo sta mutando: da lì a poco, il 9 novembre per essere precisi, il tempo diventerà una materia plastica. Crollerà, mattone dopo mattone». Il riferimento, naturalmente, è all’abbattimento del muro di Berlino, ma si omette la relazione tra la fine della cortina di ferro e il passaggio di stato della “materia tempo”, la trasmutazione che le conferisce una friabilità sconosciuta fino allora.

Il passaggio è contenuto nell’ultimo quarto di Uccidi l’unicorno (Il Saggiatore) e offre un’interessante fenditura nell’architettura del romanzo d’esordio di Gabriele Sassone. Un romanzo congegnato proprio intorno alla plasticità del tempo, che si aggroviglia, si accavalla in strati. Il primo è un meccanismo a orologeria che costringe il protagonista – occupato presso un’accademia delle belle arti – a imbastire in una sola notte una presentazione per un convegno che si terrà il giorno seguente e sopperire all’assenza del docente di Storia dell’Arte. Tema: “L’arte ai tempi dei social media”. Quindi una lotta contro il tempo che sfiora Vincent Van Gogh, Marcel Duchamp e Joseph Beuys, tra gli altri, alla ricerca dell’ingrediente sfuggente che sancisce il «momento in cui si diventa artisti». C’è tempo anche per contemplare la moglie e il giovanissimo figlio assopiti, tagliarsi con i cocci di una tazza scivolata di mano, visitare la toilette, alternare momenti di lucidità, euforia, sconforto, all’ascolto brani rock che evocano l’adolescenza e, soprattutto, maledire un intoppo tecnico che prolungherà la veglia indefinitamente.

Gabriele sassone

Su questo tempo, scarso e inflessibile, se ne deposita un secondo, morbido e ondivago: lo studio illumina alcuni ricordi dell’io narrante –da qui in poi lo chiameremo, per comodità, con il nome dell’autore – che specchiano, dialogano e, in un certo senso, danno corpo agli argomenti esposti nel PowerPoint. Il materiale narrativo emerge a fiotti componendo un quadro che – per estendere l’allegoria artistica – potrebbe definirsi puntinista: la vita e le idee di Gabriele si manifestano per corpuscoli, aneddoti concisi, divagazioni i cui snodi si colgono facendo un passo indietro, osservando l’insieme.

Gabriele è un uomo misurato, mite. Adopera frequentemente una metafora che porta con sé dall’infanzia – «ombre allacciate alla gola» ­–­ per dire tanto dell’esitazione che ha all’idea di esporre a una platea, quanto della paura, remota, al primo giorno di scuola. Le ombre allacciate alla gola sono la visualizzazione dell’incapacità di proiettarsi completamente nel mondo, di abitarlo senza fatica. D’altronde, nonostante ne sia sottilmente sedotto, è naturalmente respinto dalle manifestazioni più ingombranti dell’affermazione di sé che intravvede tanto nella costruzione di palazzi troppo alti in centro città, quanto nello sguardo di un ittiosauro che lotta contro un plesiosauro in un’illustrazione di Édouard Riou per Viaggio al centro della Terra di Jules Verne («il nucleo di questo timore non è contenuto nei denti, bensì negli occhi. Sono occhi diabolici. E cioè esprimono una morale. La tavola disegnata da Riou testimonia che questi animali mordono perché sono consapevoli di procurare dolore»). D’altro lato, però, non ha mai scansato le bravate adolescenziali, i rituali d’iniziazione cui la vita lo ha sottoposto, tra cui questa nottata insonne: un percorso di formazione, iniziatico in cui conquisterà la consapevolezza della differenza tra disillusione e sconfitta.

Gabriele sassone
Jules Verne – Voyage au centre de la Terre, ilustración de Édouard Riou (1867)

Gabriele ha un’agenda in cui custodisce le foto di alcuni scrittori: Federigo Tozzi, Luigi Di Ruscio, Paolo Volponi, Luciano Bianciardi. Numi, esempi di austero distacco dalle lusinghe e dalle scorciatoie della ribalta, spiriti critici e autori generosi, attenti, sottili cui chiede protezione dalla mediocrità, dalle frustrazioni e dai tormenti che hanno assillato anche gli eroici protagonisti del PowerPoint. Si sente privo della loro protezione durante la lunga sessione di auto-analisi notturna, quando si osserva come un impiegato — o un lavoratore — della cultura. I santini laici recupereranno la funzione tutelare nel finale, speculare all’incipit, nel quale il protagonista si concede la possibilità di affrontare il mondo con decenza e franchezza, senza posture granitiche o trancianti.  

Inciso: Eccoci tornati al poster con i mini-cowboy. La fine simbolica della bi-partizione del mondo ha offuscato velocemente le correnti, progressivamente più categoriche e diffuse nel Novecento, che individuavano nella produzione di “arte alta” un perno del processo di emancipazione politica e sociale dei popoli. La voce narrante non lo chiarisce ­– forse non ci pensa, forse preferisce non chiarirlo ­– ma probabilmente da lì nasce l’incommensurabilità tra il senso quasi-religioso (come racconta Susan Sontag in The Aesthetics of Silence), da missione esistenziale del fare cultura e l’impotenza, le frustrazioni e, a un livello diverso, le meschinità e le goffaggini di artisti periferici e operatori tronfi che albergano le sottotrame di Uccidi l’unicorno.
La scrittura è elegante, la cadenza omogenea dell’incedere abbraccia regionalismi e termini colloquiali (gli assi periferia-centro, classe lavoratrice-élite sono, sottotraccia, importanti) e regge un flusso apparentemente divagante di pensieri che si sedimentano in uno dei romanzi ispirati all’arte – insieme al Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio ­– più interessanti negli ultimi anni.

Bonus: i miei due non sequitur preferiti nel libro.

«Una volta, durante una riunione, la project manager ha citato Walter Benjamin pronunciandolo all’americana, Uolter bengiamin. Io ho annuito e poi ho finto di prendere appunti.»

E anche:

«Per curiosità digito su Google “Arnold Schwarzenegger peso” e scopro che il suo bicipite ha una circonferenza di poco inferiore alla larghezza delle mie spalle.»